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25.4.17

Bassano del Grappa, 1944. Vittorio 'Livio' Sandini aveva 12 anni e fu torturato dai fascisti, che lo appesero a testa in giù in un pozzo profondo 25 metri. Ma non rivelò mai dove si erano nascosti i tre fratelli Una storia rimasta sconosciuta per 70 anni



Non riesco , e quindi mi contraddico con quanto ho scritto precedentemente , a stare zitto e a non scrivere di tale argomento davanti a simili storie pèoco note e che avrebbero rischiato l'oblio

repubblica  25 aprile 2017

Livio Sandini: la storia dimenticata del bambino eroe che salvò la vita ai fratelli partigiani
Bassano del Grappa, 1944. Vittorio 'Livio' Sandini aveva 12 anni e fu torturato dai fascisti, che lo appesero a testa in giù in un pozzo profondo 

Lo storico: "Così i nazifascisti hanno commesso l'eccidio del Grappa"

25 metri. Ma non rivelò mai dove si erano nascosti i tre fratelli
Una storia rimasta sconosciuta per 70 anni e che ora Repubblica racconta per la prima volta



Storia di Livio: torturato dai fascisti, non tradì i fratelli partigiani


BASSANO DEL GRAPPA - Il pozzo è ancora lì, proprio come 73 anni fa. Il pozzo di casa Sandini, in contrada Rivana, riforniva di acqua tutti i vicini, gli abitanti di quelle quattro o cinque case che allora erano in aperta campagna e oggi si ritrovano inglobate nella periferia di Bassano del Grappa. Nuovi edifici sono stati costruiti, ma nel 1944 qui c'era solo una strada sterrata, alcune abitazioni e campi coltivati.
Il pozzo è ancora lì, ancora di proprietà dei Sandini, ma oggi è nascosto tra le nuove costruzioni. Quasi dimenticato, come la storia di cui è stato testimone.
Era l'estate del '44, gli alleati combattevano lungo la linea gotica, ma Bassano era ancora troppo a nord per sperare che la Liberazione potesse arrivare presto. In quei mesi il massiccio del Grappa era un incubo per i nazifascisti. Tre formazioni partigiane, per un totale di forse milleduecento uomini, facevano base e si nascondevano lì.
Erano le settimane che precedevano l'Eccidio di Monte Grappa (la scheda). Una strage che cambiò - come in altre parti d'Italia - l'atteggiamento della popolazione civile, terrorizzata dalla ferocia nazifascista. Ma fino a quel momento tra partigiani e civili c'era stata quasi una comunanza di intenti. L'antifascismo era diffuso, i soprusi dei tedeschi e dei loro alleati di Salò erano la regola più che l'eccezione.

La caserma Efrem Reatto (oggi Montegrappa) base dei nazifascisti durante l'occupazione

I montanari e i contadini coprivano e aiutavano chi si batteva contro gli oppressori. Non solo sul massiccio del Grappa: in pianura c'erano altri gruppi partigiani meno strutturati che agivano sotto traccia, con azioni di sabotaggio piccole ma frequenti. Tra loro c'erano i fratelli Sandini.
Tornati dal fronte e renitenti alla leva della Repubblica sociale insieme ad altri vicini di casa, Domenico, Giovanni e Mario Sandini erano solo una parte della famiglia che viveva in contrada Rivana. Antonio, il secondogenito, nato nel 1920, era stato già deportato in Germania perché finito in una lista di indesiderati del regime. Tornerà sano e salvo solo alla fine della guerra. C'erano poi due sorelle: la più grande, Adele, era già sposata e viveva a Nove con il marito.
Domenico, il più grande, era del 1918, Giovanni del '22, Mario del '24. Avevano quindi tra i 26 e i 20 anni. A casa vivevano con la madre, Maria Zonta, e con il fratello piccolo, classe '32, Vittorio. Che aveva solo 12 anni. "Il nome ufficiale era Vittorio - spiega oggi Ugo Sandini, il nipote - ma in famiglia l'abbiamo sempre chiamato tutti Livio. Non so perché, ma per noi era solo zio Livio".
I tre fratelli, spinti certo anche dall'arresto e dalla deportazione del fratello Antonio, presero contatto con i gruppi partigiani e furono impegnati in azioni di piccolo sabotaggio contro i nazifascisti. Era la linea decisa dal comandante di zona: non fare azioni tali da scatenare le rappresaglie tedesche. Una volta i Sandini diedero fuoco a un grande quantitativo di sterpaglie lungo la linea della 'vaca mora', come nella zona era chiamato il treno che univa la città con Vicenza. Da Marostica a Bassano la linea rimase interrotta. Nessuna vittima, ma anche quella per alcuni abitanti della zona fu una provocazione troppo grande, che sarebbe stato meglio evitare. Un'altra volta rubarono le campane di bronzo delle chiese che erano state requisite dai tedeschi per fonderle e le nascosero nei campi: alla fine della guerra tornarono al loro posto.
Piccole o grandi che fossero, le azioni dei tre Sandini fecero rumore e Domenico, Giovanni e Mario entrarono nel radar dei fascisti della zona, guidati da giugno del 1944 dal tenente Alfredo Perillo, scelto anche perché parlava tedesco e quindi poteva tenere al meglio i contatti con i nazisti. L'Ufficio politico investigativo del tenente Perillo si insediò in quei mesi in un piccolo edificio accanto alla caserma Efrem Reatto, oggi chiamata caserma Montegrappa, in disuso e in attesa di ristrutturazione.
Al piano terra del piccolo fabbricato c'erano gli uffici della segreteria e la sala degli interrogatori, al primo piano la zona dove venivano tenute le donne e poi uno scantinato minuscolo, dove passavano i partigiani e dove venivano detenuti i sospettati prima di essere interrogati.
"Era una cantina che aveva un'area di tre metri per tre metri e con un solo piccolo pertugio, una finestrella; lì si trovavano normalmente più di 40 detenuti, i quali erano costretti a dormire in piedi l'uno accanto all'altro, senza acqua, senza aria e senza latrina"Con queste parole l'avvocato Antonio Gasparotto ricordava dopo la guerra (forse esagerando un po' sul numero di prigionieri) com'era quello scantinato. Nove metri quadrati d'inferno.

L'unica finestrella della cantina dell'Ufficio politico investigativo

La caserma e l'annesso edificio di Perillo erano il centro del fascio a Bassano. In quella caserma, nei giorni dell'eccidio, avvennero almeno 17 fucilazioni. Altri 14 partigiani furono costretti a scavarsi la fossa, per poi essere freddati da una raffica di mitra.
Da mesi Perillo osservava i Sandini e quello che succedeva in contrada Rivana. Addirittura aveva chiesto informazioni sui tre fratelli al parroco della Santissima Trinità, don Marco Carlesso. Il prete ebbe pochi dubbi sulle intenzioni di Perillo e avvisò i tre fratelli. Era piena estate e i tre ragazzi iniziarono a fare turni di guardia, controllando sempre chi girava nella zona e se delle auto si avvicinavano alla contrada. Avevano anche predisposto un nascondiglio: erano pronti ad andare a Nove, a nascondersi a casa della sorella Adele.
Erano quindi pronti la notte dell'11 settembre '44 quando videro arrivare la retata dei fascisti. "Corsero via, attraverso i campi coltivati a granoturco, c'era questo granturco molto alto, e si fermarono nei campi della mia famiglia, a 300-400 metri da casa loro". A ricordare quel giorno non c'è rimasto nessuno, se non Ilario Polo. Aveva 13 anni, uno in più di Vittorio 'Livio'.
La storia di quel giorno della famiglia Sandini non è mai stata raccontata in 70 anni, se non dalla voce di Ugo Sandini, figlio di Domenico e nipote di Livio, e accennata in un libro di Francesco Tessarolo, presidente della Fivl e storico della resistenza bassanese. Ma è un racconto che è rimasto circoscritto, chiuso, nascosto anche perché i fratelli, di quei giorni, di come hanno visto la morte arrivare ma l'hanno scampata, non hanno mai voluto parlare. È una storia di cui nessuno al di fuori della contrada ha mai sentito nulla. "Ma qui intorno, quella storia, tutti la sapevano", racconta Ugo Sandini.

I campi della famiglia Polo oggi. In linea d'aria il pozzo dista circa 400 metri


I fascisti arrivarono a notte fonda a casa Sandini, ricorda Polo, e naturalmente non trovarono i tre fratelli. Qualcuno aveva fatto la spia, e il commando andò su tutte le furie. Rabbia che si sfogò contro chi era in casa, la signora Maria e il piccolo Livio. "Sentivamo le mitragliatrici - racconta Polo - ero alla finestra di casa, in linea d'aria era pochissimo, ma era buio e non si vedeva". Si sentiva però, e si sentiva benissimo anche dal campo di granoturco dove Domenico, Giovanni e Mario si erano nascosti. E sentivano la madre e il fratello, poco più di un bambino, urlare.
I fascisti picchiarono la donna. Le puntarono una pistola alla tempia: "Dove sono i tuoi figli?". Non lo so, non sono qui, rispondeva la signora Maria. Le misero vicino all'orecchio la mitragliatrice e spararono in aria. "Volevano farle perdere la testa", spiega Polo. Le legarono anche una corda al collo, come un guinzaglio per un cane, ma lei non parlò, nemmeno quando le schiacciarono la mano con gli scarponi d'ordinanza.
Per farla parlare picchiarono anche Livio. Lo riempirono di botte. Dicci dove sono i tuoi fratelli. "Non lo so, sono andati via da tempo, non so dove sono". Inutile dire che Livio sapeva benissimo che erano appena scappati e che avevano predisposto il nascondiglio a casa della sorella Adele.
Dicci dove sono e dove si sono nascosti. Non lo so, non lo so, ripeteva Livio. Non lo so, lasciatelo, protestava disperata la signora Maria. Non si volevano arrendere e speravano che il dodicenne alla fine avrebbe parlato.


Il pozzo oggi: seppur coperto da una grata, è ancora lì


Se già picchiare una donna non è un atto nobile, l'infamia di quella notte toccò picchi più bassi ancora. Perché qualcuno del commando prese la corda che legava il secchio per prendere l'acqua in fondo al pozzo e la legò ai piedi di Livio. Che fu calato a testa in giù per oltre 20 metri nel pozzo, fino in fondo. Dove sono? "Non lo so". Inamovibile dalla sua posizione, nonostante il buio, il terrore, gli spari che sentiva. Sapeva il piccolo Livio che c'era una sola cosa da fare. Stare zitto, non parlare, non tradire il segreto dei fratelli.
Dal campo si sentiva tutto, e seppur parlando sottovoce per non farsi sentire, i tre fratelli discussero animatamente. Pensarono di tornare indietro, ma non avevano armi, valutarono di consegnarsi per fare smettere quella tortura. Nel campo di grano nel frattempo erano arrivati altri vicini, c'era il padre di Ilario Polo, c'era don Carlesso. "Mio padre alla fine ha insistito e li ha convinti. 'Se tornate indietro, vi ammazzano, vi ammazzano. Meglio che state qui buoni'. Ha avuto ragione, li avrebbero ammazzati".
Probabilmente il signor Polo sperava che con una donna e un bambino almeno questo tabù i fascisti l'avrebbero avuto. I tre fratelli si convinsero, e rimasero dove erano.
Livio non parlò, e furono costretti a tirarlo fuori dal pozzo. Ma i fascisti non rinunciarono. Lo portarono via e lo rinchiusero insieme ad altri nella cantina dell'Ufficio politico. Dove rimase - e qui i ricordi divergono - "mezza giornata" secondo Ilario Polo o "alcuni giorni" secondo quanto tramandato in famiglia. Nemmeno lì parlò, anche perché il peggio l'aveva già visto in fondo al pozzo e dopo aver resistito a quella tortura non era certo tipo da farsi piegare da una prigionia, seppur in una cantina asfissiante e sovraffolata.
"A quel punto - ricorda ancora Ilario Polo - don Carlesso andò a parlare con il tenente Perillo e lo convinse a liberare il ragazzo". Così Livio, con il suo segreto, poté tornare a casa. "Non sapevo - interviene Ugo Sandini - che ci fosse stata l'intercessione del parroco, ma è possibile. Lui si era speso molto".
I fascisti non si sono più avvicinati a contrada Rivana. I tre fratelli, dopo quelle ore di terrore, rimasero nascosti nella cantina della sorella Adele, uscendo poco e solo di notte, fino alla fine della guerra. Si salvarono. O meglio furono salvati: dal coraggio della signora Maria e soprattutto di Livio.


I fratelli Sandini nel 1961, al matrimonio di Livio. Da sinistra: Antonio, Mario, Livio con sua moglie Danila, Giovanni e Domenico

Danila Sandini, moglie di Livio, lo ha conosciuto dieci anni dopo e lo ha sposato nel 1961. C'è una foto, proprio di quelle nozze, che ritrae i 5 fratelli insieme. C'era anche Antonio, tornato dal campo di prigionia in Germania. Una foto che è lì a testimoniare l'eroismo di un bambino.
Danila Sandini non è una testimone diretta di quella notte, ma racconta: "Livio non aveva piacere di parlarne, era una cosa che voleva dimenticare". Conferma Ugo: "No, in famiglia non se ne parlava molto. Anche mio padre Domenico non mi ha mai raccontato molto di quel periodo. Ho saputo di più da mia madre che da loro. Quando ero adolescente chiedevo, volevo sapere, ma era difficile farli aprire. Penso sia naturale, un sistema di difesa".
Livio è morto nel 2004, dopo una lunga malattia. Ha vissuto 60 anni con il ricordo del pozzo, di quei 25 metri di buio, con le grida della madre, i suoni della mitragliatrice dei fascisti, di quello scantinato pieno di partigiani. "C'era un particolare che ripeteva sempre, quelle poche volte che me ne parlava - ricorda Danila - il fatto che l'avessero portato via scalzo. 'Nemmeno le scarpe mi hanno fatto mettere', diceva". Commossa, Danila conclude: "Com'era Livio? Una persona buona".


Foto di famiglia: il pozzo nei primi anni '60; Antonio Sandini di fronte alla casa di famiglia; Livio Sandini con i nipoti davanti al pozzo, anni '70
L'offensiva nazifascista, denominata in maniera roboante 'operazione Piave', che il 20 e 21 settembre 1944 annienterà le formazioni partigiane sul massiccio del Grappa è passata alla storia come rastrellamento o eccidio del Grappa. Il bilancio parla di centinaia di morti, seguiti a fucilazioni e impiccagioni. La popolazione fu terrorizzata: tre donne furono rasate a zero e fatte sfilare per le vie con un cartello appeso al collo: "Alle donne che offrono le loro grazie ai partigiani".
Trentuno giovani, alcuni appena saliti in montagna perché renitenti alla leva della Repubblica Sociale, furono catturati e impiccati agli alberi dei viali principali di Bassano.
Oggi delle targhe li ricordano, una per ognuno dei lecci che fiancheggiano via dei Martiri. Furono 'solo' 31 perché intervenne il vescovo di Vicenza e fermò lo scempio. Ma quei 31 rimasero appesi per 22 ore, abbastanza perché i maestri della scuola cittadina portassero in gita gli alunni a vedere che fine facevano i partigiani.
Tra i bambini c'era chi piangeva, chi si sentiva male e chi rimase più freddo, ma certo nessuno avrà mai dimenticato. Ricorderà Tina Anselmi, futura ministra della Repubblica, che era tra quegli alunni: "Fu straziante, una scena che mi lasciò turbata per molto tempo, che mai potrò cancellare dalla memoria".



Lo storico: "Così i nazifascisti hanno commesso l'eccidio del Grappa"


Oggi delle targhe li ricordano, una per ognuno dei lecci che fiancheggiano via dei Martiri. Furono 'solo' 31 perché intervenne il vescovo di Vicenza e fermò lo scempio. Ma quei 31 rimasero appesi per 22 ore, abbastanza perché i maestri della scuola cittadina portassero in gita gli alunni a vedere che fine facevano i partigiani.
Tra i bambini c'era chi piangeva, chi si sentiva male e chi rimase più freddo, ma certo nessuno avrà mai dimenticato. Ricorderà Tina Anselmi, futura ministra della Repubblica, che era tra quegli alunni: "Fu straziante, una scena che mi lasciò turbata per molto tempo, che mai potrò cancellare dalla memoria".





Una delle lapidi in memoria delle vittime dell'eccidio




14.1.16

La rivolta di Musi: «Via quei profughi» Ecco il paese del Friuli dove vivono 6 abitanti e 8 immigrati. La gente: «Abbiamo paura. La sera ci chiudiamo in casa»

va bene che la paura e l'indifferenza fanno parte della natura umana ma qui si esagera e si sconfina se non lo si è già in razzismo , xenofobia ed odio verso quello che , SIC , chiamiamo ipocritamente il diverso . E' il caso vergognoso di questo paese . Sta avvenendo proprio come il film il vento fa il suo giro di Giorgio Diritti.




Ecco a cosa porta l'odio e il becero populismo seminato in questi ultimi 25 anni ( come già anticipavano i Mcr in Giro di vite che poi è la colonna sonora del post d'oggi insieme  al  cd   , non saprei  sono una più toccante  dell'altra  canzoni-per-bhalobasa)

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 di Davide Vicedomini








LUSEVERA. A Musi, ieri mattina, tra le nuvole faceva capolino il sole. Un fatto eccezionale, se si pensa che questa piccola frazione incastonata tra le Alpi Giulie, detiene il record italiano di piovosità. Da alcuni giorno nella borgata di Lusevera il tempo è passato, però, in secondo piano. A interrompere la quotidianità sono arrivati, infatti, otto richiedenti asilo. Un gruppo sparuto numericamente, non fosse altro che supera quella dei residenti, appena sei.
Otto profughi in un paese di 6 abitanti: ecco le reazioniL'arrivo di otto profughi in un paese di sei abitanti ha provocato una serie di reazioni: non danno fastidio, dicono i residenti, ma dovrebbero andare altrove. E c'è chi ha paura di uscire di casa. Di parere diverso il sindaco Marchiol, che li ha incontrati e che rassicura la popolazione: sono ragazzi tranquilli e desiderosi di integrarsi. Ecco le interviste raccolte da Davide Vicedomini




Lusevera era già abituata ad accogliere i profughi. Diciassette sono alloggiati a Vedronza. Ma nessuno aveva mai fatto polemica. Nessuno si era azzardato ad alzare gli scudi. A Musi, invece, quei ragazzi di etnia afghana e pakistana danno fastidio. Dà fastidio soprattutto il fatto che nessuno fosse stato informato del loro arrivo. «La sera tra il 29 e il 30 dicembre abbiamo visto due auto scaricare alcune persone vicino alla chiesa del paese - racconta Annamaria Lendaro, che è “la custode” del paese, l’unica che giorno e notte vive a Musi, mentre tutti gli altri lavorano -. Il giorno dopo ci siamo domandati chi fossero quelle persone. Fino a quando li abbiamo visti sbucare da quella casa che è di proprietà di un’associazione. E abbiamo capito che erano stranieri. Ed erano tanti».
Annamaria non si sente sicura e preferisce stare chiusa in casa tutto il giorno. «Non vado nemmeno in cimitero - confida -. Non sono abituata a vedere gente strana. Mi ha colpito il fatto che non tengano le finestre aperte. Li vedo uscire ogni tanto a telefonare».
«Io li manderei via - attacca -. Non hanno fatto nulla di grave. Ma non capisco perchè li abbiano spediti qui. Un mio vicino ha anche chiamato i carabinieri. Abbiamo paura che ne arrivino altri».
Gli otto ragazzi alloggiano nella sede della cooperativa sociale “Il Pinocchio” di Brescia, nel centro del paese. All’interno c’è tutto il necessario per vivere comodamente. C’è una cucina, una lavanderia, una sala da pranzo enorme con due tavole da dieci posti l’uno e sei stanze.
Quando ci rechiamo sul posto con il sindaco Guido Marchiol, durante la sua prima visita ufficiale, verso le 11, i richiedenti asilo sono ancora a dormire. Ma accedere nei locali non è difficile perchè la porta è aperta. Salutano, parlano in un italiano stentato, nonostante otto mesi di lezioni e offrono il caffè. Mentre chiacchierano e raccontano le loro singole storie, fatte di sofferenze e speranze, ricevono anche la visita dei carabinieri. I militari per tutta la durata dell’incontro tengono a vista la borgata con diversi pattugliamenti.
«Non conosciamo nessuno – dicono i ragazzi, che hanno un età compresa tra i 20 e i 28 anni –. Nessuno degli abitanti è venuto finora a trovarci».
E in effetti la vita a Musi è da separati in casa. «Noi non li vogliamo - sbotta Odorico Lendaro -. Hanno sconvolto la nostra tranquillità. Qui ci sono solo arbusti e fauna. Perchè sono arrivati qua? Chi li ha mandati? E perchè nessuno ci ha avvisati?». «Parlano in arabo al telefono - continua -. Non capiamo nulla. Arrivano fin sotto la mia casa. Mi sento spiato. Prima potevo girare per il paese tranquillo. Potevo lasciare la porta di casa aperta. Oggi non lo faccio più. Sono strani. A Capodanno ho visto uno di loro che era scalzo e inginocchiato. Forse pregava. Un altro, una sera, era vestito di bianco e gesticolava. Sembrava un fantasma».
A Musi una volta c’erano anche tre osterie e la sezione distaccata dell’Università di botanica. Oggi di quel paese è rimasto ben poco. Si contano di più le seconde case, e quelle in vendita. Separato da un torrente c’è la borgata di Simaz - l’altra, la più numerosa, è quella di Tanataviele - dove c’è un solo abitante. E’ Flavio Coletto che dice sorridendo. «Abbiamo avuto un incremento improvviso di popolazione. Non eravamo abituati a questo. Li ho visti qualche volta giocare a cricket. Ma spesso sono chiusi in casa, anche perchè qui spesso piove e non c’è molto da fare. Altrimenti girano per il paese con il cellulare, forse per cercare campo, visto che le linee stentano a prendere e internet è lentissimo. Non disturbano ma mi domando perchè li abbiano portati qua».
Flavio bada ai suoi due cavalli. Si sveglia la mattina presto per mandare avanti la propria attività. «Certo - conclude -, dà un po’ di fastidio vedere che queste persone ricevono 35 euro al giorno e hanno tutti gli agi, mentre io mi devo svegliare tutte le mattina alle 4 per sopravvivere».

15.3.15

«Adliana, troverai riposo a Valle» Il sindaco Gatti Comini offre una tomba per la giovane lucciola assassinata nella sua casa di Pavia


musca  in sottofondo  \  colonna  sonora  :
   La  canzone di Maristella - Fabrizio De  Andrè


http://laprovinciapavese.gelocal.it/pavia/cronaca/ 15 marzo 2015

«Adliana, troverai riposo a Valle»
Il sindaco Gatti Comini offre una tomba per la giovane lucciola assassinata nella sua casa di Pavia 

                  di Maria Fiore

Alla rotatoria della ex statale Bronese, a due passi dal ponte della Becca, dove la giovane si prostituiva, sono comparsi vasi di fiori e rose bianche. Messì lì forse da un cliente oppure da qualche automobilista che, passando ogni giorno in quel punto, si era abituato alla presenza di quella ragazza. Una giovane descritta da tutti come molto «riservata» ma la cui dolcezza, oggi, è ricordata con tristezza e smarrimento. «Ci siamo sentiti tutti toccati da questa vicenda – dice ancora il sindaco –. Per questo, siamo disponibili a trovare una soluzione per i funerali, se fosse necessario. Come Comune non abbiamo purtroppo soldi a disposizione, ma alcuni cittadini si sono già offerti di dare un contributo per i funerali»








Due fratelli della ragazza avrebbero risposto all’appello della questura, non appena hanno ricevuto la notizia dal consolato. Resta però ancora da capire se l’intenzione della famiglia è di portare la salma in Albania oppure di celebrare i funerali in Italia, a Pavia o a Torino, dove la giovane donna si era sposata, un paio di anni fa. Un matrimonio forse contratto per il permesso di soggiorno. Adliana Picari si era infatti trasferita a Pavia da sola, nell’appartamento al numero 501 di viale Cremona, dove lunedì sera ha trovato la morte. La donna, secondo quanto ricostruito dalla polizia, è stata uccisa in un raptus da Losio, che era un cliente abituale. L’indagato ha spiegato di essersi invaghito della giovane e di avere pensato di fuggire con lei. Per questo aveva cercato di uccidere l’anziana madre, di 89 anni, aprendo il gas della casa di Canneto, prima di andare a prendere Adliana alla rotonda della Bronese, dove era certo di trovarla. Quindi i due erano andati a casa della giovane, per consumare un rapporto. Ma nella casa era esplosa la follia.

emergenza femminicidi non basta una legge che aumenti le pene ma serve una campaga educativa altrimenti è come svuotare il mare con un secchiello

Apro l'email  e tovo  queste  "lettere "   di  alcuni haters  \odiatori  ,  tralasciando  gli  insulti  e le  solite  litanie ...