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8.6.16

VI ABORRO… di © Daniela Tuscano

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Lo ammetto, vi aborro. Aborro voi, la vostra brutalità, la vostra (in)cultura dello stupro, la società di diseguali – dove la diseguaglianza è considerata nullità – che avete incubato, alimentato e cresciuto a dismisura. Aborro quel corpaccione chiamato maschilismo, l’origine d’ogni violenza, razzismo e discriminazione. L’aborro perché è morto, e voi lo sapete, ma ne mantenete artificialmente l’esistenza. Vi serve per conservare il potere. E per il potere siete disposti a tutto. Cioè al ginocidio. Ginocidio, sì. Perché voi, maschi impazziti e feroci, disprezzate il mio sesso. Da sempre. E io non voglio più capirvi. Non voglio più capire un mondo che si reputa progredito berciando contro i roghi di Daesh e poi impugna una penna per chiedere a un giudice di non punire il figliolo, stupratore sì, ma per soli venti minuti, preda dei fumi dell’alcool e d’un’imprecisata “promiscuità” (palese, fra le righe, l’accusa alle femmine troppo libere, quindi tentatrici). Non voglio più capire un mondo – il vostro, fatto a vostra immagine, somiglianza e prepotenza – in cui ci s’interroga se una violenza durata una manciata di minuti sia effettivamente violenza. Non voglio più capire il mancato conato di vomito davanti all’infamia di siffatta domanda. Vi aborro perché m'avete costretta a rivelare qualcosa di molto, troppo intimo. Prima un’aggressione – in tutto, durata una quindicina di secondi – e prima ancora, quand’ero giovanissima, un’aggressione se possibile anche peggiore.
Quanto sarà stato ? Forse un quarto d’ora.

 Un quarto d’ora e quindici secondi che mi hanno rovinato, per sempre, la vita. Che mi hanno deturpato e rubato anzitempo la giovinezza. Chi mai potrà ripagarmi? Voi siete preoccupati che il vostro figliolo maschio non possa più andare agli allenamenti, che non trovi un lavoro, che non mangi più. Quello v’importa, e nient’altro. Non voglio più capire un giornalismo che definisce “timido autista di provincia timoroso di diventare padre” un tentato uxoricida e figlicida. Aborro la
vostra stupidità. Niente di più pericoloso. Non è soltanto inumana. È pre-umana. Molto peggio. Con questa pre-umanità avete dominato il mondo. Asservendo e negando tutte le dimensioni esistenziali diverse dalle vostre. Negando la donna, avete negato dignità al nero, all’indio, all’immigrato, al gay/lesbica, allo schiavo – che mai avrebbe dovuto essere schiavo -. Ma anche alla natura, all'ambiente in cui vivete. E avete dato vita a un sistema economico basato sullo sfruttamento e l’accaparramento. Avete costruito un Dio maschio, leggi maschie – quelle leggi per cui, ancora adesso, lo stupro è un’inezia la cui entità va conteggiata in minuti, le donne eterne inferiori indegne di votare, compiere determinati lavori (le avete però ritenute sempre degne di salire sul patibolo – Olympe de Gouges insegna! – anzi con loro avete esercitato il massimo rigore fino ad attribuirle responsabilità per reati inesistenti e perversi), accedere a ordini religiosi, comparire nei testi scolastici, ecc. – alle quali non si può derogare, pena la morte: e infatti uccidete. Non potete tollerare d’essere abbandonati, la donna è vostro esclusivo possesso. E non solo lei: mentre scrivo mi giunge la notizia che, nel mio Paese, due cosiddetti “padri di famiglia” (naturalmente, secondo la stampa maschia, sempre tale pur se scritta da donne asservite, dipinti come uomini modello, affettuosi, teneri ecc.) non si sono accontentati di assassinare le loro compagne, ma pure i figli; è la logica della roba. “Roba mia, vientene con me”: a volte vi suicidate (in molti altri casi fingete soltanto, nella speranza dello sconto d’una pena comunque lieve) e dietro di voi non deve rimanere nessuna e nessuno. Come nell’antica Roma, come dappertutto: siete voi, l’origine e il fine (la fine) di tutto. Vi siete nominati Dio: siete blasfemi. Vi aborro perché nemmeno in questo frangente vi ho sentiti solidali. In qualche caso ci avete addirittura irrise. Una donna non lotta mai solo per sé stessa, ma si sente umanamente, umanisticamente vicina a tutti gli oppressi. Ma che cosa accade a quegli uomini oppressi, una volta liberatisi delle loro catene? Ci sono vicini? Condividono le nostre battaglie? Sanno capirci, amarci? Si rendono conto che le violenze sessiste sono una questione di cultura e non fatti privati di cronaca nera ? A me non pare. Vorrei essere smentita. Ma pubblicamente, apertamente. Lucidamente. È bene che quella lettera vergognosa sia stata vergata da un padre. Un padre wasp.

Essa mette definitivamente a tacere anche quell’autolesionismo femminile per cui, se un figlio è criminale, la colpa ricade sull’incapacità della MADRE [ Un esempio recente di questa mentalità si trova qui: http://www.huffingtonpost.it/milene-mucci/madri-figli-maschi-uomini-violenti-_b_10219426.html , cui ho fatto seguire una replica http://culturaalfemminile.blogspot.it/2016/06/sbagliata-di-daniela-tuscano.html ]. I padri non compaiono mai sul banco degli imputati, pur essendo sempre stati considerati i capifamiglia, le guide morali, spirituali ecc. Insomma, la solita storia: tutti i privilegi, nessun dovere, nessunissima responsabilità. Lo ammetto, vi aborro. Per lo stesso motivo per cui vi ho amati. Proprio perché vi ho amati. Ma non si può continuare ad amare chi ritiene degradante chiedere perdono.

4.1.14

SAPERI E CULTURA, PANE BUONO SONO

 A    chi mi rimprovera  che nei miei post  non  si parla  , e  se  se  ne parla  se  ne parla   per  criticare  ,   dei programmi di maria  di maria  de  filippi  ,   ecco questa risposta   .

da  http://gavinominutti.blogspot.it/2014/01/saperi-e-cultura-pane-buono-sono.html

Una parte della classe politica italiana inizia oramai ad avere consapevolezza di cosa è stata la crisi in questo quinquennio. Tuttavia, consapevolezza e conoscenza non sempre inducono le classi dirigenti nazionali, e ancor meno quelle regionali, a individuare nuove ipotesi per riavviare i processi economici. E’ noto che una parte dell’occidente ha vissuto di un economia dopata da prodotti finanziari fasulli, come i “derivati” e i “derivati dei derivati”, finché la bolla speculativa è deflagrata, fagocitando un terzo del risparmio mondiale e con esso trascinando nella crisi parti sempre maggiori di manifattura e terziario. Oggi riavvolgere la pellicola e ripartire da dove abbiano lasciato, temo sia pressoché impossibile. Non reggono gli esercizi di ottimismo di chi propaganda una sorta di ripresa e ogni ulteriore sacrificio, se non si avviano radicali processi di cambiamento, se non si cambiano i vecchi ferri con dei nuovi, perché nel frattempo, nel tempo della crisi, sono cambiate molte cose, è fatica pressoché infeconda.
Comunque vada, proviamo ad attrezzarci da soli, partendo da ciò che ci sta più vicino, ripartendo dai territori e dalle comunità, ripartendo dalla Sardegna. Siamo una regione con molto territorio e pochi abitanti ma con un mercato dei consumi piuttosto apprezzabile che dobbiamo conquistare. Disponiamo di grandi risorse ambientali e paesaggistiche, di manifattura nei distretti industriali (se non dissipiamo tutto), di allevamento e agricoltura da salvare e magari migliorare, di un industria vacanziera (circa il 9% del PIL) con significativi margini di crescita. Disponiamo di conoscenze, saperi e cultura millenarie, di marcata identitarietà, lingua compresa. Naturalmente rimane sempre il settore pubblico e tutto il terziario avanzato. In sostanza gli ingredienti oggi necessari e utili nella cosiddetta società della conoscenza.
Possiamo sperare che questi elementi possano costituire una risorsa futura o sono argomenti buoni solo per qualche dotto convegno? Quante forze politiche realmente scommettono su queste risorse per una Sardegna da riformulare? Questo è il quesito su cui innescare il dibattito sulle prossime elezioni regionali. Che Sardegna vogliamo. Una Sardegna ancora del cemento e dell’industria pesante, quell’industria che è la nostra più grande sciagura e che un pezzo di politica si ostina a voler tenere in vita? O ripartiamo, per sfidare futuro e modernità, dalle cose che abbiamo, dalle risorse che le comunità tengono a portata di mano? Su qualunque cosa oggi si scommetta o si scelga di fare, irrompe con forza il tema della scuola e della formazione, elemento propedeutico per creare una nuova classe di maestranze e di imprenditori.
La formazione, dunque, come avviamento per una società che deve evolversi e innovare, che ricomprende pertanto cultura e saperi. Francesco Pigliaru poneva qualche giorno fa sulla “Nuova” la questione proprio dell’alta formazione, sottolineando che non serve ed è fallace invocare tempi andati, la nostalgia per quella “età dell’oro”, riferito ai processi di declino dell’industria in Sardegna, se non si parte proprio dalla formazione. Certamente la formazione delle maestranze e dei quadri è questione di ogni società e di ogni epoca, figurarsi oggi, in quella che viene definita la società della conoscenza, la knowledge society, metafora dello sviluppo odierno. Sarebbe utile sapere tuttavia a quale industria si pensa quando si parla di formazione, posto che non la si intenda fine a se stessa, così come sarebbe oltremodo utile conoscere se risorse come cultura, saperi e conoscenze di una regione come quella sarda possano essere elementi posti come base per un nuovo processo di “industrializzazione” endogeno.
Non parlo di ciò che è stata l’industria in Sardegna, perché non c’è stato, a mio modestissimo parere, nessun processo di industrializzazione, salvo l’occupazione di porzioni di territorio equiparabili alle servitù militari che sono costati il depauperamento della nostra storia e conoscenze a costi insopportabili. Ma questo è un altro film. Ora guardiamo al futuro. La Sardegna di fronte alla recessione economica e alla minaccia di una involuzione è dalla cultura, dai suoi millenari saperi e dal linguaggio del paesaggio che deve ripartire, perché ogni euro investito in cultura ne genera sette, perché quest’industria costituisce già ora il 4% del PIL nell’intera Europa, perché quest’industria richiede limitati asset materiali, molte risorse umane e  immateriali. La Sardegna terra di storia e saperi da aggiornare, potrebbe indicare la via di un riscatto generale. La cultura, dunque, prima come valore assoluto in se, poi come fermento (matrica) per far lievitare e ricrescere il tessuto sociale ed economico dei territori e delle popolazioni, la cultura come fattore che sta all’origine della catena del valore. Va detto subito, chiaro e forte, che la cultura da pane, anzi è il pane buono e produce lavoro e occupazione immediati e sostenibili. Nel bilancio Ue 2014-2020 sono previsti 40 miliardi di euro aggiuntivi per le attività culturali e per l’industria creativa. Cambiare i paradigmi sui cui finora abbiamo impostato la nostra economica e su questi incentrare la formazione. Dunque prima programmare l’industria che vogliamo, poi un programma “coreano” (cit.) per la formazione, coerente e conseguente a quelle scelte, affinché tutto questo trovi pratica applicazione nei territori e veda protagonista il sistema produttivo locale. Nel ventennio 70/80 l’industria è stata costruita e sostenuta da ingenti risorse pubbliche a beneficio di potentati e lobby esterne che una volta finiti i denari son scappati come topi dalla nave in fiamme. Le dinamiche odierne rendono per fortuna questo processo non più replicabile per svariate ragioni, ma per non cadere in tentazione, mettiamo in campo le risorse di cui disponiamo, che potrebbero non essere poche, per sostenere crescita e sviluppo locale. Infine il problema della ricerca. Anche qui occorrerà seguire gli stessi criteri da adottare per la formazione. Le scoperte e le innovazioni vanno calate nelle realtà produttive e seminate nei territori, soprattutto in quei territori dove è presente un tessuto produttivo specializzato, magari entrato in crisi proprio per mancanza di innovazione. Formazione e ricerca devono poter camminare sulla stessa frequenza. Implementare centri di ricerca dimenticando i territori, vuol dire ripetere, su un altro livello, il vecchio sbaglio delle “cattedrali nel deserto”.  

8.9.12

quando l'incultura diventa cultura il caso dei lucchetti dell'amore di Moccia [ reprise \ parte 2 ] ]

Ringrazio vivamente marino niola per avermi mandato via email l'articolo di repubblica da lui scritto il 7\IX\2012 e precedentemente  citato tramite  collegamento ipertestuale   nel mio post precedente . Esso conferma   quello che  ho scritto  nel precedente  post


Via i lucchetti dell’amore da Ponte Milvio. Stanno meglio al museo. Il comune di Roma ha deciso di trasferire la ferraglia che appesantisce il celebre monumento per restituire dignità a uno dei luoghi più rappresentativi  di Roma. 


Fin qui tutto bene. Il problema è la destinazione scelta per ospitare la singolare collezione. E cioè lo storico museo Pigorini, tempio della preistoria, dell’etnografia e dell’arte primitiva. È una decisione che lascia più che perplessi. Perché per un verso considera i catenacci lesivi del decoro del ponte. E per l’altro li ritiene degni di entrare in un museo. Trattandoli dunque come oggetti d’arte. Delle due l’una. O i ferri sono delle testimonianze puerili. Delle forme oggettive di vandalismo, come dice chiaramente il codice. E allora il loro posto non è certo il Pigorini ma la fonderia. O sono arte. E allora perché non lasciarli là dove l’ingombrante installazione collettiva si è accumulata?
È l’ennesimo schiaffo al patrimonio artistico, all’idea stessa di bene culturale, in nome di una malintesa patrimonializzazione degli usi e costumi di una tribù giovanile. Neanche di tutte. Con questo criterio qualunque comportamento diventa una testimonianza da salvaguardare. Anche una moda. Anche una sottocultura. Rimosse in nome del decoro monumentale e promosse in nome dell’antropologia. Di un’idea malintesa dell’antropologia che invece è una cosa seria. E prima di parlarne alla leggera bisognerebbe aver letto più libri di quanti ne abbia scritti il simpatico Moccia. Altrimenti si rischia di nobilitare come cultura popolare quel che è semplicemente sottocultura. Che non va né blandita, né assecondata, ma chiamata col suo nome.
Oltretutto la musealizzazione dei pegni d’amore diventa la legittimazione ufficiale di un fenomeno incivile che molte amministrazioni cercano faticosamente di arginare. Come quella di Firenze che ha proibito tassativamente di catenacciare Ponte Vecchio. In questo modo si dà licenza d’uccidere ai futuri lucchettatori. Che torneranno in massa a ingombrare Ponte Milvio e altri luoghi d’arte sentendosi per di più esaltati come espressionisti dei sentimenti. Dei Duchamp del batticuore. Per guadagnarsi così una corsia preferenziale per il museo. Con l’avallo di autorevoli studiosi pronti a cavalcare l’onda giovanilista. E a riconoscere significato artistico e dignità culturale a qualsiasi esternazione adolescenziale.
Ma quel che stupisce non è tanto il popolo del lucchetto, che una sua ragion d’essere ce l’ha. Da che mondo è mondo i ragazzini fanno i ragazzini. E qualche volta i ragazzacci. Sono invece le autorità che non possono fare ragazzate. E usare il museo per risolvere cerchiobottisticamente una questione imbarazzante. E trasformare una istituzione gloriosa in una discarica. Mostrando di confondere l’arte primitiva con un’idea primitiva dell’arte.

7.9.12

quando la rozzezza -l'incultura diventano cultura il caso dei Lucchetti dell'amore di moccia che finisco in un museo

  Ho letto   su   repubblica \ Agi    d'oggi

Lucchetti dell'amore finiscono al museo; Moccia, "soluzione temporanea"

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18:05 06 SET 2012 
(AGI) - Roma, 6 set. - Addio ai lucchetti dell'amore. Il Comune di Roma ha deciso che "per decoro" i chili e chili di acciaio lasciati negli anni dagli innamorati sul ponte piu' antico della citta', Ponte Milvio, devono sparire. Ma non finiranno in una fonderia: il municipio ha stabilito che meritano di far bella mostra di se' al 'Pigorini', il museo etnografico dell'Eur. Le operazioni, ha annunciato l'assessore ai Lavori Pubblici Stefano Erbaggi, inizieranno lunedi' alle 11.
La rimozione dei lucchetti di Ponte Milvio" dice, servira' a "ridare decoro ad uno dei ponti piu' famosi di Roma, che il prossimo 28 ottobre celebrera' il 1700esimo anniversario della battaglia fra Costantino e Massenzio. Tutta la struttura con i lucchetti sara' rimossa e trasferita, grazie alla collaborazione con la Sovrintendenza di Roma Capitale, all'interno di un polo museale". Gianni Giacomini, presidente del Municipio XX, ha aggiunto Erbaggi, "si e' impegnato a garantire un controllo costante da parte della Polizia di Roma capitale". "E' la prova della collaborazione tra la Sovrintendenza di Roma Capitale e il ministero dei Beni Culturali" ha detto il sovrintendente Umberto Broccoli. Lunedi', dopo essere stati rimossi, i lucchetti saranno portati in un magazzino in attesa che sia pronto lo spazio al 'Pigorini'.

Il fenomeno dei lucchetti dell'amore, lanciato in un romanzo di Federico Moccia, e' stato in breve tempo imitato in tutta Italia e nel mondo, al punto che anche Demi Moore e Miley Cyrus nel film 'Lol' mettono un lucchetto dell'amore su un ponte americano. Davanti a Ponte Milvio sono comparsi venditori ambulanti di lucchetti di ogni foggia e dimensione (a seconda della quantita' e peculiarita' del sentimento), ma il peso dell'acciaio ha gia' giocato qualche brutto scherzo, come la sorte toccata a uno dei lampioni del ponte che, gravato da tanto amore, si e' accartocciato come se fosse di fil di ferro.
  Moccia, e' contento della decisione di trasferire i lucchetti in un museo. Raggiunto telefonicamente dall'Agi, lo scrittore e regista romano spiega che "e' importante che venga dato giusto valore a un fenomeno di costume da inquadrare in ambito antropologico".Invitato spesso all'estero per "inaugurare" ponti dell'amore (recentemente e' stato in Messico e in Spagna), Moccia sottolinea che la soluzione museale e' provvisoria. "Il sindaco Alemanno mi ha assicurato che si trattera' solo di un ricovero, affinche' non vengano persi questi simboli dell'amore. La destinazione finale - aggiunge - sara' una terrazza che possa accogliere i lucchetti, probabilmente a Ponte Milvio, e che diventi luogo di attrazione e di 'pellegrinaggio' per tutti gli innamorati del mondo".

   http://www.romadailynews.it/2012/09/

Lunedì 10 settembre via i lucchetti da Ponte Milvio! Pandolfi: "Salvaguardare il beni architettonici, non le mode temporanee!" Da lunedì 10 settembre da Ponte Milvio verranno venir tolte le migliaia di lucchetti messi lì da coppie innamorate in segno di amore eterno. La moda, lanciata qualche anno fa dai libri "Tre metri sopra il cielo" e "Ho voglia di te" di Federico Moccia, sta mettendo a rischio la stabilità del ponte, soprattutto per quanto riguarda i lampioni, a rischio cedimento sotto il peso dei lucchetti in ferro o ottone. La Sovrintendenza per i Beni Culturali di Roma cerca, però, di prendere tempo e rinviare lo smantellamento, per valutare le possibili destinazioni per i lucchetti. Tra le proposte, anche quella di depositarli in un museo. "Invito il presidente Gianni Giacomini a non cedere e ad andare avanti con il progetto. - Ha dichiarato Giuliano Pandolfi, consigliere del XX Municipio e tra i firmatari della proposta di rimozione. - C'è un concreto pericolo che un bene di valore storico e culturale come Ponte Milvio venga gravemente danneggiato da una semplice moda passeggera. I lucchetti non verranno distrutti, stiamo studiano insieme al Presidente una soluzione che ci consenta di tutelare i ricordi di tanti innamorati che con questo gesto si sono scambiati promesse d'amore, senza, però, andare a discapito della sicurezza del Ponte. Il Municipio si impegna a custodire i lucchetti in attesa di ricevere delle direttive dalla Sovrintendenza sulla destinazione definitiva da dare ai lucchetti."

nessun  commento  oltre  quello espresso  dal titolo   vi lascio  però  degli articoli  ed  interventi   che  concordano  con i mio sdegno .



 da  repubblica  dell07-09-2012 l'interessante  articolo  SI BANALIZZA LA CULTURA POPOLARE [  se  nel  caso   fra qualche  giorno  non dov'essere  più disponibile    lo potete  trovare  con il motore  di ricerca interno a di  http://rstampa.pubblica.istruzione.it/ ]    di Marino  Niola (   è un antropologo della contemporaneità. Insegna Antropologia dei Simboli, Antropologia delle arti e della performance ) 

alcuni estratti da  http://www.romadailynews.it/ più  precisamente  da qui  alla  voce  articoli correlati 







emergenza femminicidi non basta una legge che aumenti le pene ma serve una campaga educativa altrimenti è come svuotare il mare con un secchiello

Apro l'email  e tovo  queste  "lettere "   di  alcuni haters  \odiatori  ,  tralasciando  gli  insulti  e le  solite  litanie ...