SAPERI E CULTURA, PANE BUONO SONO

 A    chi mi rimprovera  che nei miei post  non  si parla  , e  se  se  ne parla  se  ne parla   per  criticare  ,   dei programmi di maria  di maria  de  filippi  ,   ecco questa risposta   .

da  http://gavinominutti.blogspot.it/2014/01/saperi-e-cultura-pane-buono-sono.html

Una parte della classe politica italiana inizia oramai ad avere consapevolezza di cosa è stata la crisi in questo quinquennio. Tuttavia, consapevolezza e conoscenza non sempre inducono le classi dirigenti nazionali, e ancor meno quelle regionali, a individuare nuove ipotesi per riavviare i processi economici. E’ noto che una parte dell’occidente ha vissuto di un economia dopata da prodotti finanziari fasulli, come i “derivati” e i “derivati dei derivati”, finché la bolla speculativa è deflagrata, fagocitando un terzo del risparmio mondiale e con esso trascinando nella crisi parti sempre maggiori di manifattura e terziario. Oggi riavvolgere la pellicola e ripartire da dove abbiano lasciato, temo sia pressoché impossibile. Non reggono gli esercizi di ottimismo di chi propaganda una sorta di ripresa e ogni ulteriore sacrificio, se non si avviano radicali processi di cambiamento, se non si cambiano i vecchi ferri con dei nuovi, perché nel frattempo, nel tempo della crisi, sono cambiate molte cose, è fatica pressoché infeconda.
Comunque vada, proviamo ad attrezzarci da soli, partendo da ciò che ci sta più vicino, ripartendo dai territori e dalle comunità, ripartendo dalla Sardegna. Siamo una regione con molto territorio e pochi abitanti ma con un mercato dei consumi piuttosto apprezzabile che dobbiamo conquistare. Disponiamo di grandi risorse ambientali e paesaggistiche, di manifattura nei distretti industriali (se non dissipiamo tutto), di allevamento e agricoltura da salvare e magari migliorare, di un industria vacanziera (circa il 9% del PIL) con significativi margini di crescita. Disponiamo di conoscenze, saperi e cultura millenarie, di marcata identitarietà, lingua compresa. Naturalmente rimane sempre il settore pubblico e tutto il terziario avanzato. In sostanza gli ingredienti oggi necessari e utili nella cosiddetta società della conoscenza.
Possiamo sperare che questi elementi possano costituire una risorsa futura o sono argomenti buoni solo per qualche dotto convegno? Quante forze politiche realmente scommettono su queste risorse per una Sardegna da riformulare? Questo è il quesito su cui innescare il dibattito sulle prossime elezioni regionali. Che Sardegna vogliamo. Una Sardegna ancora del cemento e dell’industria pesante, quell’industria che è la nostra più grande sciagura e che un pezzo di politica si ostina a voler tenere in vita? O ripartiamo, per sfidare futuro e modernità, dalle cose che abbiamo, dalle risorse che le comunità tengono a portata di mano? Su qualunque cosa oggi si scommetta o si scelga di fare, irrompe con forza il tema della scuola e della formazione, elemento propedeutico per creare una nuova classe di maestranze e di imprenditori.
La formazione, dunque, come avviamento per una società che deve evolversi e innovare, che ricomprende pertanto cultura e saperi. Francesco Pigliaru poneva qualche giorno fa sulla “Nuova” la questione proprio dell’alta formazione, sottolineando che non serve ed è fallace invocare tempi andati, la nostalgia per quella “età dell’oro”, riferito ai processi di declino dell’industria in Sardegna, se non si parte proprio dalla formazione. Certamente la formazione delle maestranze e dei quadri è questione di ogni società e di ogni epoca, figurarsi oggi, in quella che viene definita la società della conoscenza, la knowledge society, metafora dello sviluppo odierno. Sarebbe utile sapere tuttavia a quale industria si pensa quando si parla di formazione, posto che non la si intenda fine a se stessa, così come sarebbe oltremodo utile conoscere se risorse come cultura, saperi e conoscenze di una regione come quella sarda possano essere elementi posti come base per un nuovo processo di “industrializzazione” endogeno.
Non parlo di ciò che è stata l’industria in Sardegna, perché non c’è stato, a mio modestissimo parere, nessun processo di industrializzazione, salvo l’occupazione di porzioni di territorio equiparabili alle servitù militari che sono costati il depauperamento della nostra storia e conoscenze a costi insopportabili. Ma questo è un altro film. Ora guardiamo al futuro. La Sardegna di fronte alla recessione economica e alla minaccia di una involuzione è dalla cultura, dai suoi millenari saperi e dal linguaggio del paesaggio che deve ripartire, perché ogni euro investito in cultura ne genera sette, perché quest’industria costituisce già ora il 4% del PIL nell’intera Europa, perché quest’industria richiede limitati asset materiali, molte risorse umane e  immateriali. La Sardegna terra di storia e saperi da aggiornare, potrebbe indicare la via di un riscatto generale. La cultura, dunque, prima come valore assoluto in se, poi come fermento (matrica) per far lievitare e ricrescere il tessuto sociale ed economico dei territori e delle popolazioni, la cultura come fattore che sta all’origine della catena del valore. Va detto subito, chiaro e forte, che la cultura da pane, anzi è il pane buono e produce lavoro e occupazione immediati e sostenibili. Nel bilancio Ue 2014-2020 sono previsti 40 miliardi di euro aggiuntivi per le attività culturali e per l’industria creativa. Cambiare i paradigmi sui cui finora abbiamo impostato la nostra economica e su questi incentrare la formazione. Dunque prima programmare l’industria che vogliamo, poi un programma “coreano” (cit.) per la formazione, coerente e conseguente a quelle scelte, affinché tutto questo trovi pratica applicazione nei territori e veda protagonista il sistema produttivo locale. Nel ventennio 70/80 l’industria è stata costruita e sostenuta da ingenti risorse pubbliche a beneficio di potentati e lobby esterne che una volta finiti i denari son scappati come topi dalla nave in fiamme. Le dinamiche odierne rendono per fortuna questo processo non più replicabile per svariate ragioni, ma per non cadere in tentazione, mettiamo in campo le risorse di cui disponiamo, che potrebbero non essere poche, per sostenere crescita e sviluppo locale. Infine il problema della ricerca. Anche qui occorrerà seguire gli stessi criteri da adottare per la formazione. Le scoperte e le innovazioni vanno calate nelle realtà produttive e seminate nei territori, soprattutto in quei territori dove è presente un tessuto produttivo specializzato, magari entrato in crisi proprio per mancanza di innovazione. Formazione e ricerca devono poter camminare sulla stessa frequenza. Implementare centri di ricerca dimenticando i territori, vuol dire ripetere, su un altro livello, il vecchio sbaglio delle “cattedrali nel deserto”.  

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