la storia di Samia Yusuf Omar, quando a morire come un clandestino non è un criminale


canzoni consigliate  Senza catene  di Massimo Bubbola  (  video sotto ) 

Samia Yusuf Omar, somala, partecipa a 17 anni alle Olimpiadi di Pechino 2008. La gara è di velocità, 200 metri da compiere nel più breve tempo possibile. Impiega 32 secondi e 16 primi, record personale, ma ultimo tempo di tutte le batterie. Il pubblico presente allo stadio la applaude, la incoraggia. Samia non è un'atleta professionista ma ha una determinazione da campioni: vuole giungere in Europa e trovare un allenatore per partecipare alle Olimpiadi di Londra 2012. Ma un muro d'acqua, il 2 aprile di quell'anno, la fa annegare a largo di Lampedusa: Samira voleva raggiungere le coste italiane su un barcone di migranti col quale era partita dalla Libia. Le immagini di quella corsa



Ora  lo so  che la storia  di Samia --- foto a  sinistra  --  è vecchia    ma  certe storie non hanno mai tempo   soprattutto  al giorno d'oggi  dove  per  la velocità nelle   informazioni e  e delle news   l'occidente (  ma  anche  no  )  dimentica  in fretta o tende  a generalizzare  ( tutti ladri,spacciatori , assasini,pedofili,fondamentalisti,ecc  ) ma   me ne frego è la racconto lo stesso    soprattutto ora  che  la  sua  vita ( vedere articolo sotto   di repubblica  del 11\1\2014  ) e i suoi sogni sono stati raccolti da Giuseppe Catozzella nel romanzo “Non dirmi che hai paura” appena pubblicato da Feltrinelli  che ne    ripercorre la vicenda dell'atleta somala, dalle strade di Mogadiscio ai Giochi, fino a quell'ultimo fatale viaggio della speranza

Esiste ancora possibilità di romanzo nel nostro tempo? Domanda solita perenne identica che si pronuncia ormai da un secolo. La risposta chiave che annulla la sua ridondanza venne da Goffredo Parise: "Il fatto romanzesco come categoria il romanzo come tecnica - lo ripeto ancor una volta - penso non sia interessante. Quello che è interessante è scrivere un libro che si sente necessario di scrivere".
Non dirmi che hai paura (Feltrinelli, pagg. 240, euro 15) è un libro necessario. Giuseppe Catozzella ha scovato e scritto con l'imperativo della narrazione necessaria questo libro. È una storia che nessuna fantasia avrebbe potuto creare. Una storia che crea vertigine per quanto ci si senta colpevoli a non averla raccontata ovunque fosse possibile. Al tavolo da pranzo, a scuola, in radio, tra amici, a letto prima del sonno o dopo l'amore. È la storia di Samia Yusuf Omar, storia che i giornali di tutto il mondo narrarono ma che poi scomparve nel solito silenzio che segue qualsiasi vicenda consumata tra click e commenti di un'ora. Samia è una ragazza somala nata per correre. Vive a Bondere, quartiere di Mogadiscio, un dedalo di stradine di sabbia e polvere schiacciate fra abitazioni in muratura, lame di acacie, svettare rado di eucalipti. In mezzo alla polvere di quelle straduzze fra piccoli mercati, scuole coraniche, corrono i ragazzini. Anche Samia Yusuf Omar ha cominciato a correre lì. Samia appare nel romanzo quando il talento della corsa la sta rivelando a se stessa e le sue gambe secche e forti le chiedono consapevolezza, leggerezza, ritmo. L'amico Alì ne cronometra il tempo, ne registra i progressi, con strumenti non perfetti, ma con una sensibilità degna del più acuto degli allenatori. La famiglia non ha paura di capire quel talento e la sostiene. Tanto basta perché in Samia metta radici l'ambizione di redimere la fatica, la povertà, l'ostilità, il volto severo del suo paese, il silenzio in cui sono nascoste le donne, la minaccia che quelle stesse gambe secche possano fermarsi. Per niente al mondo si fermerà, la piccola Samia. 


Catozzella dinanzi a questa storia non riesce solo a riportarne traccia. Non vuole solo mettere i piedi nelle orme già pestate. Prende Samia e la accende dentro la sua storia di ragazzina prima e poi di giovane donna. Lo fa dandole voce, immaginandosi la voce che può avere una ragazza che non ha paura di trovarsi da sola con il suo talento e con la sua anima. Non è trucco, non è gioco di prestigio. A volte succede che la realtà sappia dirsi con la semplicità dei pensieri di una fanciulla. Catozzella sembra accordare la voce di Samia alle sfumature di Anna Frank, dei diari di Etty Hillesum. La Samia di Giuseppe Catozzella va a cercare quella trasparenza, quella tonalità cilestrina, quella malinconica tolleranza che solo l'adolescenza visitata dalla speranza e dalla tentazione del futuro sa trovare con naturalezza, con gentilezza. Samia è protetta da una famiglia che riesce a costruire uno spazio di affetto miracoloso intorno a lei mentre la Somalia cede all'integralismo, si insanguina di repressione, e viene lacerata dal terrorismo. Samia non è cieca né ottusamente ottimista: perde il suo più caro amico, vede morire il padre, e lascia partire la sorella per l'Europa ma tutto ciò non sembra spezzare la possibilità di raggiungere una forma di felicità. È il lascito più prezioso della sua famiglia. Che cosa può fare una piccola atleta contro tutto questo? "Tutti si chiedevano come fosse possibile che una ragazzina magra come un'acacia appena piantata e con due gambine che sembravano ramoscelli di ulivo potesse vincere. Il fatto era che vincevo e basta. Ero più veloce degli altri. Almeno, di quelli che mi era capitato di incontrare. Con i mesi, ho capito che la mia specialità erano i duecento metri". Eccola Samia. Concentrata su se stessa. Concentrata sul corpo. Fuori c'è il silenzio, il sole a picco, la morsa del caldo. Dentro il giovane corpo dell'atleta macina il futuro. Un futuro che si alimenta di preghiera, una preghiera laica che si celebra alzando gli occhi sulla foto che tiene sopra il letto. Mo Farah somalo, campione olimpionico e tre volte campione del mondo di mezzo fondo. È lui il dio benigno che accompagna Samia. E riesce da sola senza sponsor, senza allenatori professionisti, senza medici e massaggiatori a qualificarsi alle Olimpiadi di Pechino. Il miracolo di Samia ha inizio. 
A  Pechino si fa appena notare ma conosce l'arena, il campo, il luogo dove ci si batte. Sa che il vero traguardo è Londra, perché è là che Samia avrà gli occhi sereni e appagati. Per averli si allena di notte, si affoga nel burqa, testimone della sua corsa solo il cielo stellato, e quando nascondersi non basta più, quando il suo paese non le offre il vessillo di una identità, quando le donne somale alle quali volentieri avrebbe offerto le sue vittorie sembrano entrate nella notte della loro storia, è allora che Samia entra nella favola epica del suo destino. Il corpo che l'integralismo vorrebbe coperto. Il corpo che non esprime più talento ma solo resistenza, e si asciuga, si consuma, si infiacchisce, si rattrappisce, si lascia violentare, svuotare, sfinire. Samia sa che per vivere deve correre, per correre deve allenarsi, per allenarsi dev'essere libera per riuscire a vivere deve provare ad allenarsi in Europa deve raggiungere l'Europa altrimenti tutto finisce. Sono pagine fra le più potenti quelle in cui si narra il "Viaggio", lo spaventoso viaggio che porta Samia e tutti i migranti del Corno d'Africa su per le vie dei deserti da Addis Abeba verso il Sudan e la Libia, per arrivare infine al mare. Per viaggiare, 72 ore nel cassone di un fuoristrada, i trafficanti chiedono di alleggerire il bagaglio. Nessuno vuole lasciare le proprie cose ma l'alternativa è restare ad Addis Abeba. "Davvero volevo restare ad Addis Abeba? Per quanto tempo? Tutta la vita? Ho aperto la borsa e ho preso la fascia di aabe, la foto di Mo Farah, un qamar e un garbasar, e ho lasciato il resto nell'angolo". Samia si spoglia e si prepara al grande duello. In quei momenti sembra un'eroina omerica. Ma ogni tentativo della mente di trovare dimensioni note per capire quei momenti è destinato a fallire. 
Da quel momento in poi, la spoliazione è una spoliazione che arriva fino alla pelle dell'anima, eppure proprio da quel momento la voce di Samia ci dice che il corpo indebolito esiste appena, anzi che quanto più si infragilisce tanto più forte è il sogno di arrivare, di varcare il mare, di vincere. "Ho trattenuto le lacrime, mordendomi forte le labbra. Ho chiuso gli occhi in mezzo a tutte quelle braccia, spalle, gomiti, e ho pregato aabe e Allah. Che mi facessero trovare la via. La mia via". La via di Samia. Dopo un viaggio come quello non c'è più cerbiatto, non c'è più farfalla, e bisogna ancora attraversare il mare. Cosa sia quel mare, lo sappiamo sin troppo bene - è il mare dei migranti, il mare fatale, ma quando Samia sale sul gommone è ancora il mare del sogno. Com'è finito il viaggio di Samia lo si apprende dalle parole del primo grande atleta somalo Abdi Bile campione del mondo dei 1500 metri a Roma nell'87. Bile celebra il trionfo di Mo Farah alle Olimpiadi di Londra e in quel momento ricorda Samia, morta nelle acque di Lampedusa mentre cercava di raggiungere l'Europa per qualificarsi alle Olimpiadi. 
La storia della giovanissima atleta ha cominciato a girare il mondo e a lasciare tracce. Giuseppe Catozzella è riuscito ad affacciarsi sull'abisso della cronaca senza cedere alla tentazione del patetico. Catozzella ha ascoltato (in Finlandia è riuscito a contattare la sorella di Samia, ad averne la confidenza). Quanto più è vivo il sogno di Samia, quanto più soave è la voce che lo canta, tanto più, come in una visione dall'alto, il destino è visibile, l'ingiustizia incide, il dolore strazia. "Presto nel Viaggio si imparano il silenzio e la preghiera. Presto nel Viaggio si impara a dimenticare il motivo per cui sei lì, e a praticare silenzio e preghiera". Così dice Samia, ma infine il "motivo" torna. Ricominciare a correre, ad allenarsi. A vincere. Ma qui, dopo questo romanzo, la vittoria è il sentimento che non ci riconcilia, che ci lascia stupefatti davanti alla bellezza perduta, al futuro che non arriva.


  



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