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15.4.07

Conoscere i Tuva

Tuva è una delle 21 repubbliche federali della Federazione Russa (la capitale è la città di Kyzyl), in Siberia centro meridionale lungo il confine con la Mongolia; con una superficie di 170 mila kmq conta 308 mila abitanti, che appartengono a 73 diverse nazionalità.
Il paesaggio, dalla natura intatta, è caratterizzato da verdi foreste di conifere e betulle.


In questa zona vivono due popoli: i Tuva, originari proprio delle montagne dell'Altai, e i Kazachi, migrati in questa regione circa un secolo fa costituiscono ora una maggioranza operosa e dominante che respinge sempre più i Tuva.


Una politica rigorosa iniziata nel 1959 quando la Provincia Nazionale Tuva Zengel Hairhan è stata incorporata alla Provincia Kazaca, ha reso i Tuva la maggiore minoranza senza diritti in casa propria. I conflitti che ne sono seguiti hanno convinto molti Tuva a migrare. Tre quarti della popolazione Tuva oggi vivono fuori dal proprio territorio. Qualche famiglia ha deciso di tornare ma chi torna deve ricominciare da capo , senza tenda e senza gregge.
Questo piccolo popolo antico, erede del grande regno Toba dell'Asia Centrale, non è nemmeno conosciuto con il suo nome nella capitale mongola lontana 1800 km.
E quindi non ricevono nemmeno nessun aiuto. Nonostante i nomadi accettino silenziosamente il loro destino, molti oggi sono molto più poveri di una volta, e la loro vita perde progressivamente in dignità.


Un altro triste capitolo di questa storia è la scomparsa della lingua.
Dal 1991 esiste una scuola elementare Tuva.
Prima del 1991 ai bambini Tuva era proibito parlare la propria lingua.
Senza idioma non c'è cultura. Un popolo così piccolo, circa 2000 persone, fa in fretta a diventare una specie di orfano linguistico e quindi a scomparire come popolo. La scuola ora trasmette la cultura e la lingua Tuva insieme alla lingua mongola. La scuola però è sistemata in un edificio del tutto decadente e i pochi fondi di cui dispone non bastano quasi a comprare da mangiare per i 40 alunni che vi vivono.
Molti dei bambini non possedevano nessun indumento caldo e studiavano con mani e nasi blu dal freddo.
Moltissime ragazzine tra gli 11 e i 12 anni non sono mai andate a scuola - in un paese che ai tempi del socialismo era considerato tra quelli con la migliore istruzione.


La cultura dei Tuva, loro lingua e la loro forma di vita nomade rischiano ormai di scomparire e la minaccia è resa ancora più pericolosa dalle catastrofi naturali che provoca un numero particolarmente alto di morti animali.



.....Leggete integralmente su "El Giramundo" di A. Schenk

3.2.07

OPERATIVO EMPLEADA AUDAZ

Nel litorale Asia (un gruppo di spiagge, tra le più esclusive, a sud di Lima) esistono 2 classi sociali:
il ricco
ed il povero.
L'Asia dei ricchi proibisce alle domestiche, ai vigilantes e ai “guachimanes” -che per la maggior parte sono indios, di colore- di usare le spiagge e gli spazi pubblici, con il pretesto della pubblica sicurezza e ha creato dei muri di separazione!


L'Asia dei poveri è un'area molto povera dove la maggior parte delle abitazioni non ha né acqua potabile né elettricità.


A costoro, trattati come cittadini di seconda classe, è proibito riunirsi nelle spiagge o bagnarsi nel loro mare fino alle 19 della sera, dopo il tramonto, senza alcuna spiegazione sostenibile che sembra obbedire al desiderio dei residenti privati di non “mescolarsi” con gli indigeni.
In Peru, la legge non condanna l'apartheid o la discriminazione sociale.


Ma un gruppo di peruviani del Tavolo contro il Razzismo del Coordinamento dei Diritti Umanied ogni forma di discriminazione, s'è riunito nell'OPERATIVO EMPLEADA AUDAZ per protestare giocosamente e pacificamente contro quest'ingiustizia e il 28 Gennaio ha riunito centinaia di cittadini al fine di richiamare l'attenzione pubblica e per promuovere una riflessione per la promozione di una società più equa e giusta.

Leggi integralmente qua...

12.11.05

Senza titolo 969

 Comosso e  ispirato  , dalla bellissima  poesia postata  da  iperio  e  dalla reazione  / rigurgito   dei ragazzi calabresi  contro la mafia   (  vedere manifestazione  del 4  novembre  ) ho deciso  di   riportare  le  ulteriori news     delle  vicenda  di P.paola: monni  di   cui avevo  già parlato sempre  nel blog   verso la fine  d'ottobre  e per  rispondere  a dei miei amici  \  conoscenti maschilisti   che dicono che le donne  devono rimanere  a casa    a cucinare  a  lavare e che  sono  poco coraggiose  , Ecco questo  è un caso  in cui  , soprattuitto  in detterminate  zone chiuse   del sud  d'italia    le donne  sono più coraggiose  degli  uomini   Ecco l'esempio di Pina Paola Monni (  la  ragazza dela  foto  a  sinistra  ) la. la  quale  dopo l’uccisione del fidanzato, nonostante le  minacce  ele pesanti intimidazioni  ricevute   tramite  scritte su muri (  fortto a destra  )   per amore ha rotto il tabù dell’omertà   detterminante  in  alcune  zone  interne  della  sardegna   che continuanoad essere  legati  ad un codice  barbaricino   che  ormai  non nesiste  più  o si  è modificato a tal punto  da perdere  il significato originario  . Pina  spiega alla  nuova  sardsegna (  uno  dei quotidianio dell'isola  N.d.c ) perché ha rotto l’omertà    e  che  : << Orune rinasce se parla invece muore se tace» e che   prima o poi reagirà  Pina Paola Monni vorrebbe vivere e lavorare in un paese sereno, normale e tranquillo    E lei, «L’ambiente è dominato da pochi violenti che girano armati e molti subiscono Io ho fatto il mio dovere e non ho paura»  ecco lò'articolo  intervista  tratto  dala nuova sardegna  del 11  novembre   
<<  ORUNE. Pina Paola Monni ha la sua ricetta apparentemente molto semplice per trasformare Orune in un posto «sereno, normale e tranquillo» dove poter vivere e lavorare: «Il paese rinasce se parla, invece muore se tace». E lei questa strada l’ha imboccata con un indubitabile coraggio: al processo per l’uccisione del fidanzato Pasquale Coccone e dell’amico Amerigo Zori ha puntato il dito contro l’unico imputato in aula. Lei ha parlato, ma molti compaesani - testimoni del delitto - non ricordano o non hanno visto niente. E’ la «cultura del silenzio» dice in una lunga intervista alla Nuova. Non perdona ma non chiede vendetta, la scorta non la vuole e denuncia: il paese è in mano a pochi violenti che vanno in giro armati. Ormai non esce più, non si mostra in giro ma le minacce non le fanno paura. Pina Paola Monni è una ragazza semplice, gli occhi neri pieni di luce. Con le mani poggiate sulle ginocchia flesse, esterna un piccolo grande desiderio: poter vivere, passeggiare, lavorare “in un paese normale, sereno, tranquillo”. Usa questi tre aggettivi uno dopo l’altro conversando a testa china, nel primo pomeriggio, nella sua casa profumata da rose gialle e rosse tra i lecci di “Su Pradu”, l’acropoli verde che domina Orune e spazia nell’orizzonte fino al mare. Il cielo è pulito, neanche una nuvola, cielo blu, blu sardo. Parla guardando la foto del fidanzato, ucciso con un suo amico la sera della Domenica delle Palme 2004 in un bar pieno di gente, nella piazza centrale del paese, quella del mercato, piazza Lanfranco Latino, eroe orunese della prima guerra mondiale. Ma nessuno ha visto. Nessuno ha parlato, tranne uno dei due assassini. Ha parlato e parla lei, donna sarda dell’anno. È intelligente, non veste i panni dell’eroina (“mi sento solo una ragazza normale”). E si chiede: “Non è normale onorare col ricordo un fidanzato ucciso dalla follia e che verso di me era pieno di tenerezze?”. Parla con i magistrati e conversa con i cronisti. Accetta il flash di una macchina fotografica. Qualche giorno fa il prefetto di Nuoro, Antonio Pitea, è venuto a portarle la solidarietà delle istituzioni. Un gesto ricco di significati civili, siglato da un uomo dello Stato, nel silenzio inquietante di altre istituzioni, di altri pulpiti, di tanti professionisti. Pina Paola parla serena e decisa avanti alla mamma che ne apprezza ogni gesto, ogni riflessione. Non porge l’altra guancia. “No, non perdono, non si può perdonare chi uccide un uomo, chi stronca una vita”. In tre ore di colloquio mai evocata la parola vendetta. La giustizia è quella pubblica, non quella privata, da Far West. Parla piano, quasi sotto dettatura: “Io accetterò le decisioni dei giudici, dovrebbe accettarle sempre tutto il paese. Il processo è in corso e con la sentenza, per me, calerà il sipario su un dramma assurdo che ha ferito ancora una volta Orune, lo ha riportato in negativo alla ribalta della Sardegna. In me resterà il disprezzo a vita verso chi ha compiuto un atto così vile”. Motiva questo suo comportamento: “Credo che occorra parlare sempre: l’uso della parola non uccide, l’uso della pistola sì. Orune rinasce se parla, muore se tace”.Sembra di vedere e sentire Juliette Binoche, l’attrice francese che ha interpretato “Niente da nascondere” del registra austriaco Michael Haneke. E come in quel film anche qui, tra Nunnàle e Sant’Andria, si capisce che la donna nuova della Barbagia ha una forza e una passione che l’uomo forse non ha. Anche qui “la verità” diventa “la cosa più importante, senza paura”. Orune - coperto ormai dalla nebbia delle prime ore della notte - è sotto choc perché Pina Paola Monni ha creato per amore un evento storico, ha frantumato il tabù dell’omertà complice, ha sbriciolato una muraglia a tenuta stagna di silenzi dettati da un codice più barbaro che barbaricino. Perché oggi Orune non è un paese normale, né sereno, né tranquillo. Non lo è mai stato dal dopoguerra. Si può vivere bene, si può sorridere tra case e pascoli dove la vita è scandita dai rintocchi a lutto delle campane a morto? Nella piazza del Comune freddano a fucilate una mamma che va a prendere il figlio al bar. In campagna uccidono un pastorello di 14 anni com’era successo il 19 luglio del 1971 a Giovanni Gattu che badava alle pecore sfogliando Topolino sotto una quercia in un prato di primule bianche. È sereno un paese dove padre e figlio vengono decapitati e tre fratelli massacrati da uno spavaldo squadrone di morte? È normale che a Capodanno, come avvenne tra il ’91 e il ’96, si sparino migliaia di colpi e le strade siano pavimentate di bossoli? È normale calo demografico o c’è dell’altro se gli abitanti negli Anni ‘50 erano seimila, 4.600 nel ’70 e oggi ridotti a 2.860, anzi a “2600 residenti”? Negli anni ’50-‘60 alle elementari rispondevano all’appello 975 bambini in 34 classi, oggi gli scolari sono 123 divisi in nove classi. È normale che un paese - anche nella Sardegna dello spopolamento delle zone interne - si dissolva per la fuga dei suoi abitanti che vivono sotto una cappa di paura e varcano il Tirreno per cercare la nuova terra promessa all’estero o nei casolari della Toscana, nelle colline del Montefeltro o della Maremma? Pina Paola Monni ha 22 anni. Capelli lisci neri, maglioncino grigio, voce composta ma decisa. Porta all’anulare una fedina “regalata da Pasquale”, al medio un anello rosso-melagrana “regalato dalla famiglia di Pasquale”. Dal girocollo pende un filo di catenina in oro. Poche parole incise, come usano i fidanzati: “Pina Paola e Pasquale per sempre”. Si conoscevano di vista ma si erano frequentati dal giorno della festa di Sant’Isidoro 2003, a fine maggio. Possiamo uscire stasera? “Gli ho risposto di sì, mi aveva accompagnato a casa in macchina”. Poi tanti altri incontri “quando lui rientrava dal lavoro, manovrava l’escavatore di un cantiere edile, facevamo lunghe passeggiate in macchina, dopo qualche settimana il primo bacio, sotto un leccio, qui, vicino a casa. Lo presento ai miei genitori, lui mi porta dai suoi, eravamo felici, insieme stavamo bene, mi copriva di carezze”. Oggi Pasquale Coccone avrebbe avuto 24 anni. Era nato in un’altra famiglia normale di Orune, figlio di ziu Peppinu, pastore di pecore e di zia Pietrina Zidda. Abitava in via Isonzo, rione “Punteddone”. Un hobby su tutti, i cavalli: “Aveva comprato un purosangue baio da corsa, si chiamava Nitèo”. Una passione che sfocerà nella tragedia. Una fucilata in gola contro il povero Nitèo. “Pasquale sa subito chi ha sparato sul cavallo, lo cura e Nitèo si salva. Poi lo vende. Ne acquista un altro, lo teneva a Chilivani. Con i cavalli partecipava alle sfilate del Carmelo, a quella de “Su Segnore”, per Corpus Domini. Gli piaceva il trotto, il galoppo, le quadriglie. E quando era in groppa, sorridente nel tenere le briglie e nell’abbellire Nitèo con fiori bianchi e rossi sulla criniera, si sentiva felice”. Era felice anche la sera della Domenica delle Palme. Pina Paola ricorda quel giorno, era una giornata più londinese che orunese, cielo grigio. Di mattina Pasquale va a casa, a Su Pradu, e la porta in chiesa. Lui esce con gli amici. Dopo la messa a pranzo a Bitti, dalla nonna materna di Pina, Paola Bocco. C’era tutta la famiglia, allegra. Da nonna Paola fino alle quattro e mezzo del pomeriggio, poi a Sa Matta, all’ovile del padre di Pasquale. Ci si fermano fino alle sette. Tornano in paese, lui va casa per fare la doccia, lei lo attende per strada. Si incontrano di nuovo, fanno qualche passo insieme, lui entra da solo al bar 2000. Pina Paola - raccontano gli atti processuali - nota due giovani armati, Alessandro Sestu e Mario Pala. Uno di loro aveva sparato contro il cavallo di Pasquale. Dopo qualche minuto sente alcuni colpi d’arma da fuoco. “Mi si gela il sangue, tento di entrare al bar, mi viene impedito, vedo uscire tante persone, ma Pasquale no. Urlo il suo nome”. Cerca ancora di entrare. La bloccano. “Capisco che Pasquale è stato ucciso, è stato ucciso anche un suo amico, Amerigo Zori”. Vede Mario Pala che col calcio della pistola “infierisce” sul corpo di Amerigo. Continua a urlare. “Mi portano a casa, poi corro all’ospedale di Nuoro dove trovo Pasquale morto”.-Perché ha deciso di parlare? “Era la cosa più giusta che potessi fare secondo la mia coscienza”.-Ha paura? “No, ho fatto il mio dovere di fidanzata e di cittadina”.-Da poco quelle scritte sui muri contro di lei, piene di offese. “Ho saputo ma l’ho messo nel conto. Sono sempre più convinta di aver fatto bene a parlare”.-Il paese le è stato vicino? “Direttamente no, indirettamente sì”.-Come passa le sue giornate? “Ormai non esco più da casa, non mi piace l’ambiente del mio paese”.-Come è questo ambiente? “È dominato da poche persone violente che incutono timore sugli altri onesti e rispettosi. Vorrei che Orune vivesse tranquillo e dimostrasse agli altri paesi che cosa siamo in positivo. L’ambiente, lo voglio ripetere, è condizionato da pochi prepotenti che girano armati e molti subiscono. Occorre reagire. In altri paesi c’è stato un mutamento, da noi , e mi dispiace perché vorrei vivere nel mio paese, ricco di intelligenze, di laureati, di donne creative”. La mamma di Pina Paola è Maria Antonietta Ruiu, lavora come ausiliaria all’ospedale “San Francesco” di Nuoro. Voleva studiare ma a casa non c’erano soldi. Sposata con Salvatorangelo Monni, noto Baddòre, pastore di pecore a “Serra ‘e mesus” verso Nule, ha altri due figli: Pietro, di 16 anni (lavora in un cantiere edile) e Nina che studia al liceo intitolato a un grande sardo, Michelangelo Pira. Dopo le scuole medie anche Pina Paola frequenta lo scientifico di Bitti. Si ritira dopo il secondo anno (“mi aveva infastidito la bocciatura, non ritenevo di meritarla”). Nel 2000 apre un negozio di abbigliamento nel paese, in via Andrea Chessa: “All’inizio gli affari giravano, dopo tre anni sono costretta a chiudere”. E poi? “E poi a casa, ad ascoltare musica leggera e classica, guardo la tivù, leggo Sergio Atzeni, mi piace molto Stephen King, ho riletto due volte Il miglio verde. In estate vado a fare la stagione negli hotel di Orosei, e poi di nuovo a casa. Quando c’era Pasquale uscivo spesso, andavamo a Nuoro e Bitti a mangiare in ristorante o in pizzeria, adesso sto qui. Sola. Con i miei genitori e i miei parenti”. La casa è all’ingresso del paese, sulla vecchia strada per Nuoro, quella della casermetta di Sant’Efisio. È nel rione dov’è sorto il campo sportivo, prima del bivio che porta a Bitti. Un rione da residence, belle case con giardino, ci abitano cinquanta famiglie. All’ingresso vi accoglie un cartello di “Benvenuti nell’area leader II Gal delle Barbagie”, trovate ragazze che fanno trekking, sentite i campanacci delle pecore al pascolo e le grida festose di giovani atleti che si allenano nel campo di calcio. La casa di Pina Paola è ombreggiata da un agrifoglio verdissimo, tanti alberi da frutta, una fitta siepe di piracanta con le bacche rosse e gialle. Una casa normale, all’ingresso c’è il padre che sta rientrando dall’ovile. Pina Paola è nella sala da pranzo dove accoglie gli ospiti, dove ha ricevuto il prefetto. Qualcuno le chiede se accetterà la scorta che le è stata proposta. “No, io non la voglio. Ringrazio il dottor Pitea per le attenzioni che ha avuto ma io sono una ragazza di 22 anni, voglio potermi spostare senza dover essere di peso a nessuno. Io so di avere infranto alcune regole ma - lo ripeto - l’ho fatto in piena coscienza. Perché dovevo star zitta se ho visto chi ha sparato il mio fidanzato e l’amico?”. Nella stanza tante foto alle pareti: spiccano alcuni ingrandimenti con Pasquale cavallerizzo. Sul piano del comò altre foto di momenti felici, lei e lui abbracciati, lei e lui che si baciano, e poi il luttino con una scritta scelta da Pina Paola: “Guardando il cielo vedremo tante stelle, ma una sola la riconosceremo con il tuo sorriso immenso”.Il processo, al palazzo di giustizia di Nuoro, è in corso. Uno degli assassini - Alessandro Sestu - ha confessato. L’altro, Mario Pala, è latitante. La confessione di Sestu non avrebbe dovuto convincere i giovani presenti al bar 2000 a testimoniare? Pina dice: “Sì, potevano parlare, le loro dichiarazioni avrebbero fatto solo da cornice. Ma qui non si parla per costume”.-Che cosa vuol dire “per costume”? “Vuol dire che così è sempre stato. Ma con il silenzio ci ritroviamo con un paese vuoto e triste, dove le mie coetanee hanno paura di uscire e di parlare. Io mi sono comportata spontaneamente, ma è vero che ho avuto poche manifestazioni di solidarietà. Ciò non è successo per mancanza di rispetto né verso la mia famiglia né verso quella di Pasquale e Amerigo. Qui la gente ha paura, perché tutti sappiamo che nel paese ci sono molte, troppe pistole”.-Proprio nessuna solidarietà? “Ha preso posizione Bachisio Bandinu, il professore-antropologo di Bitti. E ha detto a Rai3 parole sagge. Il parroco di Orune, don Fenudi, dall’altare ha detto: vigliacco chi ha visto e non parla. Non mi sembra che quelle parole siano state ascoltate. Poi poche altre manifestazioni di solidarietà tranne il commento di qualche giornalista nuorese e di Giulio Angioni. Ma il paese - quello delle campagne e quello delle professioni - hanno taciuto”.-Continuerà a vivere a Orune? “Sì, perché credo che questo paese prima o poi reagirà. Non credo che i bambini di oggi vogliano vivere in un paese dove di sera scatta il coprifuoco. Vorrei che i bambini di oggi possano vivere in un paese normale, sereno, tranquillo. Se tutti parlano, se tutti accettano la legge dello Stato e non quella privata, Orune può rinascere”. E forse in qualche casa vuota tornerà la vita.Pina Paola Monni vorrebbe vivere e lavorare in un paese sereno, normale e tranquillo       >>       Sempre dallo stesso giornale  un articolo   che descrive  bene   il   clima di orune  e di quelle zone  dove  in particolare  dal 1950 più di 90 delitti: il sangue chiama vendetta in una spirale che pare inarrestabile   e porta  a chiedersi  in luce  del gesto  coraggioso di  Pinna  Quanti morti ancora perché il paese sia pacificato?  e  che neppure l’impegno degli Anni ’70 ha piegato i violenti   << ORUNE. Negli anni Settanta era stata la cooperativa teatrale “Antonio Pigliaru” a tracciare la strada del palcoscenico e della recitazione per tentare di esorcizzare la vendetta. Attori e attrici di Orune, di primo piano, espressivi, avevano portato in scena “In nome del padre”, un delitto come tanti, l’abuso di alcool, il canto delle prefiche (“ana mortu Antoni, coro meu”). Era un no corale alla vendetta, alla faida. Fu un successo in tutta l’isola con una regista, Pina Càmpana, che amava il suo paese più di se stessa. Il teatro approdò nelle scuole, lassù, a “Cuccuru ‘e teti” dove erano arrivati attori nazionali ed esteri, con testi sardi, nazionali ed esteri, ballerine di danza classica, giocolieri. Sindaco era un medico comunista, Pietro Pala. Diceva: “Dobbiamo cambiare pian piano la cultura quotidiana: portare i giovani in biblioteca, allontanarli dai bar, dare ai giovani un libro, togliere le pistole da ogni casa”. E ancora: “Dobbiamo chiedere alle mamme di educare i figli. Ogni giorno”. Nacque la biblioteca comunale Antonio Pigliaru, dietro il municipio di Piazza Remigio Gattu. Tornarono altri spettacoli teatrali, ce ne furono alcuni itineranti, di notte, per le strade del paese dove spesso soffiava “su ventu malu”. Qualcuno aveva paura di quella sfida, ma fu vinta. E fu una festa, un trionfo. Si capì che si poteva camminare sicuri tra viottoli illuminati da fiaccole. Se tornava l’ombra dei delitti, col coltello o con la doppietta, in aperta campagna o tra i flipper di un bar, si convocava il Consiglio comunale e si discuteva in pubblico. Intervenivano Mario Melis, presidente della Regione ed Emanuele Sanna, presidente del Consiglio regionale. Il vescovo, monsignor Giovanni Melis, predicava da sacerdote invocando la pace. Certo. Molti tacevano. Molti disertavano. Ma l’istituzione, la politica svolgeva il suo compito. Civico e civile. Non è bastato. Perché i delitti sono continuati come prima e peggio di prima. In campagna e in paese. E non sono state risparmiate le donne. Nel 1971 - per stare alla cronaca più recente - uccidono una mamma che non voleva che il figlio stesse al bar a ubriacarsi. Si chiamava Domenicangela Senes. Povera donna, trovò la morte in piazza. Perché? Perché voleva spezzare la catena alcool-pistola-delitto-faida. Non glielo avevano perdonato. Un anno dopo, il 30 luglio, ammazzano Antonietta Goddi e Pietro Tolu, erano in via Asproni, rione Parraghine. E chi dimentica quel fiore di ragazza - Maria Teresa Moni - assassinata la notte di Capodanno del 1977 sulla porta di casa? Aveva tredici anni. A novembre del ’90 massacrano di piombo una ragazza di 26 anni, Giuseppina Sanna Pirrolu. Risparmiano il padre “per fargli assaporare il lutto, non l’hana mortu pro intènnere prus su dolore”, spiegò un orunese a un cronista. Dopo Giuseppina ammazzano anche un fratello: rientrava dalla festa di nozze della sorella. Quanti altri delitti? Dal 1950 a oggi ne sono stati commessi 92, quasi due all’anno. Con periodi di terrificante recrudescenza. Sei delitti nel 1984 (due fratelli Deiana, un Mula, un Sanna, un Malune, uno Zidda), altrettanti nel 1989 (ancora un Deiana, Vargiu, tre fratelli Coccone, un altro Malune) e così l’anno successivo (tre Chessa, Busia, Moreddu e Pirrolu). E poi le croci sui Baracca, Arridu, Pittalis, Montesu, Deserra, Burrai, Mangia, Siotto. Come dire che in ogni famiglia c’è stato un morto ammazzato. Deve essere una catena senza fine? Tornano alla mente alcune frasi di un gigante della dottrina forense nuorese, l’avvocato Gonario Pinna. Conversando nel 1967 con alcuni universitari durante la pausa di un processo in Corte d’Assise a Perugia, aveva parlato di alcuni centri del Nuorese: “In Barbagia più di un paese ha saputo superare i drammi ereditati dal passato. Le tragedie, le faide avvengono dove regna la prepotenza, dove l’ospite è guardato con sospetto, dove il carabiniere o il poliziotto sono visti come nemici”. Gonario Pinna difendeva alcuni pastori di Orune. Di Orune - e di un altro paese oggi forse pacificato - parlò: “Occorre il ricambio dei globuli rossi. Orune da solo non ce la farà mai, ha bisogno di innesti buoni”. Pinna, che aveva studiato in Germania, aggiunse: “Bisogna portare a Orune i pedagogisti di Heidelberg e farli vivere lì. E siccome gli orunesi sono intelligenti capiranno che cosa vuol dire il confronto”. Tornare alla terapia di Gonario Pinna il sociologo sarulese? Tornare alla ricetta più semplice di Pina Paola Monni che invita tutti all’uso della parola per uscire dalla notte nera della vendetta? Certo è che a Orune le migliaia di onesti hanno il diritto di vivere in un paese “normale, sereno, tranquillo”.(g.m.) >>  Speriamo che sia il primo esempio  perchè è  così poco usuale che qualcuno "parli" e  abbai  un coraggio cosi  grande  che bisognerebbe scriverne ogni giorno.

24.10.05

Senza titolo 921

 
Il magico suono delle pietre che unisce l’arte alla natura    
 
Lo scultore Pinuccio Sciola racconta il suo rapporto con la materia che plasma fino a restituirle la sua anima Ecco perché ogni sua opera suscita suggestive emozioni  

 
 


 


L’artista si racconta a studenti italiani e tedeschi. Tema, il càntico delle pietre. Cortile della grande casa-laboratorio di Pinuccio Sciola, nel cuore di San Sperate: è in corso un incontro di studio. Il grande scultore parla ai ragazzi forestieri come se parlasse ai suoi figli. Narra della musica delle pietre, dell’esperienza di Assisi, del mistero dell’arte, del rapporto con la natura. Era a Monza, Sciola, nei giorni scorsi, nel parco di Villa Reale, davanti alla scuola in cui hanno studiato Nivola, Fancello e Pintori. E’ felicissimo e confida: «Ho provato un’emozione intensa, completata dalla straordinaria accoglienza riservata alle pietre sonore». Stavolta il cronista non deve fare domande: si limita a riportare quelle dei ragazzi, con le risposte dell’artista.
 - Da dove viene l’idea delle pietre sonore?
 «Nasce con me. Fin da piccolo, quattro-cinque anni, impastavo il fango. Quando ne avevo sette-otto ho visto dei muratori che spianavano e squadravano delle pietre. Mi sono detto: se loro riescono a fare questo, perché io non posso riuscire a fare una figura, un viso, una mano»?
 - Allora?
 «Ho rubato un paio di pietre, ho provato con strumenti rudimentali. Ci riuscivo. Poi sono andato alla ricerca delle pietre di San Sperate. Quando sono stato scoperto da Vittorino Fiori, Foiso Fois e dal provveditore agli studi avevo diciotto anni. A casa dei miei genitori non era mai entrato un libro e neanche uno stipendio, io non ho fatto le scuole medie. Sono stato scoperto e buttato al liceo artistico».
 - Scoperto come e dove?
 «In una mostra a Cagliari, alla Rinascente. Oltre al primo premio, mi diedero quattro anni di borsa di studio per riprendere la scuola, il liceo era privato. Mi sono dedicato agli studi. Il dramma è stato dopo il diploma. Mi proposero di insegnare al liceo».
 - Fatto di per sé sconvolgente?
 «Mi sentivo più ignorante di quando vi ero entrato ma si era scatenata in me la voglia di sapere. E mi chiedevo: se rimango cosa faccio, l’insegnante? Ho mandato tutti a quel paese e sono scappato».
 - In quale direzione?
 «A Firenze. Lì ho conosciuto una ragazza tedesca che mi parlava dell’Accademia Internazionale di Salisburgo, la più importante del mondo. Esperienza fondamentale per me. Finiti i corsi, andavo in giro per l’Europa. Dormivo per terra, nelle stazioni ferroviarie. A Firenze avevo lavorato una volta sola il marmo di Carrara, con tutti i santi crismi classici. Rientrato in Sardegna, ho ripreso a lavorare le pietre minori».
 - Come mai? E perché?
 «Per ridare dignità a questo elemento povero. Ho continuato per anni e mi rendevo conto che ogni colpo dato alla pietra era una violenza. Lavoravo pietre di cava, già violentate. Con la presunzione dell’artista cercavo di ridar loro una forma. Ad ogni colpo mi dicevo: si tratta di una violenza in più».
 - Quale rimedio ha trovato?
 «Da allora ho cercato di infierire il meno possibile. Ero conscio di avere un alleato immenso: il tempo, gli agenti atmosferici. Scrissi una sorta di epitaffio. Diceva: mi auguro che le mie sculture un giorno ridiventino parte della natura. Posso farvi vedere opere di trent’anni fa sulle quali i muschi hanno sanato le ferite. Quando faccio dei lavori grandi, per togliere un blocco opero una serie di tagli più o meno paralleli, con lo smeriglio. Agevola il lavoro».
 - Ma questo è basalto, una pietra molto dura. Come si regola?
 «Con il basalto ci vogliono tagli ravvicinati. Passando la mano, sentivo vibrazioni differenti a seconda dello spessore della lama, della profondità, del tipo di pietra. Questa curiosità mi ha portato ad approfondire l’esperienza attraverso incontri con musicisti. Vado avanti con emozioni differenti, tutti i giorni».
 - C’è qualche altro che segue la sua strada?
 «Finora non ho mai saputo che altrove ci sia un’esperienza del genere. Naturalmente tutto questo è possibile grazie anche alla tecnologia. Se non ci fossero state queste lame che permettono di entrare in profondità, probabilmente non sarei mai riuscito a tirare fuori questi suoni».
 - Ci racconta l’esperienza di Assisi?
 «In tutta la mia carriera, una delle cose più emozionanti è stata la mostra di due anni fa ad Assisi. L’architetto Strozzi di Terni, per rifare la piazza assisiana dopo il terremoto, ha girato il mondo cercando le pietre giuste. La figlia, architetto lei stessa, ogni tanto gli diceva: in Sardegna c’è uno scultore che fa suonare le pietre. Il padre, come tutti gli operatori del settore, sa che la pietra è muta. E mandava sua figlia a farsi friggere».
 - Com’è che invece vi siete conosciuti?
 «Qualcuno ha insistito, facendoci incontrare. Io sono arrivato con la documentazione: video, sonora e cartacea. Quest’uomo è rimasto impressionato. E mi ha detto: parlerò subito col Padre custode di San Francesco, ma scrivi anche tu una presentazione».
 - E lei cosa ha fatto?
 «Ho scritto una lettera direttamente a San Francesco, saltando qualche intermediario». “Caro San Francesco, quando parlavi all’acqua, ai fiori e alle stelle, la pietra stava ad ascoltare in silenzio. Quando hai composto Il cantico delle creature tu non hai mai parlato delle pietre. Grazie all’intuizione di un artista e alla tecnologia, ora la pietra vorrebbe che si ascoltasse la sua musica nella tua piazza e nella tua chiesa. Tanti saluti, Pinuccio Sciola”. Molti ironizzavano: San Francesco ti ha risposto? Replicavo: guardate questa piazza piena di pietre, più risposta di questa! Ma la cosa più bella è stata un’altra: ci hanno fatto fare un concerto nella basilica superiore: quella con gli affreschi di Giotto. Alla fine i frati hanno voluto una mia scultura accanto alla tomba di San Francesco. E mi sono ritrovato in compagnia di Giotto e di Simone Martini».
 - Reazioni particolari di chi ascolta per la prima volta le pietre che suonano?
 «Sì. Un mio amico che non c’è più, il giornalista della Rai Dino Sanna, venne qui con la famiglia e il giorno dopo mi scrisse una lettera. “Carissimo Pinuccio, da quando ho ascoltato i suoni delle tue pietre la mia vita è sconvolta, non posso più guardare una montagna o un nuraghe senza pensare che al suo interno c’è un suono represso”. Noto un grande interesse a livello di musicologia. A Lussemburgo, l’altro anno, ho fatto una mostra e tre compositori hanno utilizzato i suoni delle pietre per le loro composizioni, lì, ai musei. Ma c’è una domanda che mi fanno tutti e che oggi nessuno mi ha fatto: come nascono i suoni».
 - Ha già risposto prima.
 «Era una risposta tecnica. Sentimentalmente, i suoni nascono nel silenzio della campagna quando cerco le pietre. Quello è il momento più importante. Ricordo un episodio: nelle campagne tra Uras e Mogoro. A una decina di metri da me ho visto una pietra e mi sono bloccato. Sentivo dei suoni, un’emozione incredibile. Mi sono avvicinato, ne vedevo solo una parte. L’ho girata, accarezzandola. Si è instaurato tra noi un bellissimo rapporto d’amore. L’ho portata in segheria. Quando ho finito di lavorarla con l’acqua, l’ho messa ad asciugare e l’ho accarezzata di nuovo per sentire i primi vagiti».
 - Ecco una paternità sui generis!
 «Sì, molto molto profonda. Qui vengono tante scolaresche. Ne è venuta anche una da Iglesias, seconda elementare. Una bimba mi ha chiesto: come ti sei avvicinato all’arte? L’insegnante l’ha rimproverata dicendo che la domanda era stupida, nessuno si può avvicinare all’astratto. Ma io ho risposto alla bambina».
 - Che cosa le ha detto?
 «Mi sono avvicinato all’arte come ognuno di noi si avvicina ai suoi genitori, fratelli, sorelle. Anch’io ho due sorelle: con la più piccola ci gioco e le regalo le caramelle: si chiama Pittura. La sorella grande è molto più severa: si chiama Scultura».
 - Lei ha fatto mostre dovunque. L’accoglienza è diversa secondo il luogo, o l’animo umano è sempre il solito?
 «I commenti sono sempre entusiasti. Il suono delle pietre lascia tutti stupefatti». Il cronista lo ricorda nel nord della Germania, in una “settimana sarda”, ottobre 1988. Amburgo, città fresca: nessuno sorrideva mai prima delle quattro del pomeriggio. C’era anche Maria Carta, bellissima e triste. Vedendo le pietre di Sciola - non ancora sonore - e ascoltando Maria, i tedeschi iniziarono a sorridere fin dal mattino.


 


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 Noi, ospiti nel giardino della musica   
L’esperienza della professoressa Manconi nel laboratorio di S. Sperate


  
 


SAN SPERATE. La professoressa Giovanna Manconi accompagna i ragazzi stranieri e i suoi alunni al laboratorio all’aperto di Pinuccio Sciola e dice: «Insegno lingua e letteratura tedesca al Deledda di Cagliari. Siamo tornati dall’artista: ogni anno rinnoviamo il gemellaggio tra la nostra scuola e un ginnasio di Sarbrucken, nel Sarland, vicino alla Francia. In questa scuola, tra l’altro, Pinuccio ha fatto una mostra di grande successo».
 «I ragazzi imparano a conoscerlo: ormai è quasi una tradizione, torniamo qui e siamo accolti dall’artista che ci fa vedere le sue opere. Gli studenti lo intervistano e cercano di capire l’idea di base della sua concezione artistica. Oltre al giro per il paese-museo e tutti i murales, studiamo la sua opera e ne registriamo l’evoluzione».
 Da quanto tempo ritornano qui, gli studenti del Deledda? Giovanna Manconi: «Da cinque anni. Scopriamo sempre qualcosa di nuovo: i ragazzi cambiano, le generazioni si evolvono, le domande sono diverse. Gli interessi diventano sempre più profondi».
 Ma non sarà perché pure lui si rinnova? Questa storia delle pietre che suonano è un bell’incantesimo. Suonano anche le foglie sotto la pioggia, le fronde attraversate dal vento o colpite dalla grandine. Però quelli sono suoni già emersi, mentre la pietra era un suono sepolto. O, forse, non è così?
 Annuisce, la professoressa di tedesco: «Pinuccio Sciola è riuscito a tirare fuori i suoni. Un’impressione bellissima l’abbiamo avuta l’anno scorso: nel suo giardino delle pietre stavamo seduti all’ombra, i nostri ragazzi facevano merenda, ad un certo punto alcuni di loro si sono allontanati. Tutto a un tratto abbiamo sentito questi suoni bellissimi. Erano gli studenti che giocavano con le pietre. Un concerto».
 Ogni pietra è uno strumento musicale diverso? «Ci son pietre che hanno un suono, altre ne hanno uno più cupo», osserva la Manconi.
 «Stando seduti lì ci è arrivato un concerto eccezionale. Io sono capitata qui l’anno scorso. C’era un maestro che tentava di riportare, nella chiesetta qui vicino nel paese, il suono della pietra nello spartito. Diceva: c’è bisogno di due spartiti complementari proprio perché la pietra si presta a diverse sonorità. Sappiamo che Sciola ha fatto suonare maestri veri e propri, ad Assisi, e ne è risultata una serie di concerti di alto livello».
 Interviene lo scultore: «Se Michelangelo avesse usato una di queste pietre, il suo famosissimo Mosè avrebbe avuto la parola».
 
 
 
 


 

26.9.05

Senza titolo 823

 


la nuova del  27\9\2005  Pagina 44 - Cultura e Spettacoli
 
La Barbagia apre le sue «Cortes»  Sino a gennaio artigianato e gastronomia in mostra a Nuoro e in 24 paesi   Bitti, Oliena e Orani le prime tappe di un lungo viaggio nella tradizione e nell’antica ospitalità  

 
«Camminare tra le case di pietra dei centri storici, assistere alle lavorazioni artigiane, assaporare prodotti tipici dai sapori genuini, scoprire i segreti di una cultura millenaria nello splendido scenario di una natura incontaminata». Romolo Pisano, presidente della Camera di Commercio di Nuoro, illustra così la filosofia alla base di «Autunno in Barbagia», la manifestazione che da alcuni anni si propone come vetrina delle zone interne dell’isola e che attrae migliaia di visitatori ad ogni sua tappa. Venticinque i centri della provincia di Nuoro, capoluogo compreso, che da settembre sino a metà gennaio propongono al pubblico un’offerta che ha nella nota ospitalità barbaricina il suo punto forte. «Autunno in Barbagia» è nata per riunire le manifestazioni dal nome «Cortes Apertas» che da diversi anni l’Aspen, l’azienda speciale della Camera di Commercio, organizza in collaborazione cone le varie amministrazioni comunali. A queste da quest’anno si aggiunge la seconda edizione di «Mastros in Santu Predu» (18-19-20 novembre), dedicata ad artisti e artigiani del quartiere più antico di Nuoro, ma anche la tradizionale Sagra della castagne e delle nocciole di Aritzo (28-29-30 ottobre), o «La montagna produce» di Desulo (dal 31 ottobre al 2 novembre). «Autunno in Barbagia» si è aperta ai primi di settembre con le «Cortes» di Bitti, Oliena (una delle più suggestive), e poi Orotelli e Orani, che si è chiusa proprio domenica scorsa. I prossimi appuntamenti sono in programma a Sarule e Ollolai (dal 30 settembre al 2 ottobre), dove si svolgeranno le «Cortes Apertas». A Tonara, il 1° e il 2 ottobre tocca invece alla sagra «Sonaggias e turrones, teruddas e taggeris». L’appuntamento successivo è a Gavoi (dal 7 al 9 ottobre) con «Ospitalità nel Cuore della Barbagia», cui segue Osidda (dal 14 al 16 ottobre) con le «Dommos Antigas». Il 15 e il 16 ottobre ci si sposta a Lollove, l’unica frazione di Nuoro, un borgo di pastori che conserva intatte, forse un caso unico nell’isola, le abitazioni tradizionali. La manifestazione ha per titolo «Vivilollove». Poi è di scena Orgosolo (21-22-23 ottobre) con «Gustos e Nuscos», e Belvì, negli stessi giorni con «Giochi e sapori in Barbagia». A Sorgono, il 22 e il 23 ottobre si svolge «Sa Innenna». Ottobre chiude con la sagra di Aritzo e le «Cortes Apertas» di Dorgali (28-29-30). Tra fine ottobre e inizio novembre Desulo ospita «La Montagna Produce», vetrina dei prodotti del Gennargentu che ogni anno richiama migliaia di visitatori. «Tappas a Mamoiada» e l’appuntamento dal 4 al 6 novembre, mentre a Ovodda (dall’11 al 13 novembre) le «Cortes Apertas» diventano «Ungrones de bidda». Un discorso a parte merita «Mastros in Santu Predu», la manifestazione che dal 18 al 20 novembre si svolge a Nuoro, dove non era mai stata realizzata una «Cortes Apertas». Due anni fa, in modo spontaneo e senza alcuna sponsorizzazione pubblica, un gruppo di artisti e artigiani del quartiere San Pietro, il nucleo storico della città, aveva dato vita a un percorso, «Le vie di San Pietro», che per un’intera giornata attirasse i visitatori nelle loro botteghe. L’iniziativa ebbe successo e l’anno dopo diventò «Mastros in San Predu», curata dall’associazione Traccas con la collaborazione dell’Aspen. Quest’anno è alla sua seconda edizione. «Autunno in Barbagia» prosegue ad Atzara (26-27 novembre), poi a Olzai (2-3-4 dicembre), Fonni (9-10-11 dicembre), Orune (17-18 dicembre), Tiana (16-17-18 dicembre), e si conclude a Teti (16-17 genanaio 2006). (p.me.)
 


 



 dalla nuova  sardegna del  26\9\2005


Pagina 5 - Sardegna

A Nule gli artigiani custodi della storia e dell’economia
Per il sindaco è un paese povero ma nella capitale sarda del tappeto decine di persone producono e vendono



Per il sindaco, Angelo Crabolu, ingegnere, capo di una giunta di centro destra, «Nule è un paese povero». Può darsi che abbia ragione perché tra Barbagia e Goceano sono poche - o del tutto inesistenti - le isole di vero benessere economico (e sociale). Però in questo paese di granito e molti gerani sui balconi, ai piedi del castello «Santu Lesèi» (Sant’Eliseo), in un territorio dominato da quaranta siti archeologici, non ci sono possessori di panfili e di jet ma un patrimonio belante di ventimila pecore che però rappresentano una cifra superiore ai due milioni di euro. Tra i 1550 abitanti (meno di 400 i nuclei familiari) non ci sono gioiellieri né industriali, ma di questi ultimi è tutta la Sardegna a non poter tracciare identikit.
In quest’altra capitale sarda del tappeto - tra boschi, pascoli, sorgenti e rocce d’incanto - diverse decine di artigiani producono bene e vendono. Non c’è casa senza telaio, con o senza partita Iva. Ma soprattutto, c’è un’azienda, la «Tessile Crabòlu» che è riuscita nel miracolo di rivitalizzare un capannone quasi a mille metri sul livello del mare, nell’altipiano che porta a Bitti, zona archeologica di «Romanzesu». Per raggranellare miliardi a gogò dalla Regione era sorto alla fine degli anni Settanta, quando qualcuno - non ancora scottato dai cloni dei Nino Rovelli e brigate varie - credeva che bastasse un anonimo signore della Brianza a creare sviluppo tra i nuraghi. Nacque la Betatex, ci avrebbero dovuto lavorare cento ragazze soprattutto di Bitti ma erano state solennemente buggerate. Imprenditori da codice penale. Volevano lavorare nell’altipiano di San Giovanni la lana che arrivava addirittura dal Camerun. Fu un fallimento totale. Fino a quando sono emersi alcuni capitani coraggiosi locali. Cognome doc, Crabolu, che più sardo e bucolico non si può. I Crabolu di Nule acquistano lo stabilimento con i macchinari semimarci e arrugginiti. E gli ridanno vita. Sono loro a realizzare il sogno industriale, di trasformazione su larga scala dei prodotti locali. Creando l’unica azienda che utilizza la lana sarda, quella delle tosature delle pecore, raccolta in tutta la Sardegma, dal Sulcis alla Gallura. E da qui la lana esce in tappeti con lavorazione di pregio. Tra i clienti Porto Raphael di Perugia e altri bei nomi del bon ton tessile italiano e degli States. Un miracolo. Perché oggi a San Giovanni trovate montagne di sacchi di lana sarda che qui viene selezionata, pulita, filata in matasse o in rocche. Ci lavorano 18 persone di Nule e Bitti. Con professioni e macchine che ricordano la prima fase della rivoluzione industriale inglese. Ci sono i tessitori: Giovanni Pietro e Giuseppe Manca, Gianfranco Mellino, Davide Cancellu e Luca Sechi. Con loro i cardatori: Antonio Mellino (noto «Dentone») e Giuseppe Cossu. I filatori sono Mario e Giuseppe Manca, Antonello Bella e Mario Farre. Angelo Scanu, sassarese, è ritorcitore, prepara le rocche che poi vanno a finire sui telai. Biagio Masala è aspatore, segue alle macchine il confezionamento delle matasse. E poi il terzetto dei roccatori con Andrea Coratza, Gianfranco Mellino e Angelo Scanu. Macchinari computerizzati, quasi tutti nuovi. Se a San Giovanni si lavorano le lane (tra i 15 e i 18 mila quintali), in paese ci sono i laboratori. In mani femminili naturalmente. Qui vengono rifiniti i tappeti in cotone e in lana, tovaglie, tende, centrini, copriletto, tutto quanto è necessario e tutto quanto i clienti richiedono. Col lavoro manuale e creativo di Maria Antonietta Zoroddu (“madre di due figlie disoccupate”), Lucia Masala (altre due figlie, ancora a scuola), Maria Rita Manca e Manuela Mellinu. Due lavorano part time: Antonio Dessena e Simone Zoroddu. Il fatturato? Il 4 per cento in Sardegna, il resto tra Italia e mondo. Tutto avviene a Nule paese da export dove la lavorazione del tappeto tradizionale è nel dna di ogni ragazza che nasce sotto Punta Ameddaris. Continua a essere una grande tessitrice la madre dei Crabolu, Pietrina Cocco, 76 anni che aveva imparato “da zia Gavina”. C’è anche un decisivo innesto continentale. Il marito di Pietrina è Benedetto Crabolu, noto Initeddu, pastore di pecore nella solitudine delle campagne di Taspìle. Con la seconda guerra mondiale finisce in Grecia, sta per essere deportato in un campo di concentramento dei tedeschi, riesce a scappare dal treno in compagnia del suo tenente, bellunese. Initeddu resta quasi alla macchia perché qui, in Alta Italia, i tedeschi non perdonano. Fino a quando il tenente riesce a trovargli un lavoro clandestino in una filanda di Belluno. Initeddu vede i processi di lavorazione e giura che appena rientrato in Sardegna creerà a Nule un’azienda simile. Detto fatto. Initeddu e Pietrina si sposano il 22 agosto del 1953. Nel’64 nasce il primo laboratorio con personale di famiglia. «Ma facevamo solo la filatura», ricorda la signora Pietrina. La svolta è degli anni Ottanta. La Betatex va in malora. Subentrano i figli di Initeddu. Vanno in giro per fiere in Italia e all’estero, vanno a vedere aziende tessili in Italia e all’estero fino a quando la «Tessile Crabolu» decolla. Festa grande a San Giovanni. Dove oggi Giuseppe Luigi Crabolu, 47 anni, è presidente e amministratore unico con i fratelli soci: Biagio di 45 anni, direttore commerciale e Angelo, 41 anni (sindaco del paese). I punti di forza ?
 «Usare prodotti locali, sicuri, facciamo noi la raccolta ovile per ovile. Abbiamo tecnici di alto livello, veramente professionali e affiatati, fanno gioco di squadra. Rispettiamo la tradizione facendo un prodotto sicuramente industriale ma di alta qualità. E la clientela è affezionata», dice Biagio. E i punti di debolezza? «Quelli di tutte le zone interne della Sardegna: la difficoltà dei trasporti, l’alto costo dell’energia, l’Adsl è un miraggio. Ma ci misuriamo con negozi che apprezzano la qualità: che è la nostra forza». Tappeti industriali e tappeti tradizionali. Le tessitrici attive sono oltre cinquanta ma quelle in regola con le leggi sono appena cinque: la cooperativa Madonna del Rimedio, collegata all’Isola che qui ha creato un buon nucleo di tessitrici rispettose della tradizione senza tralasciare gli effetti positivi delle nuove tecnologie. Ci sono Giovanna Chessa e Giovanna Maria Campus che propongono pezzi di pregio, hanno una clientela scelta, raffinata. Ghitta Dore ha una bella casa a «Su tronu» dove mostra tutti i suoi lavori con i colori caldi del tappeto di Nule. Ha una bottega museo Pina Crasta, ha l’arte e il commercio nel sangue, sulla porta d’ingresso trovate il suo nome in ceramica e in ceramica c’è anche il numero di telefono di casa e il cellulare. Lavora spesso con le sorelle Maria e Lucia. Di lei parlano le riviste specializzate. «Nei miei tappeti - dice - ci sono i miei sogni, i miei desideri, tutti i desideri, e li realizzo con la tecnica delle dita storte, sos poddighes trotos». Su Traveller le hanno fatto raccontare la tecnica di s’ambisue, la sanguisuga, «una sorta di patchwork di grande effetto cromatico». Da Pina Crasta ieri c’erano molti turisti. Decisamente incantati Giovanni Grieco di Rionero in Volture (Basilicata) dipendente di un’azienda telefonica e Saturnino Norcini, bancario genovese. Arrivavano dalle Terme di Benetutti in compagnia di due amici sardi, Lorenzo de Martin di Villagrande e Franco Loddo di Muravera.
Ma non di soli tappeti vive Nule. L’artigianato garantisce reddito a diverse famiglie. Eugenio Bitti e il figlio Giampiero mandano avanti una bottega da falegnami e il lavoro, come capita ovunque a tutti i bravi «maestri del legno», non manca. Antonello Mellino si ingegna con creazioni in ferro battuto, Antonio Giuseppe Manca si industria con l’alluminio. Tre le imprese edili con Francesco Cocco, Giuseppe Manca e Marco Pintori. Due calzolai moderni, Giuseppe Dore e Franco Campus con clientela affezionata sparsa in tutta la Sardegna. Giuseppina Leoni ha un calzificio che sforna calze in lana sarda per pastori, per trekking, per cacciatori. E c’è una piccola azienda, la «M.N», Manifattura Nulese, dove dal polipropilene si produce «filo tecnico», cioè filo per corde, cinture di sicurezza per le macchine e per mille altri usi. La materia prima si poteva comprare a Ottana, adesso giunge da Oltretirreno. Il titolare è Giovanni Crabolu.
Anche l’agroalimentare comincia a ritagliarsi fette e nicchie di mercato ancora modeste ma promettenti. Tre i panifici mandati avanti da Francesco Mellino, Alfredo Mellino e Mario Mela con i fratelli. Due i negozi di pasta alimentare fresca (Marina Coloru e Silvana Zoroddu) e altri due di dolci tipici (Angelo Mellino e Maria Luisa Cocco). Da un anno è attivo il «Consorzio del formaggio dell’altipiano di Nule» per produrre un pecorino che è già riconosciuto «prodotto tipico» ora in attesa del Dop, denominazione di origine protetta. È un formaggio assolutamente eccellente, ottimo sapore, buona la pasta, bello l’aspetto. Sono già attivi quattro laboratori artigianali di trasformazione, non sono minicaseifici ma vere e proprie aziende che seguono metodi tradizionali di lavorazione proprio per conservare una tipicità che non deve andare dispersa. Questo consorzio (presidente Giuseppe Crabolu) coinvolge un po’ tutto il paese, dai Manca (Giuseppe, Rosalia, Andrea) a Maria Maddalena Mellino, Antonio Dettori, Giuseppe Dessena, Antonio Dore e Piero Mulas. È una attività che può prosperare soprattutto se alla bontà del prodotto si affiancherà un sistema agile ed efficiente di commercializzazione. Le pecore sono poco più di ventimila, un numero sufficiente per consentire agganci anche con la grande distribuzione specializzata. «Ma va spezzato l’isolamento della campagna, sono necessarie strade di penetrazione agraria agevoli», dice l’assessore all’Agricoltura Salvatore Mellino. Hanno da fare anche gli altri assessori. Ornella Manca, ragioniera in cerca di lavoro, ha la responsabilità del Bilancio, Giuseppe Luigi Mellino - dipendente del ministero di Giustizia - la delega per i servizi sociali, Raimondo Satta - ingegnere - è ai servizi generali. C’è tanto «sommerso». Ma Nule potrebbe produrre molto di più se anche le altre istituzioni capissero quali e quante sono le risorse dei paesi della Sardegna di dentro, dei paesi - dice il sindaco - «senza santi in paradiso». Perché Nule «è parte del Goceano ma ai suoi margini, è parte del Monte Acuto ma - ha scritto Giovanni Michele Cossu - ai margini del Monte Acuto, non fa parte della Barbagia ma confina con essa, tanto vicina da averne subìto gli influssi». Le carte da giocare non mancano. L’economia del tappeto confezionato casa per casa, quella dei prodotti alimentari, l’artigianato avrebbero maggiore fatturato se esistesse una calamita che sapesse attirare più visitatori. Forse bisogna specializzarsi di più, rischiare di più. Qualche esempio positivo Nule lo ha dato. Sono attesi gli emulatori.

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Un tesoro di tessuti e ricami nella mostra di Casa Garau  
  
 
 
Per due settimane a Thiesi, nell’antica abitazione al centro del paese, in esposizione indumenti e abiti di gala risalenti al periodo tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento  
 
 THIESI. Se l’abito non fa il monaco, certamente è uno specchio rivelatore - e neppure troppo segreto - dei percorsi storico-culturali di una comunità distinta fra molte come quella di Thiesi. Per due settimane la casa Garau - un palazzotto nobiliare del centro storico, edificato quattro secoli fa in quella che attualmente si chiama via Vittorio Emanuele, rione «Sos Cavaglieris» - ha ospitato una mostra di indumenti e abiti di gala thiesini risalenti a un periodo tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento. All’interno di questa casa antica «tutto sembra paralizzato - hanno scritto gli organizzatori della Pro Loco nella presentazione -, senza dimensione temporale, come se la maga cattiva abbia disteso il velo del sonno su tutto». La maga buona, invece, è Giovanna Chesseddu, un’insegnante di lettere dagli occhi chiari e dall’eloquenza naturale, che le si esalta ancora di più quando parla in sardo, per l’uso straordinario che riesce a far della lingua resistenziale: limbazu lichitu, parlata di estrema eleganza. Con Salvatore Ferrandu e Stefano Ruiu, Giovanna è l’anima dell’iniziativa messa in moto dalla Pro Loco.Negli anni Sessanta i proprietari hanno abbandonato Thiesi», ricorda Ferrandu, ex-sindaco del paese oltre che insegnante e animatore dei maggiori eventi culturali. «Ma la figlia ritorna sempre, da noi, e si prende cura della casa. Teresina Garau ci ha dato la possibilità di esporre e ha esposto anche lei. Guarda che roba! Ha conservato perfino le scatole dei magazzini Printemps di Parigi. Qui c’è un tesoro. Fra un anno si potrà aprire per far visitare anche la casa, con i mobili, l’arredamento». Il professor Ferrandu conosce tutto a menadito: «Questi pezzi sono del 1900: una mantella-scialle, corsetti con il vitino cosiddetto da vespa, ornamenti vari tipo le piume da inserire nei cappellini, borse, borsette e borsellini. Ogni pezzo va esposto con grazia. Quest’altro è un prendisole del 1800.Teresina è la depositaria di tutti i ricordi familiari, dunque della nostra comunità intera». Anche Giovanna-maga-buona si è documentata alla perfezione: «Questa è una cuffia della belle époque», inizia a mostrare. «Ed ecco sas bértulas, le bisacce con l’albero della vita, lo stesso disegno che ritroviamo poi nelle camicie. La mostra racconta l’abbigliamento a Thiesi, tutto: il feriale e il festivo. Eravamo partiti dall’idea del solo vestire quotidiano, ma il materiale era poco. Abbiamo fatto venire qui Gian Mario Demartis, etnografo della Sovrintendenza, per evitare de nàrrere calchi machine, di dire sciocchezze. Soprattutto per le datazioni. Questi coritos, giubbonetti, come li chiama l’Angius, hanno gli stessi disegni delle bisacce e delle camicie che puoi vedere esposte, una simbologia comune: figurava praticamente in tutti i capi». In sardo logudorese la camicia maschile si chiama bentone e il sostantivo è di genere maschile, per l’appunto. Ite sun custos bentones, Juanna? «Queste camicie», risponde la professoressa, «sono un rifacimento di quelle più antiche, senza colletto». Nel periodo spagnolo - aggiunge Salvatore Ferrandu - «questa tipologia ha preso piede, come camicia più importante, la Sardegna aveva il simbolo protettivo dell’albero della vita: non contava solo la bellezza dell’indumento, ma l’albero serviva anche a proteggere chi lo indossava. Simboli apotropaici, come dicono i dotti». Vengono poi le gonne, che a Thiesi si chiamano bunneddas quando sono di fattura ordinaria e tùnigas quando si tratta di pezzi importanti. Spiega Giovanna Chesseddu: «Questa è la gonna gialla d’orbace, per il lutto». Come, un lutto tinto di giallo? «Sì, alla fine dell’Ottocento il lutto esterno era di quel colore», precisa. «Il fazzoletto-copricapo, su mucaloru, nel lutto serviva anche a nascondere il volto. Ma non c’era la civetteria del nodo, il fazzoletto veniva tenuto insieme da una spilla che nascondeva anche il petto. Sa tùniga groga era poverissima, molto adatta per esternare il dolore dal momento che non ostentava nulla. Quest’altra era una gonna di gala, forse. C’è un abito di una donna ricca del 1880. Lo studioso Gian Mario Mario Demartis, che se ne intende, dice che tutta questa ricchezza non si ritrova in altri centri. Roba antica e moderna e abbigliamento di transizione. Nel primo decennio del secolo scorso abbiamo scialli alla veneziana e scialli ottocenteschi, perché qui c’era gente che vestiva all’antica e contemporaneamente altra gente che vestiva a sa tzivile, secondo criteri moderni».
 Incorniciata su una parete, una foto di Don Enrico, «il capostipite dei Garau che un bel giorno vendette tutti i suoi possedimenti ad Arbus e comprò a Thiesi: terre e case dai feudatari», come racconta Salvatore Ferrandu. Si gira per le sale. Giovanna Chesseddu mostra su gabaneddu frunidu, il pastrano d’orbace ricamato in nero e foderato perché doveva essere comodo. Qui di ricostruito non c’è quasi nulla. Queste sono gonne di una che è morta al suo terzo o quarto parto, nel 1898: le sue gonne mostrano elementi di transizione come il ricamo a punto raso, importato a Thiesi dalle suore».
 Si possono ammirare altri coritos, di fidanzate vicine alle nozze. «Ce n’è uno - spiega ancora Giovanna Chesseddu - usato dalla moglie del poeta improvvisatore Andria Nìnniri il giorno del matrimonio. Non è vero che il costume fosse uguale, le varianti dipendevano, sì, dalle possibilità economiche, ma anche dall’abilità nel ricamo di questa o quella donna thiesina». Su una sovracoperta da letto matrimoniale (sa fàuna) in lino tessuto al telaio c’è una scritta: «Viva Gesù Nostro Amore e Maria Nostra Speranza dopo Gesù, donna Giovanna Livesi nata Gutierrez anno Domini 1764». La parola nata «è scritta con due t», osserva un visitatore. Un altro risponde: «No ti nd’ispantes, non meravigliarti: ancora oggi ci sono personaggi importanti, anche se non nobili, che con l’italiano hanno parecchie difficoltà». E fa il nome di un notissimo uomo politico. Chissà chi lo sa, avrebbe detto Febo Conti. Un’altra sovracoperta in lino reca la data del 1883, più avanti si può ammirare un reggiseno da giovinetta nubile, ma già predisposto - da un apposito bottone anteriore - per il tempo tempodell’allattamento. «Vivo bene questo impegno - confida Giovanna -. Ci siamo stancati, abbiamo anche litigato, ma ci serviva fare uscire queste perle dalle casse, far conoscere alla gente ciò che aveva in casa. Personalmente, è un piacere, oltre che un dovere nei confronti del paese. Anche noi abbiamo diritto al bello. Il costume di Thiesi non è quello che presentano i gruppi folk, tutti precisini ma sempre identici a sé stessi». Parla Stefano Ruiu, che ha il doppio impegno della mostra e della tesi di laurea in filologia romanza sui poeti di Thiesi: «Una bella esperienza - dice - anche se mi dispiace non aver potuto dedicarle tutto il tempo che avrei voluto, ma grazie a Giovanna e anche a Salvatore...». Dal fondo della sala una voce lo interrompe: «Come, anche? Salvatore può essere tutto, fuorché un’anche. Vogliamo scherzare»? Il Salvatore in questione è Ferrandu, che interviene: «Loro due, Giovanna e Stefano, erano già in sintonia, io sono entrato dopo». L’onore dei grandi è l’umiltà.


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 Il fascino dell’abito di gala  
La descrizione dell’abate Vittorio Angius nel 1846  
  
  
  
 
 THIESI. Quel cronista memorabile che risponde al nome dell’abate Vittorio Angius nell’anno di grazia 1846 scriveva così del costume di Thiesi: «Le donne del popolo seguono l’antica moda e amano il colore giallo nella gonnella di panno (sa tùniga groga), dal quale sono nei paesi vicini riconosciute fanciulle o donne di Thiesi. Il petto copresi in parte da un busto di velluto o di altra stoffa di color arbitrario e un giubbonetto (su coritu) con le maniche, nell’inverno». Questo nell’ordinaria amministrazione dell’uso. Per le solennità, ovviamente, il discorso cambia e l’abate-cronista-storico lo documenta perfino nei dettagli. «Quando sono in gala - distingue il curatore del dizionario del Casalis - allora le gonnelle gialle cedono a quelle di scarlatto (sas tùnigas rujas) - il busto di velluto a quello di broccato in oro od in argento; lo scarlatto serve anche di giubbone, nelle cui maniche pendono e suonano sei od otto grossi bottoni sferici di filigrana d’argento o d’oro con molti anelli, bei pendini pendinie collane di corallo incastrate nell’oro o nell’argento che si posano sul mezzo petto nudo, sopra i bottoni d’oro o d’argento, che chiudono la camicia ricamata sulle mammelle».Ausonio Spano, in una poesia intitolata «Sa thiesina» ricorda Giovanna Chesseddu, dice che le nostre antenate avevano scoperto assai presto sas artes de sas signorinas, le arti delle damigelle. Arriva l’ora dei primi bilanci. La mostra ha raggiunto quota mille e trecento presenze documentate dalle firme nel registro apposito. Ma si calcola che un numero di visitatori oscillante tra il quindici e il venti per cento non abbia firmato. «Noi siamo contenti, la gente è addirittura meravigliata», commenta ancora Giovanna. «Chi conosceva queste cose ha avuto modo di ricordarle e di rifletterci sopra, chi non le conosceva ha imparato qualcosa di nuovo». Le fa eco Stefano Ruju: «La collaborazione dei nostri compaesani è stata buona. La popolazione ha risposto molto bene: quando la gente vede un interessamento vero e capisce che tutto questo può servire alla comunità collabora volentieri. All’inizio, magari, c’è stata una qualche titubanza, poi abbiamo avuto una risposta piena». Ma il bello - o il brutto, a seconda dei punti di vista - deve ancora venire.
 Annuncia Giovanna Chesseddu: «Occorrerà documentare tutto questo fervore di iniziative con una pubblicazione che rimanga negli anni a testimoniare un patrimonio di valore fuori dal comune. Speriamo di essere all’altezza». Intanto, sempre per iniziativa della Pro Loco e del suo presidente Juanne Uneddu, sta per essere pubblicata una raccolta di versi di Juanne Antoni Cossu, poeta thiesino vissuto tra il 1897 e il 1972, dal titolo «Chentu poesias», con contributi di Salvatore Tola, Tonino Rubattu, Stefano Ruju, Giovanna Chesseddu e Angela Cossu, la figlia del poeta. E non sarà sicuramente dimenticato un altro artista di virtù elevata, il grande cantore estemporaneo Antoni Piredda, nato a Thiesi nel 1905 e morto a Sassari nel 1984.Tiu Piredda è stato uno degli estemporanei di maggior talento nella storia della poesia cantata in piazza, protagonista di ardite battaglie in versi con i più famosi cantadores logudoresi: Barore Tucone, Barore Sassu, Remundu Piras e Peppe Sozu in testa. Un onore che il paese renderà volentieri a chi ha fatto conoscere il nome di Thiesi nei più lontani villaggi della montagna sarda: un guerriero sui palchi, una persona amabile fuori dagli agoni poetici, un uomo vero.
 
 
 


 

13.9.05

Senza titolo 795

Nel supramonte del sud, un tempo regno dei bracconieri, torrenti, vallate e cascate spettacolari Linas, il parco dei sogni   Tutelata l’area dove sorge la miniera di Perd’e Pibera Itinerario nella Sardegna più segreta, in uno dei siti ambientali più preziosi del Mediterraneo 



GIANNI OLLA 


 VILLACIDRO. «Sul Linas ci vanno i bracconieri, non i turisti...». Breve scambio di battute prima di un ennesimo viaggio in cerca dei parchi che ci sono e non ci sono. Il nostro interlocutore è un geometra dell’ente foreste, che conosce bene quei luoghi. I bracconieri li combatte da anni, e ne conosce le mosse, i sentieri che utilizzano, le trappole, anche micidiali, e non solo per gli animali. Chi scrive ha semplicemente chiesto notizie della strada sterrata che, da Gonnosfanadiga arriva alla base delle cime, ed in particolare a Perda’e Sa mesa, 1236 mt, facilmente raggiungibile, a piedi, dall’altipiano di Nuraxi Togoro. Infatti nella primavera scorsa la strada, comunale, è stata resa inagibile per qualche settimana dalle piogge torrenziali. In effetti, non sembra credibile - anche per esperienza personale - che quell’area che molti chiamano il Supramonte del sud, con i suoi spazi vastissimi dai quali si vede mezza Sardegna e tutta la costa marina occidentale, con i suoi torrenti e le sue cascate spettacolari, con le sue vallate boscose che affascinarono anche Lamarmora, preoccupato dell’assalto selvaggio al legno, sia solo il regno dei bracconieri. Non lo è neanche per l’ente foreste e per i due comuni interessati. Il comune di Gonnosfanadiga, ad esempio, divenuto proprietario dell’ampia area occupata dalla miniera di Perd’e Pibera, ne ha fatto un parco, affidandolo in gestione all’ente foreste che sta ristrutturando gli edifici minerari. Da Perd’e Pibera parte il percorso più bello, più lungo e spettacolare verso tutto l’arco del Linas, descritto in tutte le guide e segnato dal Club Alpino Italiano. Sul versante opposto, alla fine della strada comunale che parte dalla chiesetta bizantina di S. Severa, il punto di partenza per altre escursioni è la località che, nelle carte IGM, è chiamato Ovile Linas, a quota 732mt. Era il centro di una vasta proprietà ad uso prevalentemente pastorale, ma i padroni, cagliaritani, non disdegnavano qualche gita. Infatti, incongruamente, a due passi da quello che è oggi un cantiere dell’ente foreste e che dovrebbe diventare un rifugio per i visitatori, vi è una costruzione rossastra in legno, con grande tetto spiovente in stile alpino: la cosiddetta «casa formaggino», oggi sbarrata, che potrebbe anch’essa diventare un buon luogo di sosta. Da questo punto di arrivo le «ripartente» a piedi, in bici, a cavallo, sono innumerevoli. Attraverso vecchie carrarecce utilizzate dai carbonai e dai minatori, si arriva in poche ore fino a Fluminimaggiore. Oppure, proseguendo lungo altri sentieri, ugualmente ben segnati, ci si inoltra nella valle dei Rio Linas, Cannissoni, Leni, in vista della lunga sequenza di cascate spettacolari (Linas: quattro salti tra i trenta e i dieci metri; Muru Mannu, settanta metri; Piscin’Irgas, 40 metri) che hanno avuto l’onore di diverse ricognizioni da parte delle riviste specializzate di viaggi e turismo. E il titolo di uno dei servizi era significativo: la Sardegna che non ti aspetti. In alternativa, un altro sentiero lungo le pendici di quel Muru Mannu da cui scende il torrente che forma la cascata, si arriva alla valle di Oridda, cioè al confine tra i comuni di Villacidro e Domusnovas. Scortato dai responsabili dell’ente foreste (il dottor Mole e il responsabile del complesso, dottor Maxia), chi scrive è arrivato invece a Oridda da una strada sbarrata che parte dagli ex complessi minerari di Tinì-Arenas, in territorio di Fluminimaggiore. Giornata straordinaria d’inverno. Sole e neve, che imbiancava non solo le cime del Linas, ma tutto il bosco: paesaggio incantato da stampa giapponese o da film di Zhang Yimou, con le impronte degli animali del bosco ben visibili sul bianco della neve. Poi dal Rio Orrida, che dà origine alla cascata di Piscina Irgas, un’altra strada sbarrata - vecchio percorso dei lavoratori che da Villacidro raggiungevano le miniere dell’Iglesiente - ci ha portato direttamente alla sede dell’ente foreste di Villacidro, nella foresta di Monti Mannu, divisa da un altro torrente, il rio Leni, che dava l’acqua potabile al comune. La palazzina dell’ente foreste, circondata di maestosi cedri del Libano, assomiglia ad un alberghetto della campagna francese, elegante, squadrato e invitante. Un tempo era la direzione della miniera di Canale Serci, luogo, in qualche modo storico-letterario. Alle spalle delle costruzioni ristrutturate stanno in bell’evidenza i resti della laveria e della fonderia, descritte da Giuseppe Dessì in una delle sequenze western di «Paese d’ombre». Scrive Dessì che, alla fonderia della miniera arrivavano i carichi di legname dalla foresta di Mazzanni, in alto, sul monte, dove oggi si sta scavando un tempio punico. I vagoni ferroviari venivano portati a valle, in andata, dalla semplice forza d’inerzia e, al ritorno, erano trascinati dai muli. La descrizione del terrore dei muli, legati e bendati dentro i vagoni, durante la rumorosa discesa, è uno dei pezzi più belli del romanzo. Ed è altrettanto bella l’evocazione misteriosa della fucilata che uccide il rapace «disboscatore» toscano che scendeva anch’esso a valle dentro uno dei vagoni. La sinergia cultura/ambiente è una delle sfide che il parco - chiamiamolo finalmente così, perché esiste, almeno quello letterario intitolato allo scrittore di Villacidro - ha lanciato da qualche tempo. E non si può dire che non abbia prodotto risultati, nonostante le tipiche indecisioni isolane (politiche e mentali) e la ricerca di professionalità da formare. Comunque, per chiudere in bellezza e ottimisticamente questa puntata, non solo vanno segnalati gli sforzi della fondazione Dessì per porsi come ponte tra la geografia, la storia e la letteratura ma anche la volontà di rendere fruibili questi luoghi con sentieri ben tracciati, accessibili a tutti e con la possibilità di soggiornarvi. Mentre il comune sta costruendo, su vecchi ruderi di carbonai, una locanda in mezzo al bosco, l’ente foreste ha quasi finito di ristrutturare, nella stessa area di Monti Mannu, la vecchia caserma che diverrà un rifugio. L’area del Linas/Monti Mannu non è più misteriosa e la sua attrazione non è più solo la cascata di Sa Spendula (ai margini del paese) celebrata da D’Annunzio. Siti Internet molto belli (che l’ente foreste, colpevolmente, non ha) e molto curati mostrano gli accessi e i sentieri anche più difficili, nonché i luoghi ancora poco battuti (come la misteriosa serie di cascatelle di S’Ega Sizzoris, nella valle di Villa Scema) e mettono a disposizione numeri di telefono per le guide. In primavera si svolgono spesso manifestazioni di escursionismo per professionisti che scalano le cascate e in luglio, sul lago artificiale Leni, c’è una manifestazioni internazionale di triathlon. Insomma, la strada maestra per fare davvero dei parchi che non taglino fuori i comuni e la popolazione. E che producano anche reddito.
 
 

2.9.05

Viaggio nel profondo sud


BENVENUTO A ME
BENVENUTO A TE
BENVENUTO VOTARXY
BENVENUTO A ME


A un mese circa da quando l'ho compiuto e ad oltre un mese da quando ho ricevuto l'invito per postare in questo blog, incomincio a scrivere un resoconto del mio ultimo viaggio, un pellegrinaggio nel profondo sud della Sicilia alla ricerca delle ragazze più belle di tutta Ragusa Ibla.
In effetti non è vero, di ragazze ne ho viste ben poche ma in compenso ho macinato le mie ciabrutte lungo tutte le viuzze del paese, ché ero andato sì in vacanza ma col pretesto di tenere compagnia ad un mio amico che frequenta l'università in quel luogo lontano e magnifico e che doveva cercare un nuovo alloggio perché quello vecchio non gli andava più bene. Del resto, una volta arrivati avremmo scoperto che non andava bene nemmeno per il padrone di casa, considerato che senza sapere nulla dei fatti dell'amico mio aveva già messo il nuovo cartello AFFITTASI e trovato una famiglia di potenziali inquilini.


Ma andiamo per ordine.


Per intanto, il pomeriggio prima di partire (s'era d'agosto) diedi un'occhiata svogliata alla pagina più seria del quotidiano locale (la gazzetta del sud), scoprendo che per tutti i Toro sarebbe stato un fine-settimana pessimo (l'unica nota positiva - cito a memoria - è che, essendo ormai sabato, non avrete bisogno di uscire per andare al lavoro e quindi potrete evitare ulteriori problemi), dopodiché salimmo entrambi, io e l'amico mio Fabius, sul treno che ci avrebbe condotti da Barcellona a Messina, dove avremmo preso l'autobus che ci avrebbe fatto giungere a Catania, ove avremmo viaggiato su un altro autobus fino a Ragusa, per farci infine condurre da un locale al paese di Ragusa Ibla, nostra ultima dimora.
Sul treno, prima sorpresa, faccio caso per la prima volta ad una scritta che stava lì dove l'ho letta da tanti anni, uguale in tutto a migliaia di altre scritte in tutta Italia, una sotto ogni finestrino di ogni vagone di ogni treno...


pericoloso sporgersi!!!

La particolarità di quest'avvertenza è nel raffronto tra il modo in cui viene data nelle quattro differenti lingue: mentre italiani e inglesi sono più contemplativi, limitandosi a dare un avviso sulla pericolosità di certi gesti, francesi e tedeschi vietano categoricamente di sporgersi, dimostrandosi quindi meno tolleranti.
Va detto, però, che la scritta è stata probabilmente tradotta nelle diverse lingue dalla stessa persona, probabilmente italiana, ma anche questo è significante!


divieto_di_sessoAlla stazione di Messina vidi anche uno scialbo graffito, una serie di insulti fatti col pennarello: scemo, cretino e povero... scemo... ok cretino... e vabbè... ma "povero"? che insulto è? Comunque a Messina non abbiamo fatto granché, tranne che attendere l'autobus e sparare cazzate e osservare e fotografare le cazzate degli altri, come questo cartello modificato da chissacchì che una volta serviva a vietare l'accesso alle persone non autorizzate...


Sul bus abbiamo credo dormicchiato, perché non ricordo nulla del viaggio; a destinazione però abbiamo scoperto che per Ragusa avremmo dovuto attendere grosso modo due ore e quindi siamo andati in giro con me facevo da cicerone culinario dicendo a Fabius: "Compare adesso ti faccio assaggiare una specialità tutta catanese, si chiamano iris, li fanno pure a Palermo però diversi, imbottiti di ricotta e poi passati al forno, mentre qui sono alla crema pasticciera bianca o al cioccolato e vengono impanati e fritti. Ora al primo bar che incontriamo ce ne mangiamo uno a testa di quelli grossi e già bastano come cena!"
Bar ne abbiamo incontrati almeno tre, ma iris non ne facevano. Oh, tempo, le tue piramidi!
Beh, qualcosa da mangiar si trova sempre, e poi in giro a vedere il mondo catanese e io pensavo magari beccavo la Streghetta da qualche parte e invece non avevo idea di dove potesse essere e non sapevo come rintracciarla, e allora ci s'è messi a esplorare i dintorni, e tra un negozio chiuso per nozze (!) e una farmacia dalle ferie ambigue abbiamo potuto ammirare il cavallo nudo:


cavallo nudo, atto IL'opera risulta attribuita ad un certo Francesco Messina, e si trova in una piazza senza nome che a detto del tassista che ci ha accompagnati alla via Etnea dovrebbe essere Piazza Umberto ma non c'è nulla di sicuro. In ogni caso, per essere nudo l'animale non sembra poi tanto scicchigno... ad ogni modo, essendo per l'appunto nudo ed essendo noi italiani cresciuti con una morale cattolica, pare che ogni anno al passaggio della collega Madonna del Carmine (collega in quanto statua anch'essa) vengano apposte al cavallo delle eleganti mutandine in ferro con graziosi bulloni coordinati...
Oh tempora! Oh more!...
Altre cose degne di nota sono una casa incorporata nella lava, che fa il paio con un'altra vista a Ragusa Ibla che ospitava nel proprio intimo un blocco di pietra.


Giunsimo (giungemmo!?), alfin, a Ragusa Ibla, ridente paesino le cui case da lontano paiono accavallate le une alle altre quasi senza strade che le colleghino e separino; nella realtà non è proprio così, ma sicuramente diversi vicoli sono impraticabili dalle auto e ad ogni angolo potrebbe nascondersi un malvivente con un coltello pronto ad infilarsi nella pancia dell'ignaro visitatore. Potrebbe, ma non ho incontrato delinquenti da quelle parti, e a detta dell'amico mio la malavita da quelle parti non si fa sentire.
Era sera ed eravamo stanchi, la sola gita turistica concessa da Fabius fu nel terrazzo sopra la casa, dove era solito fumacchiare alcolici e bere sigarette (o viceversa) in compagnia dei suoi amici, sicché ho avuto anche occasione di osservare le tegole su cui erano soliti vomitare (UOV!!!)...
Fu in quella casa che ritrovai copie di alcune vecchie poesie scritte da me e Fabius anni prima, e colto dall'eccitazione del momento mi convinsi a declamarle, in piedi accanto al letto, nel cuore della notte appena iniziata... immaginate adesso versi immortali ed ignoti quali


... È tempo di partire
incamminarci,
come ho sempre fatto
e come hai sempre fatto tu
che ancora giaci
come una rimanenza nella botte del mio buon vino
del mio buon divertimento
tramutato (forse) in altre realtà,
come lo stesso liquore
dolce come le tue labbra...


Sta di fatto che alla fine di una di quelle poesie mi interrompo per riprendere fiato e vengo sorpreso da un piccolo scroscio di applausi. Mi affaccio seminudo al balcone e vengo accolto da un'ovazione di un gruppetto di cinque-sei ragazzi che mi urlano "Bravoooo!!!"
Che dovevo fare? M'inchino con grazia e torno in camera a tuffarmi sul letto e ridere come uno scemo!

I cessi di RagusaPoi, il pomeriggio del secondo giorno, fu il turno del mare, che a Ragusa Ibla non esiste per ovvii motivi, e così nuovamente autobus (due) e tempo prezioso passato ad attendere e nel frattempo siamo anche andati a comprare una stuoia (costo totale € 2.50, e siccome una stuoia non puoi dividerla in due piccole avevamo pensato che la pagava uno o l'altro di noi e se la teneva poi a vita; dilemma risolto lungo il ritorno, quando l'abbiamo dimenticata sui gradini vicino alla pizzeria dove quel giorno avevamo cenato... visto che non avevamo ancora deciso chi dovesse tenerla, s'è fatto € 1.25 cadacranio).
Nell'attesa ho visto un retaggio di fascismo (a quanto poi m'hanno raccontato) alla stazione di Ragusa, infatti se fate un bello zoom sul cartello meno catarifrangente potrete notare che non si tratta di uno di quei segnali squallidi degli ultimi vent'anni, ma di qualcosa di elegante, con le volute e tutto il resto, e in effetti pare che quantomeno il cartello con la scritta CESSI risalga all'epoca della costruzione della stazione, grosso modo durante il ventennio fascista. Il fucsia non è tipico del cielo ragusano, né si tratta di un effetto che ho dato all'immagine via fotossiop. semplicemente ogni tanto la mia fotocamera digitale mi fa i dispetti perché è cretina!
Fiona a Marina di Ragusa, 6E infine di corsa sulla spiaggia: la spiaggia* di Marina di Ragusa è composta da granelli molto fini, ancor di più della plaja catanese, ed è l'ideale per giocare a farci le forme, o almeno lo è per chi ne è capace. Io, essendo modestia a parte un inetto in questo campo, mi son limitato a riprendere i risultati di un'allegra famiglia di turisti.
Altro ensemble che mi ha colpito è questo:


Dandolo via ma a senso unico, con simbolo fallico


Dandolo via a senso unico, con simbolo fallico. La foto l'ho scattata sempre a Marina di Ragusa. Degna di nota, a parte l'ambiguità sessuale, l'assurdità di una strada ove puoi entrare con l'auto ma non uscirne se non a piedi.




* Tra l'altro, in Sicilia fa caldo e Ragusa è in fondo alla Sicilia, mi son tuffato convinto che avrei nuotato in un brodo e ho dato una panciata tremenda alla sabbia (fondali moooolto alti) subito prima di essere investito da una strana forma di ghiaccio liquido...

 

30.8.05

le mie radici


 

Cari amici vicini e lontani



Da oggi  hodeciso  di aprir una  nuova cateogoria \ rubrica  sul modello e  spesso riportando   gli articoli   dello speciale gente&paesi del più  geande  quotidiano locale  nuova sardegna . 'ispirazione  per questa iniziativa  viene  da : 1) Riascoltando, il cd  riportando tutto a casa  dei Modena City Ramblers  e quello degli ex Csi il disco  di cui  ho parlato  nel  mio primppost   la terra,la guerra,una questione privata ( da cui  ho tratto  la  foto  del lotro ro album  che trovate  qui al lato ), che  erano in canna  nel lettore cd  messi  da mio fratello o mio  cugino adesso non ricordo  esattamente ,  ma   essendo stato colpito da prigrizia  acuta  non   avevo  voglia  d'alzarmi e  andare a   cambiarli ) ,ma soprattutto avvendo visitato questro stupendo blog  che  ha  lo stesso titolo dell'album dei Mcr  di una  che ho invitato   e  non ha ancora scrito , ma  che  scrive  sul  suo delle cose  eccezionali   trovato  nella mia  brutta  abitudine  al cazzeggiareo meglio  come si dice  uin sardo logudorese   \  barbaricino  nel  coglionare continuamente . 2) dal  volere  far conoscere la cultura  sarda  e la sardegna   che non sia  quella  patinata   della costa  smetralda e fuori dai circuiti turistici  . ma soprattutto   e dai pregiudizi  e stereotipi ,  sempre  invia  di diminuzione negli ultimi decennio , ma  ancora  molto  forti ,  nei  confronti  da parte dei continentali (  come noi chiamiamo  voi  della  penisola )   su  noi sardi  che  ci definiscono  senza  conoscere la storia  la cultura   e l'antropologia  : assasini ( in quanto in alcune parti dell'interno si pratica a ncora la desamistade   cioè le faide ) , pastori( in quanto  essa pè ancora  soprattutto nell'interno  anche se  trasformata  con gli agriturismi) però elogiano la nostra cucina  eipocritamente la costa smeralda ( paradiso   dei vip  , la maggior parte  , spocchiosi  )  e il primo nobel  femminile italiano  la scrittrice  grazia deledda . Lo so che  tale inizativa  darà adito a lamentele   fra  chi  di voi ( vedere non apepna sarà ripristinata la tag )   odia copia e incolla o  chi cree  al blog ( guarda caso non più  attivo  mentelucente  ) o  il mio "dossier" del sito  dil bynoi (  falso e   vicino alla callunnia  ,  fatto di  estrapolazionida  post ironici   e  da scherzi / battute   e miscuglio   di cose  vere --poche   e  cose  false  -- la maggior parte  )  ma  la  nuova sardegna  online  è a pagamento  e sarebbe  un peccato  ( sia per noi sardi   , che  per i non sardi )  tale patrimonio culturale e antropologico   finisse nel dimenticatoio  \  oblio ., e  visto  che io considero oltre la  contaminazione  ( il metticiato di Pera  ) la riscoperta (  ovviamente senza  estremizzzarla  )  dele proprie radici  un antidoto ai pregiudizi e stereotipi , oltre che al razzismo e  xenofobia  come  quelli di cui  parlavo precedentemente, ho deciso   che settimanalmente ( almeno per  gli articoli dela nuova ardegna )  riporterò  quella rubrica  dela nuova sardegna  . ovviamente   però tale rubrica \  categoria  sarà aperte  anche  ad altri post  o articoli simili  di quella cultura  ,  anzi quelle culture  che la  globalizzazione selvagggia  e  senso unico   stanno portando  alla scomparsa o peggio alla standardidazione  delelculture  ma ora basta  con le  chiacchere  e veniamo all'articolo vero e proprio

 








da La Nuova Sardegna   del 29\8\2005


di Giacomo mameli



Cargeghe, lo zio d’America e la «Biblioteca di Sardegna»   
«Inedita» ha dato vita a una struttura che custodisce seimila volumi di autori sardi, molti dei quali inediti 

 



C’è chi dà la parola ai vecchi. E lo hanno fatto bene anche qui, con un libro - «Raccontando, storie, fatti e personaggi di Cargeghe» - testimonianze orali «nel rispetto del linguaggio e delle forme sintattiche verbali adottate dagli informatori». Foto antiche di emigrazione e vita campestre, 150 pagine. Ma c’è un fatto nuovo. Questo è uno dei paesi più piccoli della Sardegna, pochi chilometri da Sassari, 620 abitanti, 330 metri sul livello del mare, le case dominate dal costone bianco di Giorrè che sembra una conchiglia che lo protegge, le campagne impreziosite dalla chiesa romanica di Santa Maria di Contra dove i fratelli Taviani avevano girato «Padre padrone» tratto dal capolavoro di Gavino Ledda. In questo scenario hanno voce i vecchi ma anche «i più giovani». Raccontano in un volume «Col naso all’insù» sia Cargeghe che Muros che è a due passi, definiti «nuovi paesi delle Meraviglie, tra versi di favole, filastrocche e poesie declamate dai suoi più giovani abitanti». Mattia Schintu ha scritto: «Caro Muros, sei come il sole che riscalda la Sardegna e le coccinelle ti seguono come passeri». Bianca Ruiu: «Cargeghe è piccolo e ha tanto da mangiare...L’Africa è grande e ha solo riso!».Dietro queste iniziative c’è il copyright di una associazione privata chiamata «Inedita», sorta nel 2003 come «centro di documentazione linguistica e culturale». In due anni si è imposta all’attenzione dell’isola perché ha creato la biblioteca di Cargeghe (il 90 per cento con fondi privati, il 10 per cento del Comune) facendone la «Biblioteca di Sardegna», con seimila volumi tutti sull’isola, con inediti di Grazia Deledda e Antonio Gramsci, molti testi sconosciuti della seconda metà dell’Ottocento, tutta la produzione pianistica del musicista di Samassi Lao Silesu presto consultabile on line in tutte le biblioteche pubbliche sarde. Dietro queste iniziative c’è la volontà di una ragazza-manager che sta per laurearsi in Scienza dell’educazione a Sassari. Si chiama Francesca Santoru, ha 24 anni, è di Cargeghe come la sorella Giovanna che si occupa dell’inventario dei volumi e studia Teoria e tecnica dell’informazione. Con loro Maria Stefania Campesi, da 15 anni bibliotecaria a Tula e Corrado Piana, giornalista e direttore della biblioteca. Un team affiatato e fortunato.La biblioteca nasce perché uno zio d’America ancora misterioso vuole che proprio questa biblioteca gli sia intestata visto che ha donato tutti i suoi libri a «Inedita». Di lui si sa che ha vissuto a Cargeghe e che abita a Washington, che ha sposato una donna di Bortigiadas: «I miei figli - ha confidato a Francesca Santoru - non apprezzerebbero questo patrimonio, lo dono a voi, sono duemila volumi, questi sono i primi ottocento». Ed eccoli esposti - tra computer, stampanti e scanner - sugli scaffali di questa piccola casa di cultura, sulla strada centrale, sotto un manifesto dell’Unesco «Pro sas bibliotecas publicas» e un bell’ingradimento dei costumi di Orgosolo. «Presto avremo gli altri 1200 volumi, sarà una sorpresa per tutti», dice Francesca con un bel sorriso. In attesa delle novità non resta che camminare in queste due stanzette. Ci si imbatte in un prezioso libretto dell’archeologo Antonio Taramelli. Lo ha pubblicato - negli anni ’20 del Novecento - l’Istituto italiano di arti grafiche di Bergamo per l’Istituto nazionale Luce nella collana «L’arte per tutti». Taramelli, che conosceva bene la Sardegna anche per averla percorsa con le sue gambe, titola il suo lavoro «I nuraghi ed i loro abitatori». Ecco l’introduzione che sfatava miti che ancora assurdamente resistono. Emerge un’isola «potente». Taramelli: «L’isola di Sardegna, disgiunta dalla penisola italica dal mare che prima del Tirreno ebbe nome di Sardo, indizio di una remota potenza del popolo che vi ebbe ricetto, serba di questa i testimoni monumentali, che appunto dettero all’isola l’epiteto corrente di isola dei nuraghes. Non è più possibile negare il fervore e l’attività ad una gente che lasciò migliaia di costruzioni, tutte notevoli, alcuni imponenti, destinate a scopi sociali immediati e ad una posterità millenaria».C’è la raccolta di una rivista mensile che di testata faceva «Sardegna». La redazione era a Cagliari, via Giovanni Spano 10. Ogni numero 12 pagine, qualcuna a colori. Nel dicembre del 1930 (A. XII del Fascismo) esce un editoriale di Francesco De Rosa. Titolo: «L’ospitalità dei galluresi». Agli interessati consigliamo un salto a Cargeghe per sapere di che tipo di accoglienza erano capaci - appunto - i galluresi. C’è una bella copia rilegata de «Sa divina Cumedia de Dante in limba salda» del poeta di Berchidda Pedru Casu. Il libro era di proprietà di un certo «Giuseppe Nuvoli» che lo autografa e scrive la data: 1939. La casa editrice? Francesco Nieddu & Figli Ozieri. Spulciando fra scaffali, spunta un inedito di Gavino Cossu, scrittore di Cossoine, titolo in caratteri bodoniani «Il colle del diavolo» con sottotitolo «Ovvero LUPO DORIA MALASPINA Marchese di Bonvhei, tradizione popolare sarda del secolo XIII». Esce nel dicembre del 1869 per iniziativa della «Biblioteca del Corriere di Sardegna» e forse certifica il battesimo dei gadget perché «il presente volumetto è conceduto in dono agli abbonati del giornale cagliaritano Corriere di Sardegna». C’è un timbro ex libris, dovrebbe essere del proprietario, «Uneddu cav. Bernardo, Maggiore a Riposo». Il libro è rilegato in cartone spesso di sette millimetri, sopra e retrocopertina in grigio, formato quasi tascabile, 17 centimetri di base e 27 di altezza. Il testo è diviso su due colonne con una giustezza di sei centimetri e mezzo l’una. Trenta i capitoli, 93 pagine, si comincia con Lupo Giannozzo Gabriele, nel quarto capitolo L’attentato, il nono L’amore, il XIV Fra Selvaggio: Scrittura piacevole, fluida. Nel capitolo XXX si parla appunto del «Colle del Diavolo». Cronache usuali, immutate per un paese sardo, delitti e incendi. Eccone un brano: «L’indomani, ch’era un giorno di domenica, gli abitanti del vicino borgo di Bonvhei s’erano riuniti nel piccolo piazzale della chiesa, guardando con occhio stupito lo strano spettacolo delle arse selve e del diroccato castello ancora fumante. Ognuno diceva la sua: chi narrava che gli acerrrimi e capitali nemici del marchese Lupo, i Pisani, avevano sorpreso il castello, fatto prigioniero il barone e a quello dato il fuoco. Chi diceva che lo stesso marchese aveva di propria mano incendiato il castello, indi,...lanciatosi framezzo ai vortici delle fiamme, fosse in essa miseramente perito unitamente ai suoi familiari». Aggiungete che la biblioteca più privata che pubblica di Cargeghe ha avuto l’intelligenza di creare un ufficio stampa competente, attento alle cronache, ai fatti culturali che contano. Qui si è capito che il marketing territoriale non si inventa dall’oggi al domani e che la comunicazione non è un optional ma una necessità. Per cui questo paesino è uscito dal silenzio e ormai crea feeling anche con i grandi eventi sociali. Ultimo, in ordine di tempo, la partecipazione al salotto letterario della sesta edizione «Sardegna in banchina» in mezzo al concerto di sartie delle vele latine di Stintino. Sabato i miti e le leggende sarde con le voci di Franco Fresi e Maria Lai presa d’assalto da fans dell’artista di Ulassai giunti da tutta la Sardegna. Venerdì la serata di Stintino era firmata Cargeghe con le letture e gli approfondimenti delle opere di Pier Giorgio Pinna («La Sardegna prima della Storia») e di Giacomo Pisu («Dai dinosauri ai popoli del mare»). Per concludere con la proiezione del documentario «Nois» promosso proprio dalla «Biblioteca di Sardegna» con la voce di Franca Masu e le note del musicista Marcello Peghin.Anche qui sono stati esposti manoscritti - anche inediti - di Grazia Deledda, Antonio Gramsci, Camillo Bellieni, dell’archeologo Antonio Taramelli. E in sottofondo gli echi delle musiche di Lao Silesu interpretato dal pianoforte di Roberto Piana prima con dieci piéces brevi dalla prima incisione mondiale di «Feuilles éparses», un notturno in la minore e un altro in mi maggiore, un madrigale, una «Sérénade Passionée». Il tutto sotto il nome di Cargeghe. L’amministrazione comunale è guidata da un pensionato, Giuseppe Taras. Franco Spada, 32 anni, impiegato al Comune di Sassari, vicesindaco, dice: «Questa biblioteca dà valore aggiunto al nostro paese ma rappresenta un arricchimento per tutto il territorio». Tra poco verrà creato un consorzio anche con Florinas e Muros. Francesca Santoru e il suo gruppo cominciano a essere emulate. I motivi sono evidenti. In meno di due anni hanno animato un paese prima agonizzante. Nel dicembre del 2003 una mostra fotografica sull’aspetto architettonico di Cargeghe, nel luglio del 2004 la pubblicazione del libro «Cargeghe nelle cronache dell’Otto-Novecento» di Giuseppe Ruiu. Nella prefazione Francesca Santoru spiega: «Ritratti tra onirici e simbolici, ora cronachistici e documentari, per raccontare, tra storia e leggenda, il fascino di luoghi evocativi, lontani dall’impetuosa ingiuria del tempo». E giù titoli e testi di pezzi usciti tra il 1882 e il 1925 su «La Sardegna» e soprattutto su «La Nuova Sardegna». Poca bianca, molta nera, anche «cronache agrarie». Una vecchia di 70 anni, assassinata e derubata, L’eccidio di Codrongianos, un brigadiere ucciso e un carabiniere ferito, Scuole serali e festive nella provincia di Sassari e poi una cronaca di maltrattamenti di animali: «Un asino bastonato- Cargeghe - Furono contravvenzionati di santa ragione, dai carabinieri che li colsero in flagrante, certi F.G. e B.A. i quali si divertivano bastonando un asino...molto asinescamente. 16 aprile 1893». E una visita postelettorale «dell’avvocato Berlinguer che alle elezioni del 1924 prende 76 preferenze, 25 Segni, 6 Bellieni». Serata galante: «Uno dei cavalieri, il signor Andrea Bazzoni fu Giovanni offrì a donna Maria Berlinguer un mazzo di fiori».E i frequentatori della biblioteca? Il numero cresce, da Cargeghe e dintorni e da tutta l’isola, dai due atenei sardi. Da Iglesias sono venuti in molti a leggere e a sentire Lao Silesu. Avant’ieri c’era una ricercatrice dell’Università di Bordeaux, la settimana scorsa un’insegnante di «Ca’ Foscari»: entrambe per avere maggiori notizie su Lao Silesu e dei suoi rapporti con Gavino Gabriel. In attesa dei nuovi 1200 volumi Lao Silesu è oggi il richiamo forte. Grazia Deledda gli aveva scritto: «Se Ella dovesse nuovamente degnarmi di una visita non mi sentirei mai interamente soddisfatta e vorrei udire ancora dieci, cento volte, quei brani meravigliosi che brulicano vaghi e irrequieti nella mia mente». Giacomo Puccini: «Mio buon Silesu, anche questo gentile e artistico lavoro è tutto profuso di quella incantevole dolcezza che sai riservare in tutte le tue composizioni rendendole care». Apprezzamenti inediti che ci ha fatto conoscere la «Inedita» di Cargeghe. Che merita l’apprezzamento della Sardegna.


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 Fra i gioielli un manoscritto di Bellieni   Un biglietto che l’ideologo del Psd’Az inviò da Trieste nel 1927 

 Nel biglietto da visita si leggeva: CAMILLO BELLIENI. Caratteri in romano antico, nome e cognome in maiuscolo in corpo 14. Sotto, corpo 6, sempre tutto maiuscolo, «DOTTORE IN LEGGE E FILOSOFIA». Il biglietto era allegato a un manoscritto inedito del principale ideologo del Partito sardo d’azione, ora conservato nella biblioteca di Cargeghe. Bellieni (Thiesi 31 gennaio 1893- Napoli 9 dicembre 1975) scrive da Trieste a un «Caro Boj» nel 1927. Anni bui del fascismo che aveva emarginato il grande pensatore federalista. Il Boj - documenta lo storico Manlio Brigaglia - è il sassarese Antonio Boj, massone, studioso di Giovani Maria Angioy. Boj aveva analizzato a fondo il pensiero di Angioy in un libro che raccoglieva documenti pubblicati nel 1925. Boj era stato contestato dai sacerdoti sassaresi Sebastiano Pola e Damiano Filia ai quali non piaceva una lettura laica della storia sarda. Boj invia il suo lavoro a Bellieni che gli risponde il primo gennaio. Ecco il testo integrale.«Caro Boj, scusi del ritardo nel ringraziarLa del suo cortese invito. Sono stato molto lieto di rileggere una pubblicazione che tanta luce manda nella storia sarda e che avevo già da tempo, del resto, meditato. Caro Boj, io non da oggi pensavo di recensire il suo libro, avevo anzi intenzione di pubblicare delle mie considerazioni su di esso, sul volume del Pola, e sul Manno. Spiacevolmente le riviste su cui si poteva un tempo scrivere sono morte. Lei comprende perfettamente come sia per me difficile in questo periodo pubblicare. Ad ogni modo riprenderò l’argomento. Un giorno.... Suo, Camillo Bellieni».
 
 con questo  è tutto alla prossima  settimana 

emergenza femminicidi non basta una legge che aumenti le pene ma serve una campaga educativa altrimenti è come svuotare il mare con un secchiello

Apro l'email  e tovo  queste  "lettere "   di  alcuni haters  \odiatori  ,  tralasciando  gli  insulti  e le  solite  litanie ...