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28.11.22

non sapevo che fare l'influenzer o lo youtuber si dovessero pagare le tasse o che fosse un secondo lavoro . il caso del prof di savona e del suo

 non sapevo che per favore o youtuber o influenzer bisognasse pagare le tasse o


denunciarlo come lavoro .E
poi quale lavoro sarebbe ? se invece di mandare la gente a processo si facessero le regole chiare e spiegare come pagarci le tasse ed le imposte non succederebbero cose come queste ed

avremo meno affollamento ed cialtroni sul web ovviamente senza generalizzare perché in mezzo alla 💩 .ci sono delle perle a rovinare la gioventù

Infatti succede questo v

da repubblica


Savona, professore e youtuber, danno all'erario da 360 mila euro: "Non è vero, io pago le tasse"di Andrea Moggio
Parla il docente nel mirino della finanza che insegnava "ingegneria dell'amore"


La finanza gli contesta di non aver dichiarato all’erario 360mila euro di introiti dalla sua attività di yuotuber, svolta su cinque canali diversi nei quali dispensava i suoi consigli sull’amore, la seduzione, su come conquistare o riconquistare il partner. Non solo, secondo le Fiamme Gialle savonesi, il professor Massimo Taramasco, 55enne docente di Elettrotecnica ed Elettronica all’ITIS di Savona, Istituto Ferraris-Pancaldo, non avrebbe neppure richiesto alla sua scuola la necessaria autorizzazione a svolgere questo “secondo lavoro”. Contattato da Repubblica, il professor Taramasco inizialmente cerca di svicolare (“Non sono io quel professore youtuber”) poi di fronte all’evidenza si limita a ribattere alle contestazioni della Guardia di Finanza: “Non ho evaso neppure un euro di quanto mi viene contestato. Ho sempre pagato tutte le tasse che dovevo pagare. Non un solo euro ho evaso”. Lo ripete più volte. Sulla mancata comunicazione alla scuola della singolare (e non certo occulta) attività in rete, con circa 400mila follower e oltre 37mila video diffusi sui suoi canali Youtube in oltre 10 anni di attività si limita a dire “non sapevo di doverlo comunicare alla scuola”.
Professore di elettrotecnica ed elettronica, com’è diventato un esperto di “ingegneria dell’amore” e in particolare della “seduzione”?
“Io ho solo coltivato una mia passione, ho scritto anche dei libri sull’argomento. Ma ribadisco di aver pagato al fisco tutto quanto dovuto attraverso la mia società”.
La Finanza è di diverso avviso…
“Sarà evidentemente un giudice ad accertarlo. Non vorrei aggiungere altro”.
 In passato il professor Taramasco si era distinto anche per corsi in presenza piuttosto frequentati sull’argomento amore/seduzione. Già nel 2010 era piuttosto popolare. «Prenota ora. Raggiungi i tuoi obiettivi sentimentali con la persona che ti interessa, seguendo ed applicando le tecniche di seduzione e le strategie comportamentali che ti insegnerà il Love Coach».
Questo il messaggio con cui l’allenatore dell’amore reclutava allievi per i suoi corsi. 



11.5.14

riscoperte : robert capa a colori

Eravamo (  compreso  il sottoscritto   prima della  mostra  al man  di   Nuoro   ne  ho  parlato qui  qualche tempo fa  sul blog  )   abituati a pensarlo   come il grande fotografo del bianco e nero e della guerra E non avevamo ancora visto tutto

 dall'edizione di repubblica  del  13.4.2014  qui per il download   (  dove  trovate  meglio  le  foto  che  dal  pdf  si possono  copiare  male  ) 

NEW YORK
Nelle  gare  di apnea   da ragazzino  arrivavo fino a tre minuti. L’apnea è disciplina mentale, se riesci a trattenere il respiro, a non cedere  alla dittatura del diaframma, allora riesci anche a controllare le emozioni.
Arrivo all’International Center of Photography di New York e tiro con il naso tutta l’aria possibile per riempire i polmoni. Davvero non so se davanti alle immagini che hanno costruito segmento dopo segmento la visione  che ho del mondo, le mie funzioni vitali  resteranno inalterate. Incontrare le foto di  Robert Capa è
come stare davanti a Raffaello  o Caravaggio. Tutte le immagini che avete  in mente sulla Seconda guerra mondiale,sulle truppe americane in Italia, sulla guerra  in Spagna, sugli ebrei sopravvissuti ai campi di concentramento, sulle città bombardate,ecco, tutte queste immagini nascoste in qualche angolo remoto della vostra  memoria, esistono in voi perché è esistito Robert Capa. Un fotoreporter che aveva quasi sempre la sua macchina fotografica pignorata e riusciva a riscattarla solo quando riceveva i soldi di anticipo per un servizio fotografico.
I suoi scatti più noti sono ormai proprietà della memoria di tutti: il miliziano anarchico colpito a morte nella guerra di Spagna, la sua foto forse più citata, le madri in lutto intorno
alle bare dei ragazzi del liceo Sannazaro morti combattendo i tedeschi nelle Quattro Giornate di Napoli. Le immagini sfocate dello sbarco in Normandia, quelle a cui Spielberg si ispirò per la sequenza iniziale di Salvate
il soldato Ryan. Foto per definizione in bianco e nero. Per questo la mostra “Capa in Color” allestita qui per celebrarne il centenario rappresenta una sorta di shock visivo.
Prima di tutte c’è quella, incredibile, di Capucine,donna bellissima e sfortunata, morta suicida a sessantadue anni. Incredibile perché standole accanto senti le sue narici  respirare. Il mento posato sul pugno, la luce
di Piazza di Spagna, la camicia rossa. In quello scatto sembra esserci già tutto il suo destino,ed è la prova dell’arte di Capa che con  il suo occhio, con il suo sguardo unico fonda un genere letterario.

La mia  formazione, tutto ciò che ho scritto e tutto ciò che hanno scritto gli autori che mi hanno influenzato, discende direttamente da lui. Il neorealismo letterario, iconografico e cinematografico si è nutrito di Robert Capa. Di questo fotografo che arrivava a stento al metro e sessanta ed è raccontato dalle biografie come indomito amante, cronometrico nello sparire quando l’amata mostrava di volerglisi legare in un progetto di vita assieme. Aveva amato anche Ingrid Bergman, e proprio lui l’aveva introdotta al cinema italiano neorealista. Rossellini si è nutrito del rigore estetico di Capa, che non era solo scovare il dramma, ma la sua pericolosa bellezza comunicativa, per rendere il dramma in grado di trasformare chi lo osserva. Questo, l’insegnamento più profondo di Capa al cinema. Il suo lavoro non ci ha solo consentito di costruire un personalissimo e sontuoso mosaico.



 No, Capa ha fatto moltodi più: ha fatto letteratura e comunicazione, nelle loro accezioni più moderne. Il suo modo di scattare non è denuncia, non è indignazione, non è scelta d’arte, ma è tutte e tre queste cose insieme. E può esserlo solo perché il suo è uno sguardo che compromette, immerso nella vita,che della vita si bagna e si sporca. Che della vita non ha paura. Che dell’uomo non ha paura.“Se le tue foto non sono abbastanza buone vuol dire che non eri abbastanza vicino”, recita la sua massima più famosa. Stare dentro le cose. Le foto di Capa a colori mostrano proprio questo: che lui non è in guerra ma è dentro la guerra, è tra i soldati, talmente vicino da rischiare la pelle. E questo vale per ogni sua fotografia. Anche per quando fotografa Truman Capote a Ravello, o Martha Gellhorn mentre passeggia tra le rovine del tempio di Cerere a
Paestum. È dentro tutto ciò che fotografa. Dentro tutte le persone che fotografa.I suoi scatti gli sono costati odi eterni, profondi. Non è mai stato perdonato per la foto del miliziano anarchico, sulla cui inautenticità esiste un’intera letteratura. Così come non gli sono mai state perdonate le foto a colori dell’Urss stalinista pubblicate con i testi di John Steinbeck,detestate dai comunisti perché anticomuniste e dagli anticomunisti perché filocomuniste.Qualunque foto facesse sapeva che avrebbe smosso reazioni istintive. Gli piaceva portare immagini di mondo e trasformare lo sguardo delle persone sul mondo.Ma le foto che sto osservando
non cambiano  solo il mio sguardo sul mondo, è come se facessero  nascere un’urgenza, come se lanciassero
un allarme: ritornate a guardare il mondo e non limitatevi a prenderne dei calchi,a strappare dal quotidiano una qualunque  immagine per reimmetterla in circuito, per bombardare di fotogrammi inutili che saturano la vista e non raccontano nulla. Questi  scatti di Capa, infatti, non basta vederli, non  è sufficiente guardarli e poi passare oltre: bisogna  fermarsi e leggerli. Sulla rivista Holiday  Capa scrive: «Sono tornato a fotografare  Budapest perché mi è capitato di essere nato lì; ho avuto modo di fotografare Mosca che di solito non si offre a nessuno; ho fotografato Parigi perché ho vissuto lì prima della guerra; Londra perché ho vissuto lì durante la guerra; e Roma perché mi dispiaceva non averla mai vista e avrei invece voluto viverci ». Ci sono foto di famiglie americane in Svizzera, patinate, da riviste per turisti, o di quelle che si distribuiscono nelle agenzie di viaggio.
C’è la Magnani durante le riprese di Bellissima. Capa fotografa chiunque in qualsiasi situazione, persone note o sconosciuti, senza snobismo, perché a lui non interessava avere un ruolo, perché per lui la priorità era stare
dentro la vita. Sapeva che l’osservazione era compromissione e questo non lo spaventava.
Aveva imparato da Gerda Taro, che fu sua compagna. Gerda morì a ventisette anni, investita da un carrarmato “amico” del Fronte Popolare Repubblicano. Stava guardando in camera mentre era sul predellino di un mezzo  militare. Urtato, lei cadde e finì sotto i cingolati.  Anche Robert Capa nel 1954 in Indocina stava guardando in camera. Aveva deciso di anticipare una colonna militare francese mentre avanzava. Andò su un terrapieno.
Indietreggiando mise il piede su una mina. Gerda e Robert non avevano messo alcuna distanza tra loro stessi e i soggetti delle loro foto. E questo essere dentro, dentro gli occhi di chi ti è davanti, dentro le sue fasce muscolari,dentro i paesaggi, le pieghe dello sguardo di una modella, l’orgoglio e l’insoddisfazione di un imprenditore borghese, tutto questo è ricerca. Capa fotografa con la consapevolezza che nel momento stesso in cui inizi a credere che la vita ti sia preclusa, che sia vano cercare verità, ecco, proprio allora hai perso l’unica possibilità che avevi di essere davvero vivo, e di poter incidere su questo mondo.
Nel momento in cui decidi di imboccare una delle migliaia di scorciatoie possibili per mimare la vita, hai già perso. Il segreto di Robert Capa non sta nel risultato finale, ma nella ricerca,nel viaggio, che non può esistere se non compromettendo tutto se stesso. Non c’è altra salvezza se non stare dentro ciò che vuoi capire. Se non stare dentro la vita.

                  Due macchine al collo  e una sola  per la guerra
                                        MICHELE SMARGIASSI


Per quindici anni, quelli della sua celebrità mondiale, Bob Capa girò il mondo con due fotocamere al collo. Una era caricata con rullini di Kodachrome. Sì, il grande narratore delmonocromo vedeva a colori, fotografava a colori. Ma per sessant’anni tanti hanno preferito ignorarlo. Quelle 4200 diapositive policrome erano lì, negli archivi dell’Icp di New York, la casa del foto giornalismo impegnato creata dal fratello di Bob, Cornell. Ma, a parte alcune in un volume di dieci anni fa,nessuno le aveva più tirate fuori dal cassetto. Ne escono adesso, per una mostra, quando Capa compirebbe cent’anni. Forse perché col tempo i suoi colori (nessun colore, in fotografia, è “naturale”) hanno preso la patina della storia. O forse perché era ora di infrangere certi tabù, come quello che il  colore fosse roba per la pubblicità o al massimo la moda.
Non erano tutte, come qualche biografo ha affermato, “istantanee private”. Per quanto avesse fama di disordinato pokerista e scommettitore sui cavalli, l’apolide esule ungherese Endre Ernö  Friedmann, rinato a Parigi come finto americano Robert Capa, è sempre stato un hard worker, per lui la fotografia era mestiere, non scherzo. Le sue foto a colori non sono una curiosità biografica,vederle cambia l’idea che abbiamo di lui.
Cominciò a farle nel 1938, in Cina,sperimentando la nuova pellicola per diapositive che la Kodak aveva messo sul mercato solo due anni prima, perché pensava di poterle vendere. Life infatti gliene pubblicò quattro, su Hankou in fiamme. Poi, dal 1941, Capa non viaggiò mai senza rullini a colori nella bisaccia.
Ma la guerra in Capacolor non è la stessa guerra che Capa scattava in bianco e nero. È quasi sempre sorpresa “a riposo”. Capa “sente” il colore, non fotografa a colori, ma fotografa i colori: marines in Tunisia sventolano come trofeo una rossa bandiera nazista, soldati britannici scrutano un azzurrissimo cielo di Normandia su un verdissimo prato. E non sono tutte foto di guerra, anzi. I rotocalchi che gli chiedevano foto a colori, più che le corazzate del  foto giornalismo come Life, erano spesso quelli di viaggio, come Holiday, o i  femminili come il Ladies’Home Journal.
Per i quali il nostro fotografava  montagne svizzere  e giornate sugli sci, o i retroscena delle celebrità, Hemingway cacciatore col figlio, Picasso al mare con figli e amanti, i divi dei cinema dietro le quinte.
Finito il secondo macello mondiale,fondando la Magnum, Capa proclamò di voler diventar il più grande fotografo di guerra disoccupato del mondo. Non ci  riuscì, e la guerra lo ebbe fino alla fine.Ma queste sue tavolozze fotografiche, queste palette inaspettate, sono forse  un’ipotesi, un tentativo di quell’altro Capa che voleva essere e non fu.


emergenza femminicidi non basta una legge che aumenti le pene ma serve una campaga educativa altrimenti è come svuotare il mare con un secchiello

Apro l'email  e tovo  queste  "lettere "   di  alcuni haters  \odiatori  ,  tralasciando  gli  insulti  e le  solite  litanie ...