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22.5.23

Alluvione, l’eroe di Ravenna: "Deviate l’acqua sui miei terreni". E la città si salva

 

Alluvione, l’eroe di Ravenna: "Deviate l’acqua sui miei terreni". E la città si salva

Il presidente di una coop agricola ha sacrificato i raccolti: "Mais, grano e ravanello, tutto perso. Ma rifarei la stessa scelta"

In città il giudizio è unanime: il sacrificio dei suoi terreni ha salvato il centro di Ravenna.

"Ringrazio tutti per gli attestati di stima, ma ringrazierei piuttosto tutte le persone del consorzio di bonifica, della Protezione civile e i volontari che da giorni, dormendo poco o nulla, stanno facendo il possibile per farci uscire da questo incubo. Sono loro i veri eroi".

Fabrizio Galavotti è il presidente della Cab Terra di Ravenna
Fabrizio Galavotti è il presidente della Cab Terra di Ravenna

Fabrizio Galavotti è il presidente della Cab Terra, una settantina di soci e la cooperativa più antica di Ravenna, nata nel 1888 col sudore di Nullo Baldini e di altri 40 braccianti. Venerdì scorso, acconsentendo al taglio di un argine, ha immolato duecento ettari di campi, tra i pochi fondi con ortaggi fin lì risparmiati dal diluvio universale, facendoli allagare dall’acqua di un canale rigonfio e pronto a esondare, a poche centinaia di metri dalla città dei mosaici e dal polo chimico.

Galavotti, intuisco che l’etichetta di eroe non la gradisce. Ma è indubbio che il vostro gesto di altruismo abbia risparmiato ulteriori sofferenze.

"Ho dato una mano. La situazione era drammatica e tra le varie opzioni in campo, su richiesta della prefettura e del consorzio di bonifica, c’era il taglio del canale dove si trova l’idrovora e allagare i nostri duecento ettari in via Romea, per cercare di alleggerire la pressione dell’acqua e salvare il salvabile. L’idrovora e le sei, sette pompe supplementari non riuscivano a smaltire tutta l’acqua, così abbiamo acconsentito, nella speranza funzionasse".

E ha funzionato?

"Sembrerebbe di sì. La situazione è in miglioramento, l’acqua continua a defluire dalla rottura controllata del canale. Il livello sta scendendo, si vedono 50 metri di un campo dove il giorno prima era tutto un lago. Ci vorrà ancora un pochino perché l’acqua da mandare al mare è veramente tantissima, ma qualche segnale incoraggiante c’è. Incrociamo le dita".

In cosa è consistito questo ’taglio controllato’?

"Il corso d’acqua si chiama ’Le canale’, abbiamo tagliato la strada parallela, via degli Zingari, inserendo tre tubi di grosse dimensioni per poi ricoprirla. Ha fatto tutto la Protezione civile, noi abbiamo semplicemente dato l’assenso. L’acqua defluita si riversa in un campo e da lì raggiunge lo scolo Cerba, che era vuoto e dove c’è un’altra idrovora. Dopo c’è il mare".

Cosa si può dire abbia salvato?

"Con precisione non so indicarlo, indubbiamente il canale sarebbe esondato prima. E prima vuole dire a ridosso della città".

I campi sacrificati erano già compromessi?

"Al contrario. Su un totale di duemila ettari, ne avevamo 400 sommersi. In questi duecento avevamo grano, mais, barbabietola e ravanello, in parte quasi pronti per la raccolta. È stata una scelta, ma la rifarei".

Insomma, un danno consistente.

"Certamente. Ma penso alle nostre sorelle di Legacoop, per esempio alla Cab Massari di Conselice con 1500 ettari sott’acqua. Per loro è un vero dramma".

12.11.22

«Libera grazie allo sport ai ragazzi dico: provateci» Silvia Salis, atleta olimpica del lancio del martello e vicepresidente Coni Il suo libro contro gli stereotipi di genere ha vinto il premio “Gianni Mura”

   a prescindere  dal  doping  imposto e   dal doping  spontaneo ,  dalle  violenze  psicolgiche     che  certi  allenatrori o dirigenti fanno  sugli atleti  vedi recenti  scandali    L’attività sportiva è  << uno strumento sempre più importante per favorire l’emancipazione femminile >> ma  soprattutto ed è ricca  di passioni   e sogni  . 

 da la  nuova  Sardergna  



Un campo di atletica come parco giochi, una distesa enorme dove correre, saltare e sfogare un’energia incontenibile e libera di esplodere. Sembra di vederla la piccola Stella spalancare la porta di casa e correre su e giù nel giardino enorme, tuffarsi e rituffarsi nella sabbia, arrampicarsi su attrezzi e pedane. E guardare, divorare con gli occhi gli atleti – bambini e adulti – che si allenano lì ogni giorno, sulla pista rossa e nella gabbia, e a poco a poco capire che quel parco, quell’iniezione quotidiana e continua di sport, avrebbe segnato la sua vita per sempre. La piccola Stella è la protagonista del libro “La bambina più forte del mondo” e la sua storia è quella di Silvia Salis, 37 anni, che nel campo di atletica
di Villa Gentile a Genova ha vissuto da quando aveva 3 anni sino all’adolescenza. Silvia e Stella Figlia di Eugenio, il custode del campo, Silvia è andata via quando è stata convocata in Nazionale e ha iniziato a girare il mondo conquistando decine e decine di titoli nel lancio del martello e partecipando a due Olimpiadi. Oggi Silvia, originaria di Sorso «luogo del cuore, delle amicizie, dei giochi con i cugini, di tanti ricordi bellissimi – è vicepresidente vicario del Coni, prima donna a ricoprire questo ruolo. Ed è anche scrittrice: la sua Stella ha conquistato i lettori e ora anche i giudici del premio letterario intitolato a Gianni Mura, il grande giornalista sportivo, anche lui con origini sarde (di Ghilarza). Oggi a Torino (Casa Tennis a Palazzo Madama) Silvia Salis riceverà il premio per la sezione “Fuoriclasse”: la sua “Bambina più forte del mondo” è il miglior libro di letteratura sportiva per ragazze e ragazzi. «Un onore, perché Gianni Mura ha raccontato lo sport, le imprese e le persone. con uno stile unico e ineguagliabile. Ed è bellissimo ricevere questo premio per un libro che racconta la mia storia, con il quale voglio trasmettere un messaggio». Maschi e femmine La storia di Stella è la storia di Silvia, è la favola di una bambina cocciuta che riesce a svettare in uno sport riservato fino al Duemila solo agli uomini. È un libro-manifesto sulla parità di genere nello sport, contro luoghi comuni che troppo spesso ancora tarpano le ali e uccidono i sogni di ragazzi e ragazze. «Mi sono sentita dire “lascia perdere” con il lancio del martello diventerai un maschio, non avrai mai un fisico e una bellezza femminile – dice Silvia Salis – io non ho dato retta e sono andata avanti, seguendo il mio istinto e la mia passione. E sono stata fortunata perché la mia famiglia mi ha sempre lasciato libera. Se i miei genitori avessero ceduto agli stereotipi “delle cose da maschio e da femmina” magari avrei indossato un tutù e fatto danza con poca voglia. Non avrei ottenuto i risultati di cui vado fiera, non avrei avuto la possibilità di raggiungere obiettivi importanti. Questo dico nel libro e questo racconto ogni volta che ho l’opportunità di confrontarmi con
adolescenti e genitori. C’è la tendenza da parte delle famiglie a fare percorrere ai figli le strade che sembrano più “sicure” perché rientrano nel concetto di “normalità”: succede per esempio che un ragazzo venga spinto a fare calcio anche se il pallone non è nelle sue corde e la ragazzina che si sente portata per una disciplina in cui dominano i maschi – come la lotta, lo judo o il rugby – venga dirottata da un’altra parte. In realtà – dice Silvia – è importante assecondare le inclinazioni di ciascuno, non
importa se si viene etichettati come “strani” o “stravaganti”: chi se ne importa dei giudizi altrui, le strade meno sicure sono quelle che possono dare soddisfazioni enormi. Io facevo salto in lungo ma il martello era una calamita. Avevo un fisico esile per quel tipo di attività, ma il mio allenatore Walter Superina ha visto qualcosa in me. È stata una folgorazione, una svolta, ero nel mio mondo. Ai bambini dico “provateci” , inseguite la strada che sentite vostra». Lo sport per affermarsi La favola nella favola, nella storia di Stella-Silvia, è quella di una bambina che non ha grandi mezzi eppure supera ogni ostacolo. «Ero la figlia del custode del campo di atletica – ricorda Silvia – la mia casa era lì dentro. E questa è stata la mia fortuna più grande perché grazie allo sport sono riuscita a ottenere rinoscimenti altrimenti impossibili». Non solo le medaglie, la gloria dei tanti titoli conquistati in giro per il mondo «ma una vera e propria emancipazione: senza lo sport non sarei qui, non sarei stata scelta per ricoprire un ruolo così importante nel Coni. Lo sport è fondamentale nella consapevolezza femminile e nello sviluppo dell’indipendenza, nell’affermazione di sè. Io sento di essere profondamente debitrice verso lo sport, anche per questo cerco di restituire quello che ho avuto». Le donazioni Silvia Salis ha un rapporto speciale con l’ospedale Gaslini. «È una eccellenza della mia città e della sanità italiana, che è doveroso sostenere». Già due anni fa Silvia e il marito, il regista Fausto Brizzi, hanno aperto in occasione del matrimonio una raccolta fondi su GoFundMe a favore del Gaslini e il regista ha devoluto all’ospedale il cachet per lo spot della Liguria. Non solo: la storia di Stella, bambina coraggiosa, è stata presentata in anteprima lì e il ricavato delle vendite del libro alimenta la ricerca e le cure per altri bambini.
Silvia Salis è nata a Genova il 17 settembre del 1985. Suo padre Eugenio, originario di Sorso, era il custode del campo di atletica Villa Gentile. È lì che Silvia ha iniziato a praticare attività sportiva, sino a diventare campionessa di lancio del martello, vincitrice di 22 titoli italiani (9 seniores, 3 universitari e 10 giovanili). Ha iniziato a praticare atletica leggera nel 1993, a 8 anni. Ha provato un po' tutte le specialità e si stava specializzando nel salto in lungo (a 9 anni saltava 3,70 metri): poi verso i 13 anni ha provato i lanci con il martello ottenendo risultati eccezionali con il supporto di Valter Superina, ex martellista che l'ha allenata per molti anni. Ha partecipato alle Olimpiadi in Cina nel 2008 e a Londra nel 2012 e detiene 2 delle 20 migliori prestazioni italiane femminili all time nel lancio del martello, lerestanti se le ripartiscono la primatista italiana Ester Balassini (10) e Clarissa Claretti (8). A 30 anni ha lasciato poco prima delle Olimpiadi in seguito a un infortunio. ] Il 6 novembre 2016 è stata eletta nel Consiglio Federale della Fidal, Federazione italiana atletica leggera. Nel 2017 è stata eletta nel Consiglio nazionale del CONI, il Comitato Olimpico Italiano e nel 2021 è stata eletta vicepresidente vicario. Nel novembre del 2020 – in piena pandemia – Silvia Salis ha sposato in Campidoglio il regista romano Fausto Brizzi. «La bambina più forte del mondo», pubblicato nel gennaio 2002, è il suo primo libro


18.11.21

cosa è la felicità ?

  dialogando   con  *****  su   cosa   è  la  felicità  e   i suoi limiti 


 mi    viene  da  canticchiare  una canzone  della mia infanzia il cui  ritornello è  : 


[..] Senti nell'aria c'è già
la nostra canzone d'amore che va
come un pensiero che sa di felicità.
Senti nell'aria c'è già
un raggio di sole più caldo che va
come un sorriso che sa di felicità.

 su   https://lyricstranslate.com il resto del testo



Mentre cercavo il testo della canzone citata , a voi indovinare o andare sull'url per sapere o ricordare , visto che sono famosi nonostante siano passati 40 anni dalla prima esecuzione , chi sono gli esecutori ho ricevuto la notifica di un account che seguo che riportava la storia che trovate sotto
Quindi credo che la risposta sia in storie come queste perchè ci sono persone che scelgono di Vivere la propria vita seguendo un percorso non lineare perchè << la retta è per chi ha fretta >> che sono felici di vivere in questo mondo ma non appartenerci. La speranza sono le Persone che ancora hanno voglia di non arrendersi e trovare anche nella malattia del partner la forza di vivere ed accettarla

Ed  ecco la storia  d'oggi 


Lei è Alketa. Nasce a Kavaje, in Albania, nel 1993. Abita con la nonna e la mamma. Il suo papà è in Italia, ogni tanto manda una busta con i soldi, ma non bastano mai. Alketa non ha coperte per la notte, i suoi vestiti cadono a pezzi, i giocattoli non sa neanche cosa siano. Ha 4 anni. La porta di casa si apre. Il padre è tornato, le ha portato in regalo una bicicletta. Alketa piange di gioia. La bicicletta che Alketa ha ricevuto dal papà, era il primo gioco che avesse mai avuto, e anche la prima bici di tutto il villaggio.
Ma le sorprese non sono finite. Il papà dice che arrivato il momento di andare in Italia, tutti e tre

 


insieme. Alketa è felice, la famiglia è finalmente riunita, anche se la nuova realtà non è tutta rose e fiori. Condivide una casa con altre persone, le stanze sono sporche, si dorme ammassati, ci si lava in un catino. Quella vita dura un anno, poi cominciano traslochi e viaggi della speranza. Alketa rimpiange la sua casetta, la sua nonna, si sente una naufraga nel mare in tempesta. Dopo tanto girovagare, si stabiliscono a Monza. Mamma e papà lavorano tutto il giorno, Alketa cresce sola. Niente sport, uscite con gli amici, vestiti solo regalati. Ha 19 anni. Conosce un uomo. Si chiama Stefano, è un po’ più grande di lei, ma è buono, e affettuoso. Tra le sue braccia Alketa si sente al sicuro. Finalmente ha uno scoglio a cui aggrapparsi. Mette insieme i pezzi della sua vita, trova un lavoro, una casa, si gode un po’ di serenità. Dura due anni, poi Stefano non si sente bene.



 I medici parlano di sclerosi multipla. Alketa boccheggia, ancora una volta è in balia delle onde. Stefano la guarda negli occhi. Amore, sei giovane, non sprecare tempo con me, vai, vivi la tua vita. Alketa è sfinita, ma questa volta punta i piedi. Ha trovato il suo posto, e lo difenderà con le unghie e con i denti.

Stringe Stefano a sé. Io non ti lascio neanche morta. Anzi sai cosa ti dico? Sposiamoci! Lui è spiazzato, piange, ride. In meno di un anno sono marito e moglie. Affrontano insieme la tempesta, compatti, coraggiosi. Poi un giorno, compare un raggio di sole. Si chiama Alice, ed è la bambina più bella del mondo. Alketa prende sua figlia tra le braccia, guarda suo marito, la loro casa. Ha impiegato 28 anni, ma alla fine l’ha trovata. Sì, quella è la sua felicità.

12.4.20

La dottoressa Claudia Galbiati sola in trincea,Da 5 anni lavora in Pronto soccorso e ora ha scelto la Covid Unit del Fate bene fratelli di Milano costretta a decidere chi poteva salvarsi



Roma: 10 km di coda sulla Pontina per la Pasqua.

Registrati 10 km di coda sulla Pontina a causa della Pasqua: non è questo momento di allentare la corda.


Nella giornata di oggi sono state avvistate centinaia di macchine per la strada provenienti da Roma presso il litorale: ciò ha causato 10 km di coda lungo la Pontina e ciò ha richiesto l’intervento delle forze dell’ordine per cercare di contenere al massimo gli spostamenti.
Questi spostamenti si deduce siano dovuti all'imminente festività di Pasqua che però, in un momento di emergenza sanitaria come questo, non può e non deve essere un motivo di spostamento. 
                                  Chiara Ruocco

Ora ciò mi fa  .....  soprattutto     leggendo   storie  come    quella  sotto .  Capisco   che   la quarantena  ed  la  voglia  d'uscire    avere  contatti umani ,   ti provino  . Ma  che  .....  vogliono    rendere  inutile il sacrificio di gente  come quella  sotto     vogliamo continuare  a morire   ed  a piangere    morti  ? 

Claudia sola in trincea, costretta a decidere chi poteva salvarsi
Da 5 anni lavora in Pronto soccorso e ora ha scelto la Covid Unit del Fatebenefratelli di Milano


DI PINO CORRIAS

MILANO - «All’inizio avevo paura. Ora no. Ti abitui alle regole di un ospedale in guerra, ti abitui a vivere nel terremoto che non smette di tremarti intorno, a essere frastornata dalle emergenze, a prendere una decisione al minuto, compresa la più terribile, chi puoi salvare e chi no. Io l’ho fatto e devo conviverci ogni notte».Anche oggi Claudia Gabiati, quarantenne d’acciaio, ma con gli occhi verdi, gastroenterologa, 5 anni di Pronto Soccorso, altri 6 anni in corsia, scenderà nella Covid Unit del Fatebenefratelli, detta anche: la Trincea. Impiegherà venti muniti a spogliarsi, immunizzarsi, indossare la doppia tuta, la cuffia, i calzari, la mascherina, gli occhiali, la visiera, i doppi guanti, tutto quello che serve per entrare in sicurezza nel nuovo mondo, respirare la stessa aria del virus che ci ha cambiato la vita, seminando morte. E in quel mondo, coperta di plastiche, sudare sino a fine turno.
"Il mese più difficile della mia vita"«Marzo è stato il mese più terribile della mia vita. Fronteggiavamo davvero l’invisibile. E l’invisibile ogni giorno, ogni notte, ci accerchiava di ammalati e morti. I letti di terapia intensiva non bastavano mai. L’ospedale all’inizio ne aveva trenta. Ne abbiamo aggiunti sedici dopo la prima settimana, buttando giù pareti in un tempo zero. Poi altri quaranta. Poi altri ventinove, cancellando la Pediatria. Ma non bastavano mai. E così capitava che dovendo scegliere tra un paziente settantenne, obeso, pieno di complicanze, e un altro che poteva farcela, sceglievi di intubare il secondo, lasciando andare il primo. Non è facile come dirlo. Ti consulti coi colleghi, rifai cento volte i calcoli, ragioni, litighi. Ma alla fine decidi. E quando hai deciso devi chiamare i familiari e raccontargli tutta la verità che possono sopportare».
«Nel mondo di prima, ogni paziente aveva una moglie, figli, genitori, c’era un rapporto che faceva bene a tutti. Oggi di loro sappiamo solo i nomi scritti sulla scheda. Vediamo a malapena le facce, infilate dentro i caschi che li isolano nel rumore costante della ventilazione. Sono soli. Catapultati dentro un mondo sconosciuto dove noi ci aggiriamo vestiti da astronauti, irriconoscibili. Ci guardano con gli occhi spalancati. Hanno paura. Una tremenda paura di non riuscire a fare il prossimo respiro. La loro paura ci contamina. La loro solitudine è la nostra».
Il virus veloce«Il Covid è un virus velocissimo e cattivo. In tanti anni non ho mai visto infezioni polmonari così. Chi dice che è simile a tante altre influenze non sa di cosa sta parlando. Nei pazienti di prima le lastre mostravano uno o due addensamenti nei polmoni e il decorso era lento. Le polmoniti da coronavirus sono un’altra cosa, l’infezione è una macchia di inchiostro che cade e si diffonde. Ho visto pazienti che respiravano con qualche affanno e dopo un’ora non ci riuscivano più, completamente desaturati, in pericolo di vita. Mai vista una instabilità del genere».
«La verità è che ancora oggi non sappiamo bene come curarli. Non sappiamo quale farmaco funziona e quale no. Quello che facciamo è supportare le loro funzioni vitali in corsa contro il tempo. Li facciamo respirare. Li idratiamo. Li nutriamo. E intanto proviamo con gli antivirali, gli antimalarici. Magari con il cortisone. Magari con certi antibiotici. Ma la realtà è che chi ha la forza di guarire, guarisce, chi non ce la fa, muore. È tutto qui, per ora. Per questo è così importante la prevenzione, stare chiusi in casa, lavarsi, usare ogni cautela. Chi parla di riaprire tutto è matto».
"Dormo 4 ore a notte"«Da otto settimane dormo quattro ore per notte. Come tutti al Fatebenefratelli, medici, infermieri, paramedici. Non so neanche se sogno o non sogno. Entro nei reparti alle sette e mezza, esco alle dieci di sera. A marzo ho fatto 160 ore di turno, più 114 ore di straordinari. Durante il turno non mangi, non bevi, parli a gesti e se devi fare pipì perdi mezzora a svestirti, lavarti, rivestirti, quindi te la tieni». «Tutti noi del reparto abbiamo colleghi e amici morti, oppure in terapia. Penso che più o meno tutti siamo stati infettati. Io credo di essermi ammalata a metà marzo. E di essere guarita dopo certi dolori alla schiena. Il tampone dice che sono negativa. Ma quando ci sarà tempo di fare le analisi degli anticorpi, scoprirò se l’ho avuta oppure no».
Resistere«Questo è il tempo che ti tieni tutto dentro. Resisti. Ho la fortuna che a casa Luca, mio marito, cucina tutti i giorni per me. Prepara pesci e torte. Un amore. Solo che da due mesi viviamo, respiriamo e mangiamo a un metro di distanza, dormiamo in letti separati. L’ultima cosa che voglio è metterlo a rischio, non me lo perdonerei». «Da una settimana il terremoto ha rallentato. Lo spiraglio è che vediamo qualche letto libero. Ma la ricostruzione del mondo di prima sarà lentissima, un anno e anche di più. E quando arriverà il vaccino ci sarà l’intero mondo a mettersi in fila».
«Ho visto al telegiornale che ci applaudono dai palazzi. Mi ha commosso. Vorrei tenere questi applausi per il futuro e spenderli quando al Pronto soccorso ci urleranno, ci insulteranno. Oppure quando i prossimi governi ci taglieranno i reparti, gli ospedali, i corsi di laurea. Specie qui in Lombardia, dove per anni tutto andava alla sanità privata e le briciole a quella pubblica. Oggi ci chiamate eroi, benissimo, evviva, pero segnatevela ‘sta cosa e riparliamone quando ci sarà tempo».

5.5.17

radici , solidarietà, sacrificio , libertà , autostop , crisi econimica , compro oro , degrado sociale, sacrifici

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Due sorelle e un dono alla città in nome dell’amore dei genitori 
Brunella e Fiorenza sono tornate dal Texas a Empoli per aiutare il comitato di Santa Maria a restaurare la colonna leopoldina dove si conobbero i loro genitori nel 1945

di Marco Sabia


Da sinistra Fiorenza e Brunella Bruni con Piero Bartalucci, Franco Arrighi, Alberto Michelucci e Piero Meacci del comitato

EMPOLI. La colonna dell’amore. Quella dove si erano conosciuti i loro genitori – lei giovane ragazza di Santa Maria, lui soldato americano – il 13 luglio 1945. Anna Maria Tafi ed Edward Raymond Bruni si sposarono, volarono in America e dalla loro unione nacquero due bambine: Fiorenza e Brunella. Bambine che oggi sono diventate donne e che – sabato scorso – sono tornate a Santa Maria, dove hanno donato 500 euro a testa al locale comitato che sta lavorando per reperire i fondi che servono al restauro della colonna leopoldina, che a Santa Maria è un’istituzione, attorno alla quale ha ruotato la vita sociale di intere generazioni.
Una storia incredibile, perché Fiorenza e Brunella Bruni (il padre era italoamericano, figlio di emigrati) vivono a San Antonio, Texas. Empoli, una città di 48.000 abitanti e San Antonio, una metropoli texana di un milione e trecentomila persone, distanti 9.000 chilometri. Servono sedici ore di volo per arrivare dal Texas alla Toscana, c’è da sorvolare un oceano. Eppure Fiorenza e Brunella, che sabato erano in Italia per un viaggio, lasciano il proprio gruppo e da Padova partono alla volta di Empoli in taxi, per incontrare gli amici di Santa Maria. Ad accoglierne una cinquantina di persone: familiari, lontani parenti ma anche semplici curiosi.
Le due donne hanno donato 500 euro a testa, per un totale di 1000 euro. Soldi che si vanno ad aggiungere a quelli già raccolti per il restauro della colonna. Alle due sorelle è stato regalato un attestato riproducente la colonna leopoldina in un acquarello del pittore Andrea Meini. Ma questo è soltanto il lieto fine di una storia che non ha precedenti. Fiorenza, che ha studiato lingua e letteratura italiana in America e all’università di Firenze, navigando su Facebook scopre l’esistenza del gruppo virtuale creato dal comitato per il restauro della colonna. Così richiede di iscriversi: quando alla controparte empolese – tra cui Piero Bartalucci della casa del popolo – arriva questa richiesta dal Texas, cominciano i primi interrogativi, perché sinceramente Empoli con San Antonio ha poco da spartire.
La voce si diffonde nel quartiere e qualche anziano tira fuori la storia di Anna Maria Tafi, che ai tempi della guerra si era innamorata di un soldato yankee e l’aveva sposato, andando a vivere al di là dell’oceano. Così gli empolesi fanno entrare Fiorenza nel gruppo ed inizia un lungo scambio “epistolare” con le chat dei social network. Perché le sorelle Bruni vogliono ritornare in Italia, anche in virtù del fatto che nelle foto messe su Facebook dal comitato hanno praticamente riconosciuto la casa della madre, dettagli compresi. «Ad un certo punto – racconta Piero Bartalucci del comitato – Fiorenza ci disse che volevano tornare in Italia e dare un contributo per la colonna. Perché la loro madre era proprio vicino a quella colonna quando passarono i soldati americani di pattuglia. E poi c’era da onorare la memoria dello zio Umberto, personaggio molto noto a Santa Maria, nonché frequentatore del circolo. Così ci siamo organizzati, abbiamo preparato un comitato di accoglienza per dare loro il giusto benvenuto e dopo siamo andati a mangiare tutti assieme. Siamo molto felici e contenti di quello che è successo, oltre che del contributo, che è uno dei più cospicui che abbiamo ricevuto».
Bartalucci ha poi spiegato che il comitato è sulla buona strada per raggiungere la somma che serve per l’opera di restauro, pari a circa 18. 000 euro: «Abbiamo già raccolto circa 4.000 euro, poi ne arriveranno altri di realtà importanti, senza contare quelli che ricaveremo dagli eventi che stiamo continuando ad organizzare. Penso che a giugno – con la cena santamariese – potremo raggiungere il traguardo». Un obiettivo raggiunto grazie alla collaborazione fra Peppone (la casa del popolo) e don Camillo (il consiglio parrocchiale), per ridare l’antico splendore alla colonna leopoldina, una delle 16 tuttora presenti in Toscana. Si tratta di costruzioni volute da Leopoldo II di Lorena, realizzate nella prima metà dell'Ottocento con funzione di orientamento stradale.


da                        http://iltirreno.gelocal.it/piombino/cronaca/2017/05/02/news/

54-chili-in-meno-in-10-mesi-ecco-anna-l-ex-cicciona-1.15281205
Perde 54 chili in dieci mesi. La storia di Anna: "Ora sono una donna realizzata"
San Vincenzo: Dalla taglia 60 alla 44. La vita di Anna Bellinoha combattuto fin da piccola con il suo aspetto fisico e le cattiverie dei bambini. Poi l’operazione: «Piansi quando comprai il primo vestito "normale"»

di Maria Antonietta Schiavina



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SAN VINCENZO è sempre stata una questione di chili. E oggi, grazie a un intervento di riduzione dello stomaco a cui si è sottoposta con ottimi risultati un anno fa, confessa di sentirsi finalmente una donna realizzata. In grado di poter indossare un abito, senza l’obbligo della confezione su misura e di mangiare una fetta di pizza senza sentirsi in colpa perché quella fetta che per chiunque è una semplice golosità, per lei si trasforma in un acerrimo nemico.Trentanove anni, nata a Campiglia, Anna è felicemente sposata ma non ha figli perché, pur desiderandoli moltissimo, da obesa non ha potuto permettersi una gravidanza, «ma neanche un bambino piccolo a cui badare». Da qualche anno abita a San Vincenzo, dove insieme al marito, cuoco in un ristorante sul mare, gestisce un’edicola. Ma instancabile e versatile, alla faccia del sovrappeso, che la vorrebbe apatica e immobile, nei periodi di maggior flusso turistico, lavora anche alla reception di due strutture alberghiere (Poggio Rosso e La Bandita), «dove il mio aspetto non è mai stato un limite, così come non lo è mai stato nella vita sociale».



Miss Islanda lascia concorso bellezza: "Mi hanno chiesto di dimagrire, me ne vado"
Arna dice basta. Per "l'orgoglio dell'Islanda e di tutte le donne del mondo" abbandona il Miss Grand International, uno dei più prestigiosi concorsi di bellezza al mondo, dopo aver ricevuto pressioni per dimagrire. La bella Miss Islanda 2015 Arna Ýr Jónsdóttir, 20 anni, sostiene infatti di essere stata invitata dagli organizzatori della gara a perdere peso prima del concorso, "a smettere di fare colazione, mangiare solo insalata per pranzo e bere acqua tutte le sere fino a quando ci sarà la gara". Per lei, che ora ha deciso di dire addio ai concorsi di bellezza, è un insulto e per questo "me ne vado con orgoglio". Gli organizzatori sostengono si sia trattato di un equivoco, una incomprensione dovuta alla lingua, ma la splendida Miss nega: "Nessun incomprensione, anche se si sono scusati. Me ne vado da vincitrice"(a cura di Giacomo Talignani)


I chili in più dinque non le hanno impedito di vivere, muoversi, fare progetti. «Ma rappresentavano ugualmente un mio cruccio e liberarmene è stato un regalo che mi volevo fare. Una vittoria di cui vado fiera e che devo soprattutto a me stessa. La prima volta che ho potuto indossare un abito acquistato in un negozio, senza dover ricorrere al solito capo confezionato su misura, mi sono messa a piangere», ricorda raccontando il suo passato di obesa, un’infanzia che ha avuto come filo conduttore tante diete, la consapevolezza di essere diversa, anche se, un forte carattere, l’ha sempre aiutata a superare gli ostacoli.

Quando è incominciata la vita di Anna in lotta con i chili in più? 
«Prestissimo, perché a tre anni ero già la cosiddetta bambina cicciottella».
Mangiava molto o ingrassava pur restando a dieta?
«Sono sempre stata una buona forchetta. Ma non era quello il problema. Siamo in tre fratelli e io sono la più piccola. Mamma ha sempre cucinato bene, i miei fratelli mangiavano come me e io ingrassavo. Continuavano a mettermi a dieta, non mi opponevo e riuscivo a ottenere buoni risultati. Ma non appena raggiungevo un obiettivo mi davano il mantenimento dieta, un chilo alla settimana riprendevo peso.
Nella sua famiglia c'erano persone in sovrappeso?
«Qualcuno in sovrappeso sì, ma obesi mai. Mamma è ingrassata ora che non è più giovane e ho due cugine robuste, ma in famiglia ci sono anche persone magre. La mia poi è una malattia autoimmune. L’hanno scoperto ora, dopo anni di analisi, tentativi, battaglie: il metabolismo è bloccato, il pancreas produce insulina e appena mangio un po’di più ingrasso».
Ha consultato molti specialisti per tentare di dimagrire? 
«Dietologi, endocrinologi, nutrizionisti, mi sono sottoposta anche alla dieta del sondino: cinque cicli, senza alcun risultato. A Montefiascone. C’è un centro adatto a questo genere di trattamento. Mi mettevano un sondino naso gastrico attraverso il quale mi nutrivo e per dieci giorni non toccavo cibo. L’ho fatto per cinque volte in 4 mesi. L’ultima stavo andando fuori di testa: il sondino era collegato a una macchinetta che faceva un rumore bestiale. Bii bii biiii, 24 ore su 24».
Risultati?
«Buoni, ma non definitivi. Ho perso 30 chili, ripresi poi tutti in un anno e mezzo. Così sono andata a Milano da un chirurgo che, appena ha saputo la mia storia ha deciso di operarmi».



Smartphone, le app che aiutano a perdere peso
Per dimagrire ci vuole una alimentazione sana e bisogna fare sport. Lo sappiamo tutti fin troppo bene, ma ora per avere successo nella dieta si possono usare tante app che aiutano a non sgarrare, a seguire un regime alimentare controllato e consumare calorie. Uno studio americano del Georgia Technology Institute ha dimostrato infatti una maggiore percentuale di perdita di peso nelle persone che si aiutano con gli smartphone per rimanere in forma. Il successo nel dimagrimento per chi usa la tecnologia come personal trainer è fino a quattro volte superiore: dalle community per sostenersi e incoraggiarsi a vicenda alle che aiutano con il conteggio delle calorie, fino a quelle per cucinare light senza rinunciare al gusto e tabelle per il calcolo della massa grassa

Quanto le ha condizionato la vita il sovrappeso? 
«Abbastanza. Fortunatamente, ho sempre avuto un buon carattere, tanti amici e nessun problema di relazione. Sono arrivata fino a 158 chili per un metro e 64 di altezza, ma nonostante questo andavo a scuola di ballo, esibendomi davanti al pubblico, grazie a un insegnante che mi spronava perché credeva in me, ma anche alla mia voglia di essere come gli altri».
La consapevolezza di avere un corpo ingombrante a che punto della sua vita si è manifestata? 
«Fin da bambina perché i bambini sono cattivi, non tanto perché lo fanno di proposito, ma perché dicono ciò che pensano. Inoltre capivo benissimo di essere diversa dagli altri: tutti andavano a comprarsi il vestitino alla moda, mentre a me lo cuciva la sarta».
Ha avuto più problemi con le compagne o con i compagni? 
«Con le donne, da bambina e da adulta. Gli uomini mi hanno sempre protetto e sono stati i miei migliori amici. Forse perché, nonostante tutto, mi vedono forte».
A chi deve la sua forza?
«Ai miei genitori che non mi hanno mai contrastato: se volevo fare la dieta mi aiutavano, in caso contrario mi lasciavano libera di decidere, senza farmi pesare la mia obesità o farmela sentire come una cosa di cui avrei dovuto vergognarmi».
Nel lavoro ha trovato ostacoli per i chili in più? 
«Per niente. Dopo il diploma in ragioneria mi hanno assunto alla “Tirrenia carni”di San Vincenzo, un’azienda di soli uomini, che mi hanno sempre rispettato e trattato come una principessa. E tuttora dai colleghi, con cui sono stata undici anni, vengo accolta con grande affetto».
Che rapporto ha avuto fino a oggi con lo specchio?
«Sincero, spesso spietato. Ero carina ma grassa. Inutile girarci intorno».
Lei è felicemente sposata con un uomo normopeso. Prova che i suoi chili non le hanno impedito di trovare l’amore. 
«La persona che ho accanto – con cui prima di fidanzarmi e sposarmi ero solo amica – mi ha sempre sostenuto, non mi ha mai chiesto di dimagrire e per l’operazione mi ha dato tutto il suo appoggio. Così come me lo ha dato la sua famiglia».




Sei consigli per dimagrire usando il cervello
Il libro "Il cervello affamato", di Stephan J. Guyenet, spiega a chi vuole correggere la propria alimentazione come riconoscere i falsi stimoli del cervello e imparare a controllare la fame nervosa. Ecco sei semplici consigli per dimagrire pensando concentrandosi sul nostro cervello e non sulla bilancia.

Quando ha deciso di sottoporsi all’intervento?
«Nel momento in cui ho visto che dopo tutti i sacrifici non riuscivo a mantenermi su un peso normale e che in altri modi non avrei risolto il mio problema».
Come hanno reagito i suoi genitori? 
«Mi hanno lasciato libera come sempre di decidere, standomi accanto in ogni momento, anche nei giorni di ospedale».
Perché è andata fino a Milano e non si è operata a Pisa, dove c’è un centro super specializzato in fatto di obesità? 
«Per una questione di tempi. A Pisa c’era una lunga lista di attesa e io volevo essere pronta prima della stagione turistica, per tornare a lavorare da magra. In ogni caso l’equipe che mi ha operato, quella del dottor Giuseppe Faillace, è collegata a quella di Pisa e gli interventi praticati sono gli stessi».
Non ha avuto paura?
«No. Ero tranquilla ed è andato tutto bene. Gli stessi medici non pensavano di raggiungere certi risultati e mi hanno detto che a obiettivi del genere vorrebbero arrivarci con tutti i pazienti. Avrei dovuto perdere un media del 40 % di peso (38 chili) in un anno e mezzo e invece ne ho persi 54 in dieci mesi. In più non ho avuto nessuna reazione negativa, forse perché, obesità a parte, la mia salute era buona e le mie analisi perfette o forse solo perché sono stata semplicemente molto fortunata».
Oggi tiene ancora le foto della Anna cicciona o le ha buttate? 
«Di foto ne ho una sola, non ho mai amato farmi riprendere. Ogni tanto la guardo e mi vedo ancora così, mi immagino sempre grassa. Forse perché non ho ancora preso consapevolezza con il mio corpo. Ma piano piano ci riuscirò, così come riuscirò a volermi più bene e a pensare finalmente un po’a me stessa. Anche se resterò la Anna di sempre, quella che in tanti amavano nonostante i chili di troppo».


Party in spiaggia per i ragazzi arrivati in autostop  

Dopo la gara d’autostop lunga oltre 1500 chilometri dalla Polonia sud-occidentale sino a Comacchio, i mille partecipanti alla singolare sfida partita da Poznan hanno vita ad una festa scatenata sulla spiaggia del Florenz



Dopo l'autostop, la festa in spiaggia a Lido ScacchiNonostante la temperatura non propriamente estiva i ragazzi polacchi protagonisti della gara di autostop da Poznan a Lido Scacchi hanno dato vita a un party sulla spiagga del Florenz LEGGI L'ARTICOLO

LIDO SCACCHI. Una gara d’autostop lunga oltre 1500 chilometri dalla Polonia sud-occidentale sino a Comacchio. I mille partecipanti alla singolare sfida partita da Poznan con traguardo l’Holiday Village Florenz del Lido degli Scacchi, sono ormai quasi tutti arrivati.




In mille dalla Polonia a Comacchio in autostopIl racconto di alcuni dei mille ragazzi arrivati sulla costa da Poznan: chi ha avuto qualche problema, anche con le forze dell'ordine, ma anche chi ha trovato un passaggio direttamente qui da chi non doveva nemmeno passare per Lido Scacchi LEGGI L'ARTICOLO

Olga e la sorella Maria, entrambe studentesse poco più che ventenni, con tre soli autostop e circa dieci ore di viaggio hanno sbaragliato sabato tutti gli avversari, aggiudicandosi la nona edizione dell’evento. «Mission Completed!», hanno esultato le due giovanissime autostoppiste.




Intanto martedì i giovani polacchi, tutti di età compresa tra i 20 e i 30 anni, si sono concessi un maxi party in riva al mare, nella struttura ricettiva della famiglia Vitali.«Ogni giorno organizziamo iniziative per i ragazzi, tipo una caccia al tesoro, giochi sportivi, concerti, party in spiaggia - spiega l'organizzatrice - Anna Kaczmarek- ma la gran parte dei nostri autostoppisti ha voglia di visitare la città da soli o in piccoli gruppi organizzati. Ogni anno la gara permette a chi partecipa di scoprire un territorio e quest'anno abbiamo scelto Comacchio. Ognuno tornerà a casa e parlerà della magia e della bellezza che ha trovato qui».

Cuorgnè. Loculi e tombe in vendita dai cittadini al Comune 

Acquistati a suo tempo da privati che ora intendono rinunciarvi Potrebbero esserci dei motivi economici. Verranno pagati in base all’utilizzo


CUORGNÈ. Con il mercato dell’edilizia praticamente immobile a causa della recessione e la drastica riduzione degli oneri di urbanizzazione, le concessioni cimiteriali costituiscono una delle voci più rappresentative di entrata per le casse comunali.Che sia o meno da leggere come un’inversione di tendenza riconducibile al critico momento di congiuntura economica che stiamo attraversando, un segnale che va nella direzione opposta arriva, però, da Cuorgnè dove alcuni cittadini (4, i casi al momento registrati) hanno manifestato all’amministrazione comunale l’intenzione di restituire siti, loculi o tombe di famiglia di loro proprietà non essendo più interessati a tali beni, acquistati in passato, che in questo modo verrebbero rivenduti al Comune stesso.
Che sotto possa esserci un problema di natura economica non è chiaro, e nel consiglio di venerdì scorso il sindaco, Beppe Pezzetto, non si è espresso in questo senso, sta di fatto che ai proprietari, come si legge nella delibera di modifica al regolamento comunale di Polizia mortuaria approvata dal parlamentino, «spetterà un rimborso il cui importo è fissato dalla giunta comunale, distinguendo tra bene mai utilizzato e bene retrocesso dopo l’utilizzo».
L’ex sindaco, Giancarlo Vacca Cavalot, dal canto suo, ha sottolineato come vi siano degli anziani che, piuttosto, che lasciare il corrispettivo ai propri eredi da destinare a tale finalità, non fidandosi, in sostanza, che una volta che l’interessato sia passato a miglior vita gli eredi ne eseguano fedelmente le ultime volontà, «chiedono se sia possibile fare un lascito al Comune per il rinnovo del proprio loculo». «Il Comune, in questo modo, può fare cassa e, al contempo, si può dare una sicurezza a questi anziani» ha puntualizzato il capogruppo della minoranza dei Moderati per Cuorgnè.
«È un ragionamento che ha una logica, e se è possibile dal punto di vista tecnico e giuridico perché non prenderlo in considerazione» ha risposto il vicesindaco ed assessore al Bilancio, Laura Febbraro.Chiara Cortese




naro ottenuto dalla distruzione di altre famiglie?
E poi, come si fa a comprare oggetti che sai benissimo che sono appartenuti ad altri e la cui provenienza è dubbia?
Si puo credere o no, ma anche le cose hanno un'energia e indossare una collana bagnata di lacrime di sofferenza, non fa bene.
Chi sceglie di farlo, si trascina addoso dolore.
Tra i codici sardi che qualche saggio nonno mi ha passato, c'è anche quello che dice che impossessarsi di beni sofferti "no est cosa de omine", dove per omine si intende il genere umano.
In Sardegna alle aste fallimentari fino a poco tempo fa c'era solo qualche sciacallo "del continuente", e l'ho visto con i miei occhi.
Purtroppo stiamo perdendo anche questa buona abitudine... infatti siamo sempre più individualisti, egoisti... e infatti: infelici. Ho visto troppe persone letteralmente devastate durate lo sciopero della fame contro Equitalia di qualche anno fa, ho sentito storie che mi sono entrate nella pelle, ma come fai a comprare una casa sottratta a una famiglia?
Per me resta inspiegabile.
Io dico solo questo, una società armoniosa è una società che si abbraccia, che si aiuta, che ha principi solidi, non si può, per risparmiare due lire, alimentare sofferenza.
Poita, a sa fini, totu torrat.
Vedo "compro oro" proliferare come funghi ovunque... ora che la crisi è forte.
Chissà perché.
È tutto molto triste.
infatti    hanno ragiomne  alcuni commenti   a questo post  qui  l'intera  discussione
[...]

Enrico Migliavacca
Enrico Migliavacca Cara Claudia, tocchi un argomento per me molto doloroso. Tre anni fa, dopo la morte di nostro padre, io e mia sorella abbiamo passato momenti molto difficili. Siamo stati costretti a cedere parte dei ricordi di famiglia ad un compro oro. In pratica, abbiamo dovuto rinunciare, per sopravvivenza, a parte della nostra storia e ad un pezzo di cuore 

Giuseppe Melis
Giuseppe Melis Compro oro , sala scommesse , gratta e vinci , slot machine sono i segni inequivocabili di disagio e abbandono sociale , Portogallo prima , Spagna , Italia e Grecia a seguire !!! I Popoli indebitati e senza lavoro o diritti sono più facili da "Illudere" con "spiccioli" guadagnati facilmente .........lo chiamo Degrado Sociale........Ma tanti ci sguazzano !!
:(

Silvia Nieddu Ma sopratutto, chiediamoci fino a che punto ci ha fatto arrivare lo Stato . Costretti a vendere i ricordi , come nella seconda guerra mondiale😢












































Il 29 dicembre 2020 veniva uccisa Agitu Ideo Gudeta, la regina delle capre felici.

Il 29 dicembre 2020 veniva uccisa la regina delle capre felici.È stata ferocemente uccisa Agitu, la regina delle capre felici, con un colpo...