Bambini - paola Turci
Mentre leggo gli l'articoli e vedo la foto tratta dal primo , riportati sotto non riesco a controllare le lacrime e lo sconforto nel vedere le vittime collaterali delle guerrra . In questo caso una guerra secolare in cui s'intersecano : ptrolio , religioni , odi atavici ed secolari .
repubblica
di Enrico Franceschini
Avevano entrambi 4 anni: il primo è morto con tutta la sua famiglia, sterminata il 7
ottobre da Hamas, il secondo è rimasto sepolto sotto la casa che gli è crollata addosso colpita da un missile israeliano. E in Rete c’è chi ha trasformato le loro tragiche storie in propaganda
I loro nomi sono quasi identici: Omer e Omar. Anche l’età era la stessa: avevano entrambi quattro anni. Il primo israeliano, il secondo palestinese, sono morti a pochi chilometri di distanza, sui due lati del confine che separa
lo Stato ebraico dalla striscia di Gaza: Omer ucciso il 7 ottobre da
Hamas, con tutta la sua famiglia, nel kibbutz in cui vivevano; Omar morto sepolto dalla casa che gli è crollata addosso quattro giorni più tardi, quando è stata colpita da un missile israeliano.
E il tragico destino che ha fatto morire questi due bambini li ha uniti anche sotto un altro aspetto: sui social media la fine dell’uno e dell’altro è stata negata da migliaia di utenti, accomunati dall’odio che si rifiuta di accettare la realtà e trasformati in propaganda.
L’attacco di Hamas ha colto Omer Siman-Tov
nel kibbutz Nir Oz, una delle fattorie agricole collettive a una manciata di chilometri dalla frontiera di Gaza messe nel mirino dai fondamentalisti islamici del gruppo. Uomini armati sono penetrati nella sua abitazione, hanno sparato al padre Yonatan e alla madre Tamar, lasciando Omer e le sue due sorelline di qualche anno più grandi all’interno dell’abitazione, a cui hanno poi dato fuoco. I tre bambini sono morti bruciati vivi. Una foto della famiglia Siman-Tov è finita sul profilo del governo israeliano su X, l’ex-Twitter: ritratto di due genitori e tre figli, all’aria aperta, sorridenti e felici. “Un’intera famiglia spazzata via dai terroristi di Hamas”, diceva il post.
Ma tra i commenti lasciati dagli utenti, accanto a parole di condoglianze, solidarietà e dolore, molti hanno accusato Israele di avere pubblicato una foto falsa. “Il bambino indicato come Omer è un attore, non è morto, sta benissimo, lo hanno pagato per recitare il ruolo della vittima dei palestinesi”, afferma uno. “Sono tutti attori, quella famiglia nella realtà non esiste”, afferma un altro. “Non ci sono prove, Israele smetti di mentire”, sostiene un terzo.
Altri hanno affermato addirittura che Omer sarebbe stato ucciso apposta da Israele per poter dare la colpa ad Hamas. Decine e decine di commenti del genere, poi rimbalzati in mezzo mondo, così dando credito alle menzogne di Hamas che da parte sua dichiarava: “Noi non ammazziamo bambini, non uccidiamo civili innocenti”. Una reazione simile a quella della Russia dopo i bombardamenti dell’ospedale di Mariupol, durante la guerra in Ucraina, quando una donna incinta, trasportata via in barella fra i crateri lasciati dalle bombe, fu descritta da Mosca come “una nota attrice”.
A 23 chilometri dal kibbutz dove ha perso la vita Omer, quattro giorni dopo è morto Omar Bilal al-Vanna, sotto le macerie provocate da un raid aereo israeliano su Zeitoun, un sobborgo di Gaza City. Il piccolo bambino palestinese stava giocando in giardino con il fratello Majd di sette anni, quando un razzo ha fatto crollare loro addosso l’abitazione. Omar non ce l’ha fatta, Majd è rimasto ferito a una gamba. Qualche ora più tardi sui social è circolata una foto del padre di Omar, che teneva fra le braccia il corpicino senza vita del figlioletto, portandolo all’obitorio della città.
A quel punto è partito il tam-tam delle smentite. “Quel fagottino che l’uomo ha in braccio non è un vero bambino, è una bambola”, hanno scritto in tanti. “E’ il gioco della disperazione di Hamas, per suscitare proteste in Occidente”, accusano altri post. “Tutta propaganda di Hamas, non credeteci”, sostengono altri ancora. Anche questi post hanno fatto il giro del mondo: uno è stato visualizzato ben 3 milioni e 800 mila volte.
È stata la squadra di fact-checker della Bbc a ricostruire la verità, verificando l’identità dei due bambini e le circostanze in cui sono morti. La giornalista inglese autrice dell’indagine, Marianna Spring, corrispondente della redazione che si occupa di disinformazione e fake news, ha raccontato a Mor Lacob, un’amica della madre di Omer, che anche la morte di Omar è stata messa in dubbio da una analoga campagna di odio e di troll sui social. “Il mio cuore piange per tutti gli innocenti”, le ha risposto la donna, “assassinati e uccisi a causa delle azioni di Hamas”.
I nomi scritti sulle gambe, a Gaza le madri preparano il riconoscimento dei figlidi Sami al-Ajrami La strage dei bambini: sono il 40% dei mortinella Striscia. Uccisi interi nuclei famigliari. Ora i parenti si separano per evitare l’estinzione
DEIR AL BALAH – Il 40% delle vittime dei bombardamenti su Gaza sono minori. Lo dice l’Unicef, non il locale ministero della Salute controllato dal governo di Hamas. Il numero dei giovanissimi morti è agghiacciante: 3mila vittime.
Le si vede arrivare in ospedale con i nomi scritti sulle gambe o sulle braccia dai loro genitori: affinché possano essere riconosciuti e non finiscano seppelliti semplicemente con un numero sul lenzuolo. Muoiono o vengono feriti mediamente 400 minori ogni giorno. «Pensano che siano i bambini il nemico? Sono forse loro i responsabili delle uccisioni e dei rapimenti?», è una frase che si sente ripetere davanti ai corpicini nelle camere mortuarie.
I bimbi che sopravvivono sono intontiti dalla paura, scioccati dalla perdita dei familiari e dalla devastazione di tutto ciò che conoscono. Così, proprio per salvarli, nelle ultime ore, si sta assistendo a un fenomeno nuovo qui nell’aria meridionale della
Striscia di Gaza, dove Israele continua a bombardare pesantemente pure le zone a Sud del Wadi Gaza nonostante le avesse indicate come sicure. Intere famiglie abbandonano villaggi e rifugi e, come già accade a nord, vanno ad affollare le
aree degli ospedali.
Nella sola giornata di ieri sono state centinaia le persone rifugiatesi nei pressi dell’ospedale al-Aqsa di Deir al Balah: occupando in poche ore tutto lo spazio disponibile con materassi accatastati e tende fatte di tappeti e di stracci. «Forse bombarderanno pure qui», dice Abu Ali Issa, arrivato da Bureij, un piccolo campo profughi vicino: «Ma almeno l’ospedale sarà l’ultimo posto che prenderanno di mira».
E si osserva anche un altro cambiamento: contrariamente a quanto le famiglie hanno fatto finora, riunirsi tutte insieme in un unico luogo, secondo tradizione nei momenti di crisi, cominciano a dividersi in rifugi diversi, sperando che così sopravviva almeno qualcuno. I bombardamenti hanno infatti già troppe volte cancellato interi nuclei, uccidendo fino a 30, 40 membri di un solo clan. Così mentre gli adulti continuano ad arrangiarsi dove e come possono, anziani e bambini – questi accompagnati da un solo adulto - vengono smistati nei pressi degli ospedali nell’area centrale di
Gaza. O nelle scuole che l’Unrwa, ha qui in meridione: con buona pace del fatto che pure le risorse dell’agenzia Onu per i rifugiati palestinesi sono agli sgoccioli. E a Nord lo hanno detto chiaro ai profughi ospitati nei loro rifugi: “Non siamo più in grado di garantirvi la protezione delle Nazioni Unite”.
A dilaniare questi bambini ci sono poi le ferite dello spirito. Stringe il cuore ascoltare quelli che ripetono continuamente il nome di mamme, papà, fratelli o sorella appena morti. O piangono disperati, implorando di essere riportati in una casa quasi certamente distrutta. Mentre i più grandi usano la parola morte come fosse normale alla loro età, anche parlando dì sé stessi: “Se non muoio vorrei...”. Qui all’al Aqsa
Hospital c’è Salma, bambina di nove anni, costretta a crescere in fretta: è sola a prendersi cura dei fratelli di 5 e 2 anni. La mamma e la sorella sono all’interno dell’ospedale, ancora vive ma gravemente ferite, mentre i tre piccoli sopravvissuti dormono all’esterno con altri bambini. Il resto della famiglia, è morta sotto le bombe.
C’è poco per aiutare i più traumatizzati a superare il terrore che ormai li rende apatici e inappetenti e gli fa bagnare il giaciglio di notte anche se non sono più piccoli. Le ong che si occupavano di minori sono allo sbando, non più operative. Ma assistiamo sempre più spesso alle azioni straordinarie di volontari giovanissimi, spesso adolescenti, poco più grandi dei ragazzini di cui si prendono cura. Alcuni sono sportivi che improvvisano per loro giochi di squadra. Oppure studentesse sempre pronte a raccontar favole o a farli cantare. Capaci di trasformare un filo per la biancheria in una corda da saltare. Cartoni da imballaggio in un mini villaggio. E a riciclare ogni foglio per farli disegnare. I piccoli si stringono a ogni possibile oggetto con cui giocare, sapendo di poterlo brutalmente perdere domani.
Intanto, nei campi e nei rifugi le madri cercano di conservare ancora un po’ di decoro strofinando il viso, le mani, i denti dei piccini quotidianamente, spesso solo con uno straccio un po’ umido perché l’acqua è carente. E provano a fargli anche un po’ di scola, tracciando lettere dell’alfabeto per terra. «I miei figli dormono al freddo e in luoghi sudici, sono tutti malati» dice Jannat mentre i suoi tre maschietti si rotolano sui materassi della tenda piazzata in gran fretta nel campo profughi di Kahn Younis. «Dove sono i diritti umani dei miei figli?»
(testo raccolto da Anna Lombardi)