ancora convalesciente per problemi alla caviglia dopo le 1200 pagine del primo volume della triologia Shantaram un romanzo autobiografico del 2003 scritto dallo scrittore australiano Gregory David Roberts e precentemente recensinto su queste pagine sto leggendo il primo romanzo dell’autrice e attivista palestinese Susan Abulhawa, pubblicato la prima volta nel 2006 (con il titolo The Scar of David) e poi nel 2010, diventando un vero e proprio caso letterario in tutto il mondo. Si tratta del primo libro che, attraverso la formula del romanzo, narra le vicissitudini della Palestina sotto attacco di Israele, diventando un best seller. Una lettura intensa e a tratti straziante, ma bella e profonda come quella di Ogni mattina a Jenin
Sinossi
Attraverso la voce di Amal, la brillante nipotina del patriarca della famiglia Abulheja, viviamo l’abbandono della casa dei suoi antenati di ‘Ain Hod, nel 1948, per il campo profughi di Jenin. Assistiamo alle drammatiche vicende dei suoi due fratelli, costretti a diventare nemici: il primo rapito da neonato e diventato un soldato israeliano, il secondo che invece consacra la sua esistenza alla causa palestinese. E, in parallelo, ripercorriamo la storia di Amal: l’infanzia, gli amori, i lutti, il matrimonio, la maternità e, infine, il suo bisogno di condividere questa storia con la figlia, per preservare il suo più grande amore. La storia della Palestina, intrecciata alle vicende di una famiglia che diventa simbolo delle famiglie palestinesi, si snoda nell’arco di quasi sessant’anni, attraverso gli episodi che hanno segnato la nascita di uno stato e la fine di un altro. In primo piano c’è la tragedia dell’esilio, la guerra, la perdita della terra e degli affetti, la vita nei campi profughi, come rifugiati, condannati a sopravvivere in attesa di una svolta. L’autrice non cerca i colpevoli tra gli israeliani, che anzi descrive con pietà, rispetto e consapevolezza, racconta invece la storia di tante vittime capaci di andare avanti solo grazie all’amore.
Esso spinge a chi volesse sicuramente a saperne di più della questione Palestinese,aoci a leggere altri romanzi che raccontino delle barbarie subite da questo popolo.Un piccolo caso letterario è certamenteSe questa è vita. Dalla Palestina In Tempo Di Occupazionedell’architetta palestinese Suad Amiry, un diario di guerra dai territori occupati. Ma prima su suggrimento di https://www.studenti.it/ vi consigliamo di leggere il primo capitolo di questo triste diario,Sharon e mia suocera: diari di guerra da Ramallah, Palestina foto a destra ) che ha reso l’autrice un punto di riferimento nel campo di questa narrazione.
Passo a consigliarviUna notte soltanto, Markovitch, opera prima dell'autrice israeliana Ayelet Gundar-Goshen. L'intreccio, ambientato negli anni prima della nascita dello stato di Israele, parla ancora di viaggio, di fuga, di un piano. I venti giovani che salpano verso l'Europa hanno venti ragazze sconosciute che li attendono e che diverranno le loro spose, anche se non per molto. Uno di loro, Yaakov Markovitch, per amore non seguirà alla lettera il piano. Concludo con Il racconto di un muro di Nasser Abu Srour, una potente autobiografia dello scrittore che, dopo la prima parte del testo dedicata alla sua storia familiare e a quella dei profughi palestinesi, nella seconda ha un immaginario dialogo con il muro della cella nel quale era stato rinchiuso e torturato da adolescente al tempo della Prima Intifada.
Dopo questo excursus librario /letterario ritorniamo al libro in questione
Concordo con chi dice quei I lettori che affermano che il libro è stupendo, bello e ottimo. Lo trovano emozionante, toccante e straziante, con tanto amore e umanità. La trama viene descritta come avvincente, drammatica e realistica. Il viene considerato interessante, istruttivo e veritiero. La scrittura viene apprezzata per la sua scorrevolezza e leggibilità rapida. Inoltre, i lettori lo descrivono come intenso, travolgente e viscerale. Essa è Una storia profonda, intensa, una scrittura magistrale e scorrevole , che ci permette di conoscere emozioni, paure, tormenti, rabbia di ogni personaggio Colpiscono i sentimenti di fratellanza, amicizia, comprensione, compassione che ciascun personaggio prova nei confronti dei propri simili, anche in una situazione difficilissima come quella del popolo palestinese. Nonostante gli orrori di 60 anni di soprusi, la scrittrice non indugia in dettagli scabrosi , ma ci permette di capire cosa hanno dovuto affrontare La storia inizia nel 1941 e finisce 60 anni dopo, ma putroppo e' attualissima, vista la situazione attuale della Palestina. Dalla letture recensione del gruppo fb io leggo per te« Susan Abulhawa componeva poesie e non aveva mai pensato di scrivere un romanzo.Impegnata nella causa Palestinese si ritrova nel 2002 a visitare tra i primi osservatori internazionali, il campo profughi di Jenin che viene in gran parte raso al suolo dagli Israeliani.Decide così di condividere la disperazione che vede e sente raccontare dai profughi.Sembra paradossale cogliere in più parti del libro un senso di compassione delle vittime nei confronti degli usurpatori, piuttosto che rabbia e odio.Ciò deriva dal sottile lavoro dell’autrice di esplorare le motivazioni di chi fa del male.
È un libro contro l’odio e contro le ferite che lascia l’odio.Amal, la bambina nata nel campo profughi, è la voce che racconta la storia della sua famiglia. » qui sul loro canale youtube ulteriori passi de libro
Un romanzo triste ma bellissimo . IL mio primo romanzo di un autore \ autrice del medio oriente \ mondo arabo in particolare della palestina . Nella lettura vi ho rirovato , alcuni romanzi letti ( e in alcuni casi riletti e uno citato musicalmente in quanto i Mcr ci hano fatto un disco ) in gioventu 😂😇😁 . In particolare questi di Luis Sepúlveda
Ma soprattutto : 1) cent'anni di solitudine di Gabriel García Márquez \ disco dei Mcr in particolare la vicenda di remedios la bella 2) Eva Luna , e la casa egli. spiriti di Isabella Allende .Nei quali ho visto l'analogia con il personaggio di Amal .
certo è una lettura triste e malinconica , ma bella ed affascinante soprattutto per chi è appassionato o vuole conoscere le culture altrui . Infattil'autrice ha , a mio avviso uno stile affascinante che ti fa mettere da parte lacrime,sconforto e indignazione per le vicende che i palestinesi ( e quindi anche l'autrice stessa , anche se in versione romanzata ) hanno subito dal 1948 se non a prima , dandoti la forza di andare nella lettura. Ha una forza narritiva cosi potente ed affascinante che credevo che la sottrazione del bambino fosse vera come è successo nelle dittature sud amricane negli anni 70\80 . Infatti non esistono prove documentate di un programma sistematico di adozione forzata simile a quello delle dittature latinoamericane.Esistono invece testimonianze di detenzioni minorili, sparizioni temporanee, e condizioni dure nei centri di detenzione, ma non un sistema di adozioni segret
bambino palestinese e la sua adozione da parte di una famiglia israeliana — è un episodio romanzato, anche se ispirato a un contesto storico reale e doloroso.Il romanzo di Susan Abulhawa è una potente opera di fiction che intreccia eventi storici con elementi narrativi drammatici.La vicenda del piccolo Ismael, sottratto alla famiglia palestinese e cresciuto come David da una coppia israeliana, è simbolica: rappresenta la perdita d’identità, la frattura tra popoli, e il trauma della diaspora.Ottima 🎭 Funzione letteraria:L’episodio serve a drammatizzare il conflitto e a rendere tangibile la perdita di patria e famiglia.Concludo citando uno dei pezzi più belli ed intrensi del romanzo fin qui letti
"“ [...] Nasciamo tutti possedendo già i tesori più grandi che avremo nella vita. Uno di questi è la tua mente, un altro è il tuo cuore. E gli strumenti indispensabili di queste ricchezze sono il tempo e la salute. Il modo in cui userai i doni di Dio per aiutare te stesso e l’umanità sarà il modo in cui Gli renderai onore. Io ho cercato di usare la mente e il cuore per tenere il nostro popolo legato alla propria storia, perché non diventassimo creature senza memoria che vivono arbitrariamente in balia dell’ingiustizia.[...] ”"
Se prima in contemporanea a genocidio usavo la parola guerra , adesso anche a costo d'essere etichettato come antisemita , ma m'importa una sega ⋇ , perché sono apposto con la mia coscienza e non riesco ad essere antisemita per conoscenza storica e formazione culturale ( anche se ogni tanto per rabbia e indignazione per quello che sta succedendo in Israele \ Palestina ci sono caduto ma poi mi sono scusato ed ho fatto autocritico che ha letto i post dal 7 ottobre di due anni fa lo sa benissimo ) userò la parola genocidio . Infatti per essere guerra dovrebbero essere due parti in conflitto che si combattono anche con bombardamenti invece c'è solo una parte che assedia e affama l'altra come di mostrano le storie sotto riportate . ..... rischierei uscire dal post odierno , riprendiamo la discussione prossimamente se volete . per il momento accontentavi di : <<Il peso delle parole che grava su Israele>> da https://www.lachiavedisophia.com/ che coincide con la mia motivazione
Ma desso basta veniamo alle storie N.B nel caso i video ( non sono riuscito a scaricarli o a copiare il codice embed ho solo capito l'articolo convinto di copiare anche i video ) non si dovessero vedere riporto all'inizio l'url da cui ho preso l'articolo e in cui si trova il video
Gaza, bambino scalzo in fuga che porta in spalle la sorellina: il video drammatico
Due fratellini, il più grande porta in spalle la sorellina, a piedi nudi, stremato lungo la via di fuga degli sfollati dal nord di Gaza al sud. Immagini strazianti, simbolo di umanità, postate sui social e che in breve hanno scosso non poco gli animi degli utenti in rete. La fuga da Gaza La sorella più piccola aggrappata al fratello più grande che urla tutto il suo dolore. Uno strazio per l'anima. I due bambini soli tra le macerie di Gaza, entrambi con lo sguardo perso. Un video di quasi 20 secondi che documenta la disperazione di un popolo costretto a lasciare il cuore della Striscia. Secondo i militari israeliani dell'Idf sono almeno 500mila le persone in fuga da Gaza City, prima dell'azione di terra dei soldati con la stella di David c'erano invece circa un milione di abitanti. Le firme a sostegno dello Stato palestinese Sono quasi 9mila gli israeliani che hanno firmato una petizione a sostegno della richiesta di riconoscimento dello Stato palestinese in vista del prossimo vertice del 22 settembre a New York con Arabia Saudita e Francia a presiedere. E' atteso per quel giorno il riconoscimento formale di Gran Bretagna, Francia, Canada, Australia e Belgio. "No alla guerra, sì al riconoscimento!" lo slogan dell'iniziativa si legge sui media israeliani. L'organizzazione della raccolta firme punta a quota 10mila firme israeliani da mostrare all'Assemblea Generale dell'Onu prevista la prossima settimana. Dimostrare una volta per tutte che c'è un pezzo di cittadini israeliani che si oppone alla guerra e spingono con forza per la pace
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A 9 anni perde una gamba nel raid israeliano, la ricostruisce con un tubo di plastica. Il video virale da Gaza
La storia di Rateb, che sogna di poter continuare a giocare a calcio
di Redazione Digitale
Un tubo di plastica, un coltello da tavola e uno spago, per poter continuare a tirare calci a un pallone. In queste ore sono diventate virali le immagini, girate dai giornalisti di Gaza, in cui un bambino di nove anni di Gaza senza una gamba a causa di un bombardamento israeliano se ne costruisce una "di fortuna" per poter tenere viva la sua passione per il calcio. Si chiama Rateb, e nel raid ha perso la madre e un fratello. Il video del bambino di Gaza con una gamba ricavata da un tubo dell'acquaNel video girato dal giornalista di Gaza Tamerh Qeshta, la cui versione tradotta da Translating Falasteen mostriamo in copertina dell'articolo, il bambino, che si chiama Rateb Abu Qleiq, racconta la sua storia: "Ho detto a mio fratello di prendere un tubo, così posso giocarci a calcio", dice. "Sono stato sfollato dal nord a Deir el-Balah", spiega Rateb, che nelle immagini si vede riuscire a tirare calci a un pallone con la nuova gamba "di fortuna", costruita con un tubo dell'acqua legato a ciò che resta della sua gamba. "Tre mesi fa ero dai miei zii con i miei fratelli, e siamo stati bombardati. Mia madre è stata uccisa, mio fratello è stato ucciso. La mia gamba è stata tranciata, ma ho messo un tubo. Mi sono rimasti un fratello e una sorella".
Rateb con la maglia di Messi
In un altro video, girato dal fotogiornalista Fadel Mghari, ritrae Rateb con indosso la maglietta di Lionel Messi al Barcellona. Lui e suo fratello stanno tagliando il pezzo di tubo con un coltello da tavola, e lo si vede calzare la sua nuova "protesi" fissata a ciò che rimane dell'arto con uno spago, per poi allontanarsi con l'ausilio delle stampelle.L'agenzia palestinese Quds News Network, che ha ricondiviso il video, scrive: "Nonostante il dolore e la perdita, sogna ancora di correre, di tornare a scuola e di riunirsi al padre, in attesa di una protesi che possa aiutarlo a recuperare la sua infanzia".
Despite the pain and loss, he still dreams of running, of going back to school, and of reuniting with his father — waiting for a prosthetic limb that could help restore his childhood.
Ilan Volkov: "Addolorato" per le sofferenze inflitte "su scala inimmaginabile" a masse di "palestinesi innocenti"
di Redazione Digitale
È un arresto che fa rumore: si tratta del direttore d'orchestra israeliano Ilan Volkov che appena una settimana fa dopo aver diretto la Bbc Scottish Symphony Orchestra a margine del concerto clou dei celebri Bbc Proms, una rassegna britannica di musica classica che da decenni va in scena durante l'estate alla Royal Albert Hall, ha preso la parola davanti ad un pubblico cosmopolita per denunciare ciò che accade nella Striscia. Con lui sono state arrestate altre tre persone. Cosa ha detto su Gaza Ilan Volkov, il direttore d'orchestra israeliano Ciò che accade nella Striscia di Gaza è "atroce e orrendo". "Io amo il mio Paese", ha premesso, "ma sono addolorato" per le sofferenze inflitte "su scala inimmaginabile" a masse di "palestinesi innocenti": "uccisi a migliaia, dispersi dalle loro case, privati di scuole e ospedali, ignari di quando potranno avere il prossimo pasto". Volkov ha poi descritto la condizione "terribile" degli ostaggi israeliani superstiti nelle mani di Hamas "da quasi due anni" e quella di tanti "prigionieri politici che languono nelle carceri" dello Stato ebraico. E ancora sottolinea "l'impotenza" della gente comune, ma "la politica" incalza "riguarda tutti": di qui l'invito a ciascuno a fare ciò che può affinché "questa follia sia fermata adesso". "Gli ebrei israeliani e i palestinesi non sono in grado di fermare tutto questo da soli", ha concluso, sollecitando il resto del mondo ad agire perché "ogni minuto che passa mette a rischio la sicurezza di milioni" di persone. L'arresto di Volkov durante la protesta ai confini con Gaza Così Volkov mentre viene portato via dagli agenti su un'auto della polizia, insiste con la sua denuncia: "Dobbiamo fermare il genocidio ora. Sta rovinando la vita di tutti. Fermatelo". Volkov è nato a Tel Aviv e all'età di 26 anni è stato nominato direttore principale della BBC Scottish Symphony Orchestra, per poi diventare direttore ospite principale nel 2009.Il suo arresto avviene mentre i carri armati e gli aerei israeliani bombardano Gaza City, obiettivo di una nuova importante offensiva terrestre, costringendo i palestinesi a fuggire verso sud. Il quotidiano israeliano Haaretz, infine, scrive che quattro persone erano state arrestate, tra cui Volkov ma poi sono state rilasciate "dopo poco tempo".
Tahani Shehada è una giovane gazawi che prima del 7 ottobre lavorava per un’agenzia di stampa nella Striscia. Con il fidanzato, Nourdine, stava pianificando il matrimonio a fine anno. Persi di vista nella guerra si ritrovano al Sud, devastati negli affetti, e decidono di sposarsi sotto le bombe. Quando provano a evacuare per partorire in Egitto, Israele occupa Rafah e serra l’ultimo valico “Quello che mi spaventa di più non è il sangue che schizza ovunque ma la paura di perdere il senso delle cose, di dimenticare come si ride e di diventare una persona consumata dalla depressione e dal dolore”. Tahani Shehada, 27 anni, ha sempre avuto talento nello scegliere le parole giuste per trasmettere il suo messaggio. Prima del 7 ottobre 2023 lo faceva per lavoro come presentatrice e videomaker per un’agenzia stampa di Gaza City, dove è nata e vissuta tutta la vita. Oggi, le parole di Tahani risuonano pesanti come macigni dal campo profughi di Nuseirat, a pochi metri dal luogo di uno degli attacchi più brutali dall’inizio della guerra su Gaza. Durante un’operazione per recuperare alcuni ostaggi portati a Gaza da Hamas il 7 ottobre, infatti, centinaia di civili palestinesi sono stati uccisi e feriti dalle forze armate israeliane. È proprio qui che vive Tahani, o come dice lei, “sopravvive”, da sfollata dopo essere stata costretta ad abbandonare la sua casa, come centinaia di migliaia di altri palestinesi, fuggendo dal Nord di Gaza verso il Sud, zone che l’esercito israeliano aveva garantito come sicure. “Il 6 ottobre -ricorda la giovane- io e il mio fidanzato Nourdine abbiamo pranzato al mare e passeggiato la sera al chiaro di Luna per le strade di Gaza, parlando dei nostri sogni. Ora è tutto svanito”. Tahani e Nourdine si erano conosciuti al lavoro, avevano fissato il matrimonio per il 14 dicembre 2023, pianificando meticolosamente ogni dettaglio. Con i loro risparmi stavano ristrutturando un piccolo appartamento che dopo le nozze avrebbero finalmente chiamato “casa”. “Sono sopravvissuta a cinque guerre ma ho capito subito che questa sarebbe stata diversa -sottolinea Tahani-. Dopo venti giorni di bombardamenti incessanti e spietati, la mia famiglia e quella di Nourdine sono state costrette a spostarsi verso Sud. All’inizio, ci eravamo opposti agli ordini di evacuazione ma la devastazione non ci ha lasciato scelta. Il viaggio è stato molto pericoloso, non credevamo di farcela”. Per Tahani e la sua famiglia iniziavano così le prime settimane da sfollati in una scuola dell’Unrwa, l’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei profughi palestinesi nel vicino Oriente, dove centinaia di persone si erano ammassate i giorni prima in fuga dai bombardamenti. Del fidanzato, erano state perse le tracce. L’esercito israeliano continuava a colpire, tra i molti bersagli, le reti di telecomunicazione, causando lunghe interruzioni del segnale. Il sovraffollamento, le condizioni igieniche precarie e la mancanza di privacy erano aggravati dal terrore che a Nourdine fosse accaduto il peggio. A fare compagnia a Tahani c’era solo Ceasar, un gatto anche lui sfollato da chissà dove, che aveva voluto ribattezzare come il suo ultimo animale domestico, aggrappandosi con tutta la sua forza ai frammenti di una vita che non voleva credere appartenesse già al passato.
Dopo le concitate settimane di febbraio, durante le quali si respirava un discreto ottimismo per i trattati in corso, Tahani scopre di essere incinta. “Sentivo di avere finalmente un motivo per cui vivere -continua-. Quella mattina avevo svegliato Nourdine e gli avevo mostrato il test di gravidanza. Era al settimo cielo. Diceva che questo bambino era un dono di Allah per compensarci per gli orrori che avevamo visto in tutti questi mesi. Eravamo così felici perché pensavamo che la guerra potesse finire in qualsiasi momento. Avremmo potuto godere della gravidanza e vedere nostro figlio crescere”. Ma la guerra continua, al contrario, a infuriare senza tregua, e la gioia di quei momenti è ormai svanita. Come centinaia di gazawi, la giovane coppia ha deciso di lanciare un crowdfunding nel tentativo di evacuare in Egitto, ma con la conquista del valico di Rafah da parte delle truppe israeliane, l’unico passaggio per i palestinesi intrappolati a Gaza dal 2007, le loro speranze rischiano di frantumarsi. “Sono a un punto della gravidanza in cui il bambino riesce a percepire i rumori esterni -confida Tahani-. Sta vivendo gli orrori di questa situazione ancora prima di nascere e il pensiero di partorire in queste condizioni mi terrorizza. Chiedo solo che nostro figlio possa crescere in un ambiente senza paura e privazioni. Io non so dove ci stia portando la vita, ma ormai tutta la forza che ci ha permesso di arrivare vivi fin qui si sta dimostrando inutile. Le nostre anime si stanno svuotando, stiamo diventando insensibili a tutto”.
Nonostante i continui bombardamenti, Ibrahim e Narmin Abed hanno deciso finalmente di celebrare il loro matrimonio. La coppia, costretta ad abbandonare la loro casa nella città settentrionale di Gaza, ha cercato rifugio nella scuola dell'UNRWA a Deir al-Balah, nel sud. Sono sposati ma non hanno mai festeggiato. La sposa Narmin racconta: “Avevamo programmato di celebrare il matrimonio con una festa ma lo abbiamo rimandato di un mese, poi ancora di altri mesi”. Ora hanno deciso di fare una festa seppur in mod spartano secondo le circostanze di guerra. “Volevo fare una grande festa di matrimonio, ma i soldi non ci sono, questo è il nostro destino, è così" spiega Narmin. Dopo la cerimonia nuziale, la giovane coppia si è diretta verso un'auto che per loro era diventata la casa.
Migliaia di commenti e likes per Pietro, il giovane genovese di soli 22 anni che si racconta nel video [ lo trovate sotto opure sull'account facebook del giornalista ] del giornalista di inchiesta Lorenzo D'Agostino, imbarcato insieme agli attivisti della Global Sumud Flotilla, l'operazione civile nata per rompere il blocco navale di Gaza e portare aiuti umanitari sulla Striscia. Nel video che nel giro di poche ore ha raggiunto le 100mila visualizzazioni il ragazzo si racconta: giovanissimo, si è licenziato qualche giorno prima di salpare con la più grande operazione civile vista fino a ora per "vivere il mare in maniera diversa.
La Global Sumud Flotilla da Genova per Gaza, su Primocanale il viaggio dei due genovesi - Leggi qui Pietro, marinaio, lavorava a bordo di lussuosi yacht
Pietro, marinaio, lavorava a bordo di lussuosi yacht. "Voglio cambiare il mio modo di vedere il mare, non solo più come un lavoro ma come un vero e proprio strumento di solidarietà" spiega Pietro al giornalista, "di sostegno a un popolo oppresso". Il giovane è partito da Barcellona, dopo una settimana di duro lavoro per riparare le vecchie imbarcazioni e renderle pronte alla traversata verso Gaza.
Poco prima da Genova più di 50mila persone sono scese in piazza per mostrare solidarietà all'operazione, che ha fatto salpare da ponte Parodi più di 250 tonnellate di aiuti donati dai cittadini.
Genova per Gaza, migliaia in corteo: le immagini - Clicca qui
Le imbarcazioni partite da Genova sono state sostenute da una città intera
Le quattro imbarcazioni partite domenica 31 agosto da ponte Parodi, con una quinta dalla Spezia, sono state accompagnate, sostenute, spinte da una città intera, che non è stata in silenzio ma anzi ha deciso di essere protagonista di quella che si annuncia come la più grande missione di solidarietà della storia, con più persone e più imbarcazioni di tutti i tentativi precedenti messi insieme. Da quando Israele ha imposto il blocco a Gaza nel 2007, si sono svolte più di 37 missioni marittime. Questa è la più numerosa, con partecipanti provenienti da 44 paesi
In sintesi \ per chi ha fretta e non vuole continuiare ella lettura Per la popolazione della Striscia la situazione resta drammatica: 40 mila morti, 90 mila feriti e 9
palestinesi su 10 sfollati internamente, oltre ad un crescente rischio di epidemie di epatite B e poliomielite.E Il Dipartimento di Stato americano ha annunciato la sospensione di tutti i visti turistici per i cittadini di Gaza, compresi i bambini che necessitano di cure mediche urgenti.
da unbranded - Newsworthy Italian tramite Msn.it
Il Segretario di Stato Marco Rubio ha annunciato questa decisione, citando “prove” che alcune organizzazioni che rilasciano visti per gli Stati Uniti “hanno forti legami con gruppi terroristici come Hamas”. L'agenzia ha deciso di condurre una “revisione completa e approfondita del processo e delle procedure utilizzate per rilasciare un numero limitato di visti temporanei per motivi medici e umanitari negli ultimi giorni”. “Sospenderemo questi visti... e sospenderemo questo programma per rivalutare le modalità di verifica dei visti e l'eventuale relazione di queste organizzazioni con il processo di acquisizione dei visti”, ha dichiarato Rubio al programma Face The Nation della CBS. L'azione è stata intrapresa solo un giorno dopo che alcuni post sui social media riguardanti i rifugiati palestinesi negli Stati Uniti hanno suscitato reazioni rabbiose da parte degli attivisti di destra. L'attivista di estrema destra Laura Loomer ha pubblicato su X, affermando che i palestinesi “che dichiarano di essere rifugiati di Gaza” sono entrati negli Stati Uniti via San Francisco e Houston questo mese. In un post successivo, ha chiesto: “In che modo consentire l'ingresso di immigrati islamici negli Stati Uniti è in linea con la politica America First?”, prima di segnalare ulteriori arrivi di palestinesi nel Missouri. Ha anche affermato che “diversi senatori e membri del Congresso statunitensi” le avevano inviato messaggi di testo, esprimendo rabbia per la situazione. Ha anche affermato che “diversi senatori e membri del Congresso degli Stati Uniti” le hanno inviato messaggi di testo esprimendo rabbia per la situazione. Il Palestine Children's Relief Fund ha affermato che questa decisione avrà un “impatto devastante e irreversibile” sulla sua capacità di “portare bambini feriti e gravemente malati” negli Stati Uniti per cure mediche salvavita.
"Spesso, leggendo i commenti sotto i video o post che parlano del genocidio di Israele contro il popolo palestinese, si nota molta confusione. Tante persone non sanno nemmeno cosa sia il sionismo e l'ideologia sionista" .
A spiegarlo, in modo chiaro e diretto, é Karem Rohana, un attivista italo palestinese, nato ad Haifa da padre palestinese e mamma italiana.
Ascoltatelo con attenzione, ne vale veramente la pena, per l'analisi lucida e spietata che fa di un popolo ma anche per l'amore che invita a coltivare anche quando l'ultima fiammella di speranza sembra spegnersi. E un invito finale su tutti, quello di non perdere la nostra umanità e la nostra capacità di sentire l'altro come portatore di diritti uguali ai nostri.Un capolavoro di video. È di una potenza inaudita, un dono prezioso per chiunque l'ascolti, infonde consapevolezza e umanità. Grazie per essere il cambiamento in questo mondo assopito da un sistema al potere che ci vuole tutti buoni e zitti, individualisti e manipolati inconsapevoli La delicatezza con cui hai trattato tanta sofferenza è imbarazzante. La tua profondità di pensiero è estremamente rara. Il tuo cuore è grande. Grazie
Più di 480 vittime - in gran parte donne e bambini - a Gaza a causa d'un attacco israeliano. Perfino il controverso Ehud Olmert dichiara apertamente che l'obiettivo del premier è un «Israele non democratico». Non si risparmia il Papa, «colpevole» d'aver espresso all'Angelus il suo dolore per il massacro nella Striscia e implorato di far tacere le armi. «L’operazione è condotta in piena conformità con il diritto internazionale» (!), è la piccata replica dell'ambasciata d'Israele. Dopo la pace, sbeffeggiata dai sedicenti «inclusivi» che per il RearmEurope stanno mettendo a repentaglio i servizi sociali - è diventata innominabile pure la compassione.
Contemporaneamente, sembra che un numero non trascurabile di palestinesi comincino ad averne abbastanza di Hamas. Non è una novità assoluta, nel 2024 un abitante del Territori protetto dall'anonimato aveva rivelato ad «Haaretz» che «Hamas ha danneggiato la nostra lotta e l'ha trasformata in uno strumento utilizzato da elementi oppressivi». Auspicando una nuova e autentica leadership per la resistenza palestinese, l'ignoto interlocutore manifestava sconcerto per il sostegno ad Hamas da parte di donne di Ramallah e Amman, «che non indossano hijab o veli»: «Non sanno - domandava - come Hamas le vede e come vengono rappresentate nel sistema scolastico di Hamas?».
Adesso pare che il malcontento non si limiti a proteste isolate. Nel frattempo chi lavora per una pace autentica, come NSWAS, Rabbis for Peace e molti altri continua a farlo, malgrado il disprezzo e la noncuranza di governi, gruppi organizzati e mass-media. Ma anche di taluni attivisti/e occidentali, perché prese di posizione quantomeno ambigue arrivano non soltanto dalle donne di Ramallah o giordane, come crede il gazawi sopra ricordato. Anche da noi è tutto un rabbioso scandire slogan di «liberazione dal fiume al mare» consapevoli di ciò che tale presunta «liberazione» comporterebbe per gli israeliani/e, etichettati sbrigativamente come «sionisti» senza che la maggior parte dei manifestanti italiani pro-Pal conosca un iota della storia e delle ragioni del sionismo. Le violenze subìte dalle donne d'Israele sono poi da costoro sistematicamente minimizzate o negate. Non si può negare che per taluni la lotta al «sionismo» altro non sia che un antisemitismo mascherato.
Ebbene, dato che comunque questi attivisti si ostinano a proclamarsi pacifici chiediamo si uniscano alle voci dei due popoli esasperati dalle carneficine dei loro rispettivi rappresentanti, ed esigano soluzioni eque per entrambi, senza che l'uno distrugga l'altro. Più in generale chiediamo fermamente facciano sentire il loro NO a chi da Bruxelles, in nome della pace, prepara la guerra.
Bellissimo articolo, questo di M Alessandra Filippi per affaritaliani , finalmente lontano dalla becera narrazione corrotta dalla propaganda Sionista ed occidentale. Sono rimasto affascinato nel leggerlo, a tratti incredulo. Incredulo che la censura non abbia addomesticato questa voce.
Quando si parla di Palestina, la disinformazione è un’arma potente che perpetua lo status quo. Da decenni, la narrazione del conflitto israelo-palestinese è dominata da una distorsione sistematica della realtà, radicata nel linguaggio e nelle scelte editoriali dei media. L’esempio più recente è avvenuto su Radio3, durante la rassegna stampa di Prima pagina, quando il giornalista incaricato della lettura dei giornali per questa settimana ha presentato la questione dei prigionieri palestinesi attraverso un doppio standard: gli ostaggi israeliani sono "innocenti", mentre i prigionieri palestinesi sono tutti "terroristi". Prima di ogni cosa, va ricordato che i palestinesi detenuti nelle carceri israeliane non sono tutti necessariamente terroristi e, in molti casi, sono rinchiusi senza un valido motivo. Inoltre, gli accordi per il cessate il fuoco escludono dal rilascio i prigionieri condannati per gravi reati di terrorismo, sebbene contemplino alcuni condannati al carcere a vita. Presentare questa complessa realtà come una semplice dicotomia tra "buoni" e "cattivi" è fuorviante e mistifica i fatti. Un ascoltatore ha giustamente osservato che il valore della vita non può essere separato dal contesto in cui si svolge la sofferenza. La repressione israelianaverso il popolo palestinese, che lotta da oltre 76 anni per il riconoscimento dei propri diritti e la fine dell’occupazione, si inserisce in un quadro storico, culturale e sociale complesso. Questa visione binaria, che riduce la realtà a un banale scontro tra buoni e cattivi, è un atto di violenza narrativa. Il termine "terroristi" non rende giustizia alla condizione di molti prigionieri palestinesi. Migliaia di loro sono detenuti in condizioni che violano i diritti umani, spesso privati della libertà senza accuse formali né processo, attraverso il meccanismo della detenzione amministrativa. Questo sistema non solo condanna senza prove e senza processo, ma rende invisibili agli occhi dell’opinione pubblica internazionale uomini, donne e ragazzi, come parte di una strategia di repressione e disumanizzazione. Inoltre, la detenzione amministrativa è uno strumento di controllo utilizzato per reprimere il dissenso politico e mantenere il potere sulle popolazioni indigene senza rispettare il diritto internazionale. Mentre, per esempio, la liberazione di RomiGonen, Emily Damari e Doron Steinbrecher, tutte in buone condizioni di salute, è stata raccontata con tale dovizia di particolari che adesso quasi conosciamo se preferiscono il caffè dolce o amaro, non altrettanto si può dire delle 69 donne palestinesi e 21 minori, provenienti dalla Cisgiordania e da Gerusalemme, rilasciati nelle prime ore di lunedì 20 gennaio. Le loro storie non hanno ricevuto la stessa attenzione: di loro sappiamo ben poco. Sono numeri, senza nome e senza volto, ai quali non viene riconosciuta dignità di identità. Fra le donne rilasciate c’è una irriconoscibile Khalida Jarrar, la cui salute è tutt’altro che buona. Parlamentare e dirigente del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP), è stata arrestata più volte per la sua attività a difesa dei diritti palestinesi. Negli ultimi sei mesi è stata sottoposta a isolamento in una cella di 2 metri per 1,5 e ad altre misure punitive imposte per i prigionieri politici palestinesi dal ministro israeliano per la Sicurezza, Itamar Ben-Gvir, come misura ritorsiva dopo l’attacco del 7 ottobre. Arrestata nel dicembre 2023 con l'accusa di "sostegno al terrorismo", è stata trattenuta in detenzione amministrativa senza processo. Un'altra è la giornalista di Watan News, Rula Hassanein, arrestata dalle forze israeliane il 19 marzo 2024 – nel corso di un raid notturno durante il quale sono stati effettuati arresti di massa -, con l’accusa di incitamento alla violenza sui social per post che, a quanto si dice, manifestavano la sua frustrazione per la sofferenza dei palestinesi a Gaza. Il video in cui Hassanein, con le lacrime agli occhi, riabbraccia la figlia che era stata costretta a lasciare quando aveva solo 8 mesi, non risulta sia stato diffuso dai media mainstream. AbdelazizAtawneh, un ragazzo di 19 anni, arrestato il 21 ottobre 2023, ai giornalisti ha detto: "Ho lasciato l'inferno e ora sono in paradiso. Siamo tutti fuori dall'inferno. Ci violentavano, ci picchiavano, ci lanciavano gas lacrimogeni". Il più giovane fra gli scarcerati, Mahmoud Aliwat, ha 15 anni. Secondo la Commissione palestinese per gli affari dei detenuti e degli ex detenuti e la Società dei prigionieri palestinesi, sono 10.400 i palestinesi detenuti nelle prigioni israeliane, escludendo quelli arrestati a Gaza negli ultimi 15 mesi di guerra, di molti dei quali si sono perse le tracce. Tra questi, il caso emblematico è quello del dottor Hussam Abu Safiya, primario di pediatria e direttore del Kamal Adwan Hospital di Beit Lahiya, arrestato dall’esercito israeliano il 27 dicembre 2024 insieme ad altro personale medico e alcuni pazienti, durante l’attacco che ha distrutto l’ultima struttura ospedaliera parzialmente funzionante nel nord della Striscia. La foto che lo ritrae, solo, col camice bianco, mentre avanza su una montagna di macerie verso i carri armati israeliani, ha fatto il giro del mondo. Da allora, sono state lanciate decine di petizioni per chiederne il rilascio, compresa una di Amnesty International, ma di lui non si sa più nulla. "Arrestandolo arbitrariamente, rifiutando di rivelare dove si trovi e di concedergli l’accesso a un avvocato, le forze israeliane hanno commesso gravi violazioni del diritto internazionale, compreso il reato di sparizione forzata", ha scritto Amnesty Italia in un post su Instagram, cinque giorni fa. Il problema non è solo il trattamento differenziato fra "prigionieri" e "ostaggi", ma la complicità dei media nel perpetuare una narrativa distorta. Non si tratta di semplici errori, ma di una negligenza grave che alimenta la retorica della "legittima difesa" israeliana, ignorando la violenza sistematica inflitta a milioni di palestinesi sotto occupazione. Le accuse contro molti prigionieri includono il lancio di pietre o la partecipazione a manifestazioni politiche. In che misura queste attività possono essere definite terrorismo?
Il doppio standard non è solo nelle parole, ma permea immagini, retorica e discorsi pubblici. La narrativa israeliana viene adottata acriticamente anche quando distorce concetti fondamentali. Si ripete, per esempio, che "Israele ha il diritto di esistere", e chi lo contesta? Israele esiste dal 14 maggio 1948, è riconosciuto a livello internazionale. Il punto cruciale è un altro: è la Palestina ad avere il diritto di esistere, e il suo popolo ad autodeterminarsi. L’incapacità di una fetta considerevole dei media, e dei politici, di analizzare il contesto fa sorgere il dubbio si tratti di una strategia mirata a sostenere l’occupazione e delegittimare la lotta palestinese. Ogni narrazione che equipara oppressori e vittime contribuisce al caos e camuffa la verità. Ma la verità, per quanto scomoda, è l’unica strada verso una giustizia reale, un dialogo costruttivo e una pace duratura. Come diceva Nelson Mandela nel 1977, "Sappiamo troppo bene che la nostra libertà è incompleta senza quella dei Palestinesi".