Di Raquel Welch, scomparsa a 82 anni il 15 febbraio scorso, sapevo pochissimo. Quanto bastava. Che era bella e festosa, donna totale, più erede di Mae West o Rita Hayworth che antenata di Shakira. Anche se si denudava, c'era qualcosa di pudico nel suo corpo, nel suo sorriso eburneo e meticcio. Qualcosa che l'accomunava alle tele rinascimentali, alle allegorie di Giacomo Serpotta, e, in fondo, alla famiglia.
Mentre lei spopolava con pellicole destinate a rimanere nell'immaginario collettivo benché non sempre memorabili ("Un milione di anni fa, il bikini in pelle!), io trascorrevo la mia estate calda ad Arenzano in compagnia dei pupazzi Disney e di mio padre che si divertiva leggendo "Piccolissimo" del mitico Antonio Amurri :
piccolissima, gustosa saga familiare grazie alla quale conobbi per la prima volta il nome di Raquel. Il protagonista, papà Antonio medesimo, trovava "inquietante" l'apprezzamento verbale - "fichissima'! - tributato all'attrice dai numerosi figli (allora i figli erano numerosi, in Italia). Raquel, bastava il nome. Ma come lo pronunciava Manuel Fantoni, nessuno. Nel monologo di "Borotalco" la descriveva tutta: seni-borracce, capezzoli-chiodi, "belli, rosa, da attaccarci un quadro". Alla faccia delle arditezze futuriste. Pronunciato con un'enfasi così vellutata che, lo capivi, gli bastava il sogno, e Manuel, un po' playboy un po' bambino, di sognare era capace. Ed è scomparso anche Alberto Radius. Non apparteneva ai miei anni spensierati, ma all'adolescenza tumultuante. Era metropolitano,
Radius, un romano-milanese per la militanza con la Pfm e pure con Battisti, laziale atipico. Radius era "Nel ghetto", brano-manifesto di quel periodo militante e illusorio.
Ma, se il tempo ha impolverato gli slogan, ha conservato intatte le schitarrate nervose, riconoscibili al primo attacco, come un Hendrix al calor bianco, figlie di un'epoca elettrica che non tornerà.
© Daniela Tuscano