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15.2.22

Saviano criticato dalla madre di Claudio Domino, il bambino ucciso dalla mafia a 11 anni



La madre del piccolo Claudio Domino, ucciso dalla mafia a soli 11 anni, si è scagliata contro il giornalista Roberto Saviano, tornato sul piccolo schermo con un nuovo programma d’inchiesta.

© Fornito da Notizie.it 

Nella serata di sabato 12 febbraio, Roberto Saviano è tornato in televisione con il suo nuovo programma Insider, faccia a faccia con il crimine. Il format, composto in totale da quattro puntate, si articola attraverso una serie di “faccia a faccia” con le organizzazioni criminali. Vengono mostrate agli spettatori, infatti, interviste a pentiti, agenti infiltrati e testimoni di giustizia che hanno vissuto simili realtà in prima persona, dall’interno.
In seguito alla messa in onda della prima puntata del programma, dedicata al clan dei Casalesi, il giornalista è stato aspramente criticato da Graziella Accetta, madre del piccolo Claudio Domino, il bambino di 11 anni morto per un colpo di pistola alla testa il 7 ottobre 1986. La donna, che da 36 anni insieme al marito Ninni continua a cercare la veritàsull’assassinio del figlio, ha commentato il lavoro dello scrittore con le seguenti parole: “Roberto Saviano è un personaggio di spettacolo, tanti altri giornalisti che hanno la scorta fanno vera lotta alle mafie senza fare spettacolo”.
Il post condiviso da Graziella Accetta sui suoi canali social contro il giornalista

Graziella Accetta, poi, soffermandosi sui bassi risultati della trasmissione in onda su Rai 3 che in termini di ascolti ha registrato 941.000 spettatori e uno share di 4.7%, ha scritto sui social: “La gente non lo segue perché non ha fiducia in lui, non gli crede – e ha aggiunto –. Se la stessa trasmissione fosse stata fatta da un giornalista credibile e con familiari che non si sono arricchiti, ma che hanno fatto vera lotta alla mafia, saremmo stati davanti alla tv”.
Rispondendo a un commento di una donna che difendeva Roberto Saviano e la attaccava con forza, Graziella Accetta ha dichiarato: “Questo imprimere il proprio pensiero e il modo di pensare non è una bella cosa, rispetto tante altre persone che rischiano la vita senza fare ‘pomata’ e stai tranquilla che io sono proprio l’ultima persona che possa favorire le mafie, e non faccio figli e figliastri – e ha ribadito –. Saviano è l’ultima persona che possa capire e non sta proprio dalla mia parte. Io sono rimasta in prima linea a Palermo a combattere e non voglio soldi. Lo faccio a titolo gratuito sempre, sai perché? Perché il sangue di mio figlio non ha prezzo e tanti anni fa ho rinunciato alla scorta, invece… lui?”

5.8.17

finalmente saviano la smette di fare cut& paste e si memtte a scrivere un vero romanzo . La paranza dei Bambini

  colonna  sonora

  •  Le  storie    d'ieri  -  de Andrè  -  de  Gregori  
  • la storia    -  de  gregori 
  • morire  per le  idde  -   Bassens  -  de  Andre' 


In questi  giornbi di caldo  afoso   ho  quasdi divorato ( sono arrivsato quasi a metà  il libro  )  la Paranza  dei  bambibi di  Roberto Saviano   ,  romanzo  che  avevo mmesso  nel mucchio   di quelli  da leggere  ma  fra : lavoro , distrazioni  fumettistiche , letture  di  altri  libri  ,    e riviste  ,  cura  del mio fb  e   del  blog  ,  ecc. .
.È il  suo  primo romanzo interamente ,  come dice  wikipedia alla    voce  la paranza  dei  bambini di finzione di Saviano, pur se pesantemente ispirato alla realtà della camorra napoletana degli anni 2010. Tesi che non mi trova  d'accordo  visto che  è questo suo  ultimo romanzo   è  talmente    schietto  e  duro  che   è pressochè  difficile   riconoscere  (  anche  per chi  è dotato  degli strumenti  letterari )  dove  sta la  fantasia  e  la realtà  , visto    che   essi si fondono   a  tal  punto   da essere  una cosa    unica .Se non fosse   l'autore a  farcelo notare  : <<  La forma cambia ma l’incipit è lo stesso che Francesco Rosi scelse per Le mani sulla città: “I personaggi e i fatti qui narrati sono immaginari, è autentica invece la realtà sociale e ambientale che li produce”.>>  riportando una frase  di Dino Risi   in cui parlava  del suo film Le  mani sulla  città  . Tesi confermata    sia dalla  quarta  di copertina    che  la  sinossi  

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 Dieci ragazzini in scooter sfrecciano contromano alla conquista di Napoli. Quindicenni daisoprannomi innocui – Maraja, Pesce Moscio, Dentino, Lollipop, Drone –, scarpe firmate, famiglienormali e il nome delle ragazze tatuato sulla pelle. Adolescenti che non hanno domani e nemmeno ci credono. Non temono il carcere né la morte, perché sanno che l’unica possibilità è giocarsi tutto,subito. Sanno che “i soldi li ha chi se li prende”. E allora, via, sui motorini, per andare a prenderseli,i soldi, ma soprattutto il potere. La paranza dei bambini narra la controversa ascesa di una paranza –un gruppo di fuoco legato alla Camorra – e del suo capo, il giovane Nicolas Fiorillo. Appollaiati suitetti della città, imparano a sparare con pistole semiautomatiche e AK-47 mirando alle parabole ealle antenne, poi scendono per le strade a seminare il terrore in sella ai loro scooter. A poco a poco ottengono il controllo dei quartieri, sottraendoli alle paranze avversarie, stringendo alleanze con vecchi boss in declino. Paranza è nome che viene dal mare, nome di barche che vanno a caccia dipesci da ingannare con la luce. E come nella pesca a strascico la paranza va a pescare persone da ammazzare. Qui si racconta di ragazzini guizzanti di vita come pesci, di adolescenze “ingannate dalla luce”, e di morti che producono morti. Roberto Saviano entra implacabile nella realtà che ha sempreindagato e ci immerge nell’autenticità di storie immaginate con uno straordinario romanzo diinnocenza e sopraffazione. Crudo, violento, senza scampo....Qui si racconta di ragazzini guizzanti di vita come pesci, di adolescenze “ingannate dalla luce”, e di morti che producono morti. narra la storia di dieci ragazzi napoletani, guidati da Nicolas Fiorillo, e della loro ascesa nel mondo della Camorra. L'autore utilizza l'analogia della paranza, che in gergo camorristico indica un gruppo armato, riferendosi però, nel senso più letterale del termine, a quei pesci non ancora adulti e di piccole dimensioni che accecati, ma al contempo attratti, dalla intensa luce delle lampare si staccano dal fondo del mare e salendo verso la superficie vengono inesorabilmente intrappolati nelle reti dei pescatori. Analogamente, lo stesso accade a quella parte di gioventù che accecata e attratta dal desiderio di denaro facile e di potere, pur di ottenere questi valori, anche nell'impossibilità di ottenerli altrimenti, pur di sfoggiare un elevato stile di vita imposto da una società nichilista e consumista basata sull'apparenza, sceglie il crimine, la violenza e la sopraffazione come scelta di vita, pur sapendo che morirà per raggiungere quel modello ideale di esistenza.
  

Finalmente Saviano scrive    di letteratura  " pura "  non quella  "spuria  e  contaminata  (  ma non per  questo priva  d'efficacia  )  da  linguaggi  esterni  come il  giornalismo    e il reportage  . Un saviano  modesto e d  umile  finalmente   che  riconosce   a  differenza    di Gommorra  l'aiuto  esterno  in questo caso  Nicola  di Biasi ( professore  di storia  della lingua italiana  all'università Federico II  di Napoli  ) e  Giovanni Turchetta  ( professore  di letteratura  italiana contemporanea  all'università  di Milano  ) .
Un saviano     che evita   il copia e incolla (copy and paste in inglese) passivo \  acritico   che  aveva creato condana  per  plagio Gommorra  e  polemiche    con ZeroZeroZero    qui  ulterori news 
Un romanzo ,  la paranza  di  bambinbi  che  ottiene  anche ottime  recensioni   ( l'onore  delle  armi 😁😇😨  )   da suoi ( e non solo ) stroncatori e  strocatori di professione 
Un libro  bellissimo  , intenso  . << Un'opera scritta  >> --  sempre secondo il  giornale  --- << seguendo la scuola del vecchio realismo ottocentesco, una distanza letteraria da Emile Zola, pur con il ritmo della serie Narcos e uno sguardo da entomologo, in una struttura romanzesca solida e senza nessun ingresso morale dell'autore che avrebbe rovinato tutto, tranne in alcuni intermezzi in corsivo, dove però, anche qui, viene espresso un atteggiamento quasi darwiniano, da scienziato sociale, perché alla fine la vita è questa: «Esistono i fottitori e fottuti, null'altro. Esistono in ogni posto e sono sempre esistiti. I fottitori da qualunque condizione cercano di avere un vantaggio, che sia una cena offerta, un passaggio gratuito, una donna da portar via a un altro, una gara da vincere. I fottuti in qualsiasi condizione prenderanno il peggio».  bisogna dire che Saviano, adesso che è uno scrittore vero, se continua così, è fottuto, perché uno scrittore in Italia non vende e soprattutto non conta assolutamente niente. Per essere fottitori, qui, bisogna scrivere stronzate. Complimenti, Roberto, e tanti auguri.>> Ottima  la la  descrizione    di una  gioventù allo sbando   senmza   ( o  rare   )  diofese  dalla  cultuira  del tutto  e  subito    ,  del'apparire  .  Tale  romanzo  mi  riporta  all  mente  quesrti  versi  di  una famosa  canzone  : 

 (  ... ) 
La Storia dà torto o dà ragione
La Storia siamo noi
Siamo noi che scriviamo le lettere
Siamo noi che abbiamo tutto da vincere
O tutto da perdere
Poi la gente
Perché è la gente che fa la Storia
Quando è il momento di scegliere
E di andare te la ritrovi
Tutta con gli occhi aperti
Che sanno benissimo cosa fare
Quelli che hanno letto un milione di libri
E quelli che non sanno nemmeno parlare
È per questo che la Storia dà I brividi
E nessuno la può cambiare 
(....  )  


Il suo nuovo libro è , come  giustamente  afferma https://www.wired.it/play/libri/2016/11/16/libro-roberto-saviano-la-paranza-dei-bambini-recensione/  scorrevole, appassionante, solo in apparenza meno illuminante dei precedenti, più umano e radicale. Dice tanto di “noi” e non solo di “loro”.   Infatti Saviano  Dopo aver vivisezionato i meccanismi di potere lo scrittore si sofferma su quelli di mera sopravvivenza. La scelta del dialetto e i ragazzini scafati richiamano istantaneamente alla memoria gli accattoni di Pier Paolo Pasolini, ma i “paranzini” non sono   -- sempre  secondo l'artarticolo   di  wired  -- ragazzi di periferia, né  figli di proletari ma di famiglie piccolo o medio borghesi che trovano nel denaro facile e nella violenza l’unica forma di affermazione possibile. “Per questi ragazzi la vita non conta niente. Sarebbe facile dire ‘sbattiamoli in galera e liberiamoci di loro’ ma io voglio capire quanta innocenza c’è in questa colpevolezza”, spiega Saviano che sfida le sue platee adoranti: “Non mi sembra che il nostro capitalismo contemporaneo si differenzi così tanto dal loro modo di vivere”.
Le affermazioni di Saviano suonano quasi come un’implorazione all’ascolto, ad aprire gli occhi, a preoccuparci di chi siamo e di chi abbiamo di fronte, a non giudicare frettolosamente.
Ci rifletto, mentre ,  leggendo  il la parte   dei fottuti  e  futtitori   , curiosamente mi tornano alla mente le parole del clown franco algerino Miloud Oukili (il fondatore dell’Associazione Parada) che con l’arte circense ha salvato migliaia di ragazzini dalla disperazione: “Non esistono bambini di strada, ma bambini dimenticati da adulti e quegli adulti siamo tutti noi”.
Ne La paranza dei bambini ,  e  quin  concludo ,  non si realizza (  almeno  cosi  sembrerebbe  )  solo l’evoluzione di Saviano scrittore ma anche quella del personaggio Saviano, del Saviano rockstar   , che   Fa il tuttologo. Sta sempre in mezzo come  il prezzemolo  . È diventato un marchio che divide. Puntualmente idolatrato dai suoi fan e schernito dai suoi haters a causa del famoso successo/talento che non si perdona e di una snervante mania di protagonismo e presenzialismo (tra cinema, teatro, web e tv). Anche il suo nuovo libro, pubblicato  non manca di suscitare polemiche.  Infatti   Nicolas “buca lo schermo”, scrive il suo creatore, ancor prima di definirne l’essenza sulla pagina . Sono ufficialmente aperte le scommesse sulle tempistiche con cui Sky annuncerà la trasposizione del romanzo sul piccolo o sul grande schermo.Speriamo  che  sia  il  primo   romanzo   del  cicllo del  vinti  ,  e  che  si  sposti dal sud  a  descrivere    gli ambienti del   resto  del paese perchè la mafia  anzi le mafie   si trovano come  testimoniano i  suoi articoli  si  trovano  ormai nell'intero paese  .

26.7.17

ricordiamo che la mafie uccide anche gente comune non solo politici e giornalisti . Il ricordo. Rita Atria, la picciridda di Borsellino che morì 25 anni fa



Anche un suicidio può diventare omicidio . Soprattutto quando i media e le istituzioni ( dopo averli riempiti di merda fango quando erano invita ) si geneflettono ricordando Falcone e Borsellino e di sgtriscio gli uomini delle loro scorte .Ed  in un barlumne di coscienza  e   di lucidità   anche  le istituzioni  : <<  Conosciamo tutti le vittime della strage di Via D'Amelio eppure ne dimentichiamo sempre una. Rita Atria aveva solamente la colpa di essere nata in una famiglia mafiosa»: lo scrive su Facebook il presidente del Senato Pietro Grasso (  http://www.corriere.it/cronache/17_luglio_26/)  >> 

 E il caso che mi acingono a riportare oggi 


Antonio Maria Mira mercoledì 26 luglio 2017
Figlia di una famiglia mafiosa di Partanna testimone di giustizia, aveva 17 anni quando si gettò dalla finestra appena seppe della strage di via D'Amelio.

                                                     Rita Atria

Via D’Amelio e via Amelia. Paolo e Rita. Il magistrato nemico delle mafie e la 'picciridda', figlia di una famiglia mafiosa. Una storia di riscatto e di speranza, di fiducia nei giovani e in una vita pulita, che vince anche la morte. Quella di Rita Atria, 17 anni, la settima vittima di via D’Amelio, anche se la sua vita si ferma il 26 luglio 1992 sul marciapiede al numero 23 di via Amelia, a Roma, sotto il palazzone dove la ragazzina viveva tutelata dal Servizio centrale di protezione, testimone di giustizia, dopo l’uccisione del padre e del fratello, mafiosi di Partanna. Una scelta disperata dopo la morte di Borsellino, il suo nuovo papà. «Rita non la dobbiamo ricordare per la sua morte ma per la sua intelligenza che le diede la possibilità in pochissimo tempo di cambiare. È la storia drammatica di una ragazza che per la prima volta aveva trovato nella vita cose pulite e siccome era intelligente aveva capito la differenza tra le cose sporche in cui aveva vissuto e quelle pulite che aveva trovato».


                        Le due lapidi poste sulla tomba di Rita Atria (Max Firreri)




Così la ricorda Alessandra Camassa, presidente del Tribunale di Marsala. Venticinque anni fa, giovanissima sostituto procuratore nella città siciliana, fu lei a seguire il percorso di collaborazione di Rita. Lei insieme al suo 'capo' Paolo Borsellino. «Paolo aveva una particolare predisposizione per i giovani, soprattutto per i più fragili. Più un ragazzo era fragile e più lo amava. Aveva questo spirito adottivo. Si sostituiva subito alla figura paterna. La sua era una vocazione. E quindi il rapporto con Rita è stato automatico. Faceva benissimo il magistrato ma gli riusciva ancor più bene fare il padre». E per Borsellino era fondamentale anche nella lotta alla mafia. «Se la gioventù le negherà il consenso, anche l’onnipotente e misteriosa mafia svanirà come un incubo», diceva. «Quanto è importante investire sui ragazzi. È fondamentale», afferma anche la Camassa. Ed è anche l’eredità che ci lascia la 'picciridda', così come la chiamava Borsellino.
Lo sottolinea il presidente di Libera, don Luigi Ciotti, che come come ogni anno sarà oggi al cimitero di Partanna. Sulla tomba, come aveva chiesto Rita, saranno poste una rosa rossa e un’orchidea. «Il suo sogno si è infranto il 19 luglio. La morte di Borsellino è un vuoto che ha risucchiato la sua fragile vita. Lei il 26 luglio si è affacciata sul balcone e si è lasciata morire. Ma io sono convinto che durante quel volo Dio l’ha abbracciata stretta e forte. Per noi vive, perché la sua vita spezzata ha generato tanti frutti. Soprattutto due: le donne di mafia che si ribellano ai padrini e i ragazzi della giustizia minorile, che hanno più o meno la sua età, che cercano altre strade, altri punti di riferimento, che fanno delle esperienze in un altro tipo di comunità, non quella mafiosa ma quella vera che riempie la vita di vita».
In fondo è proprio quello che Rita aveva scritto. «Bisogna rendere coscienti i ragazzi che vivono nella mafia che al di fuori c’è un altro mondo, fatto di cose semplici ma belle, di purezza, un mondo dove sei trattato per ciò che sei, non perché sei figlio di quello o perché hai pagato per farti fare quel favore. Forse un mondo onesto non esisterà mai, ma chi ci impedisce di sognare. Se ognuno di noi prova a cambiare forse ce la faremo».
Rita sceglie di parlare seguendo l’esempio della giovane cognata Piera Aiello, moglie del fratello ucciso. «Quando comincia a collaborare con la giustizia – racconta ancora il magistrato – non pensa minimamente 'ora aiuto i giudici'. C’è solo rabbia. Era venuta per vendicarli. E come può una ragazzina di 17 anni vendicare la morte del padre e del fratello? Certamente non si poteva mettere a sparare per strada pur conoscendo tutti i mafiosi amici del padre. E allora collabora con la giustizia. Ma per lei la giustizia erano i carabinieri che venivano a casa la notte. Nei primi colloqui mi dice 'mio padre era un uomo straordinario perché ogni volta che rubavano le pecore, lui riusciva a farle restituire'. Io allora le faccio vedere i rapporti giudiziari e le dico, 'guarda che tuo padre rubava le pecore e si faceva pagare per restituirle: si chiama estorsione'. Per Rita tutto questo è stato un vero percorso analitico, ha rivisitato la sua vita, ha reinterpretato le figure del padre e del fratello. In un anno ha cambiato testa. Le si leggeva in faccia il suo stupore. Non so come ci immaginava. Forse tutti vecchi e burbera. Invece Paolo era tanto affettuoso, io e la collega Morena Plazzi eravamo due ragazze, gentili, normali. Così lei pensa 'e allora tutto quello in cui avevo creduto era sbagliato'. E si affida davvero in un modo personale a Borsellino. Morti il padre e il fratello, rifiutata dalla madre e dalla sorella, Paolo per lei era la salvezza. Era la figura maschile che le mancava».
E Borsellino la coccola, le fa regali, così anche la moglie Agnese. E Rita cambia anche nell’aspetto. «Quando partì dalla Sicilia aveva un vestitino con il pizzo, sembrava una donna dell’800, quando è tornata aveva una grande consapevolezza di sé». In fondo era «una ragazzina, ma dura, perché già la vita l’aveva traumatizzata. Mi diceva sempre: 'dottoressa lei certe volte non può capire perché è troppo una brava ragazza'. E questo mi faceva sorridere perché faceva un po’ la grande con me, mi trattava da ingenua. E un po’ aveva ragione. Le sue paure, le sue ansie io non potevo comprenderle. La paura di una che che ha avuto quella vita non è quella che abbiamo noi, è una paura profonda». E poi il rapporto con la madre. «Lei lo capiva che era qualcosa di terrificante però diceva 'mia madre è una donna che ha avuto grandi disgrazie. Io sono quella intelligente che deve andare verso di lei'. E si sorbiva delle minacce pesantissime. 'Ti farò fare la fine di tuo fratello', le diceva. Ma voleva che nei colloqui non la lasciassimo mai sola. Borsellino con la sua grande umanità cercava di trovare la quadratura del cerchio ma erano due mondi che non si potevano parlare».
Già perché la famiglia era ed è ancora convinta che la colpa delle scelte di Rita sia tutta di Borsellino e di Piera Aiello. «La madre – ricorda Camassa – denunciò Paolo per sottrazione di minore e fummo costretti a fare il procedimento al Tribunale dei minorenni per sospendere la patria potestà». E proprio la madre spezzò la lapide della tomba. Ora, dopo la sua morte quattro anni fa, la lapide è stata rimessa. Anzi due. Una di chi ha sostenuto la sua scelta, una della sorella. Fianco a fianco ma le parole e i pensieri restano diversi. Ma almeno il suo nome c’è. Nome e memoria.
Ma c’è un modo molto concreto per onorarne la memoria. Approvare rapidamente la proposta di legge sui testimoni di giustizia. Il testo è uscito dall’inchiesta della Commissione antimafia nel maggio-luglio 2014. Come ci ricorda il deputato del Pd, Davide Mattiello, coordinatore dell’inchiesta, la commissione approvò all’unanimità una relazione nell’ottobre 2014. Poi alla fine del 2015 la proposta di legge sottoscritta da tutti i gruppi politici in commissione. A marzo 2017 è stata votata dalla Camera sempre all’unanimità. «Io ero il relatore – ricorda ancora Mattiello –. Al Senato, dove lo è Giuseppe Lumia, è stata incardinata in commissione Giustizia poche settimane fa. La sfida è che non sia modificata e così diventi rapidamente legge. Spero non ci siano sorprese dopo tutta questa unanimità».Anche perché la proposta di legge è dedicata a Rita. Ed è importante perché definisce per la prima volta uno statuto autonomo dei testimoni di giustizia, rispetto ai collaboratori di giustizia. «Fino ad ora – spiega Mattiello – i testimoni sono stati trattati come una costola della normativa sui collaboratori, una scelta che genera confusione e nella confusione un certo mal trattamento». Invece, commenta la Camassa, «dobbiamo riconoscere il grande sacrificio dei testimoni. Il Paese dovrebbe tributare loro un ringraziamento continuo, perché è gente che cambia la sua esistenza, la propria vita, e per sempre». Proprio come Rita, la 'picciridda' di Borsellino.

  concluso   facendo mio  , poi  fate  come volete  ,L'appello lanciato dalle figlie di Paolo Borsellino  ( sempre  dal corriere  delal sera  )  ad abbandonare la retorica delle celebrazioni è lo stesso che ripete l'associazione nata per ricordare Rita Atria: «L'antimafia - spiegano gli organizzatori degli eventi celebrativi - non si esercita con la retorica istituzionale, con le commemorazioni una volta all’anno, con facili slogan, ma praticando la memoria attiva, denunciando, documentando, dando voce, sostegno e solidarietà concreta alle vittime, lottando ogni giorno per cambiare un sistema di valori che ha preso il sopravvento e che puzza di quel compromesso morale, di quella indifferenza, di quella contiguità e quindi della complicità di cui parlava Borsellino». «Il dubbio di Rita - aggiunge il regista Nevano - se può un mondo onesto possa esistere o sia solo in sogno è la domanda più attuale, mentre celebriamo la morte di Borsellino, e la più urgente. Sinceramente non so rispondere».

26.2.13

trattitiva con la mafia ante litteram un inedito di Leonardo sciascia sulla mafia SULLAMAFIA L’INEDITO DI SCIASCIA UN SAGGIO DIMENTICATO PER CAPIRE COSA PENSAVA DAVVERO LO SCRITTORE SU COSA NOSTRA

  fonte  il  venerdi  di repubblica  n 1301  del 22  febbraio  2013  

UN SAGGIO DIMENTICATO PER CAPIRE COSA PENSAVA DAVVERO LO SCRITTORE SU COSA NOSTRA.
RIEMERGE UN SAGGIO DEL 1972 NEL QUALE LO SCRITTORE DI RACALMUTO RACCONTAVA
I RAPPORTI TRA POTERI PUBBLICI E POTERI ILLEGALI. QUASI UNA PREISTORIA
DELLA FANTOMATICA «TRATTATIVA», OGGI AL CENTRO DI CRONACHE E POLEMICHE

PALERMO. La storia della mafia di Leonardo Sciascia  (  foto a  destra )  fu pubblicata nel 1972 nella mondadoriana rivista Storia illustrata.
Da allora era dispersa. Appena 35 pagine, che diventano 65 con l’intervista di Giancarlo Macaluso a Stefano Vilardo (amico di Sciascia dal ‘36) e un’analisi di Salvatore Ferlita. L’operazione di recupero la si deve alla casa editrice Barion, resuscitata dalla «pancia» della storica
Mursia. È un tesoro nascosto.Sciascia, anzitutto, scopre nel suo studio che la parola mafia già appare nel primo vocabolario siciliano di Traina (1868) come importata dal Piemonte, sulle ali della spedizione
dei Mille di Garibaldi. Tuttavia, spiega lo scrittore, per lo studioso di tradizioni popolari Giuseppe Pitrè era solo «una ipertrofia» dell’ego ribellista. Poi arriva Giuseppe Rizzotto. Nel 1862 scrive I mafiosi di la Vicaria (una prigione di Palermo) e la mafia diventa «associazione».
Ma, annota Sciascia, sarà un procuratore,Alessandro Mirabile, che nelle sue requisitorie parlerà di  setta».Sciascia, a questo punto, sottolinea:«Alcuni, anche in buona fede,credono che applicando la parola
alla cosa si tenda a creare un pregiudizio». È ingiusto,affermano costoro, che a Milano una banda di rapinatori sia una semplice banda, mentre in Sicilia diventa cosca («la cosca» ricorda «è la corona
di foglie del carciofo»).

Sciascia, su questo, è netto: «La parola mafia è stata applicata alla cosa, o la cosa  ha preso quel nome, in forza di una distinzione  qualitativa... questa distinzione già vien fuori nel 1838 da una relazione di
don Pietro Ulloa, allora procuratore generale a Trapani». E cosa scrive Ulloa nel 1838? Parla di «oscure fratellanze», «sette segrete che diconsi partiti», un popolo che le fiancheggia, magistrati  che le  proteggono. E «al centro di tale dissoluzione c’è una capitale col suo lusso e le sue pretensioni feudali in mezzo al secolo XIX». Commenta Sciascia:«Leggeremo mai, negli archivi della commissione parlamentare antimafia,una relazione acuta e spregiudicata come questa di don Pietro Ulloa?».
Sciascia sposa la tesi dello storico inglese Eric Hobsbawm: in Sicilia la «rivoluzione francese» l’ha fatta la mafia. Ifeudi passano di mano, dai baroni ai borghesi.
I contadini promossi campieri ne diventano l’esercito. E rilegge (altro punto importante) Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa in chiave «antimafia ». Il passaggio epocale, spiega, è chiaro nel personaggio di Calogero Sedara e nella famosa frase del principe di Salina: «Noi fummo i Gattopardi, i Leoni: chi ci sostituirà saranno le iene e gli sciacalli».Iene e sciacalli, per Sciascia, si annidarono tanto nella spedizione dei Mille quanto nella «neutralità» verso il fascismo.
Anzi, vista la presenza del prefetto Mori, inviato dal Duce in Sicilia a combattere la mafia, se ci fosse stata una Resistenza nell’Isola, «i boss sarebbero stati partigiani». Sempre iene e sciacalli si alleeranno con gli americani per favorirne lo sbarco in Sicilia, ancora loro faranno sparire nel ’70 il cronista dell’Ora Mauro De Mauro e uccideranno il procuratore Pietro Scaglione nel ’71. Non  mutano mai pelle, i picciotti di Cosa Nostra. Per farli vedere bene agli italiani, lo scrittore li paragona ai bravi dei Promessi Sposi di Manzoni. Infine, la famosa «equazione» di Sciascia su Cosa Nostra: «La mafia è una associazione per delinquere con fini di illecito arricchimento... che si pone come intermediazione parassitaria,con mezzi di violenza, tra proprietà e lavoro, produzione e consumo,cittadino e Stato».
Leonardo Sciascia, deputato nelle liste radicali tra il 1979 e il 1983, espresse diciannove volte il suo pensiero in Parlamento.
Tre volte parlò di mafia e utilizzò la sua Storia della mafia come base per i suoi interventi. Grazie ad Andrea Camilleri,che li ha riordinati di recente, sappiamo che nel primo intervento (20 febbraio 1980) disse che diciotto anni dopo le sue denunce «il fenomeno anziché diminuire» lo avevano visto crescere. Nel secondo (6 febbraio ’80) accusò i colleghi: «Tutti avete detto che la mafia insorge nel vuoto dello Stato. E invece insorge nel pieno dello Stato!».
Nel terzo (27 gennaio  ’83), dopo l’omicidio del giudice di Trapani Ciaccio Montalto, tuonò verso il ministro dell’Interno,Virginio Rognoni:«Lei parla della mafia come di un fatto fisiologico. Ritengo invece che bisogna guardarlo come un fatto patologico,e lei che è ministro dell’Interno deve guardarlo da medico internista».
Che voleva dire? Se cercate la malattia  mafia, dovete curare il cuore dello Stato. Il saggio di Leonardo Sciascia, che  salta fuori dal lontano 1972, riporta  nell’attualità quegli interventi in Parlamento. Il libretto  è importante per parecchi  motivi. Intanto, è l'unico  saggio «organico» sul tema  firmato dallo scrittore di Racalmuto.
Poi contiene per la  prima volta la sua celebre «equazione» sulla mafia, che lui non abiurò fino alla morte e che citerà apertamente nei suoi interventi parlamentari.
Non solo. Ne citerà anche altri passi, tra cui la relazione del procuratore di Trapani Pietro Ulloa del 1837, che lo  scrittore ritenne sempre attualissima: «Descriveva la mafia come l'abbiamo conosciuta
noi, ed era una mafia di procuratori del re, di segretari comunali e di preti», dirà nella solennità del Parlamento.
La sciasciana Storia della mafia ci restituisce un intellettuale per intero, lo  scrittore che «contraddisse e si contraddì », come ebbe a definirsi, non limitandosi a impiccarlo all’articolo sul Corriere della
Sera del 10 gennaio dell’87 contro «i professionisti dell’antimafia». In quell’intervento,
come noto, Sciascia criticò (senza nominarlo) il «protagonismo» del sindaco di Palermo (oggi rieletto) Leoluca Orlando, ma soprattutto sparò a zero contro la decisione del Csm di promuovere  Paolo  Borsellino procuratore di Marsala,in barba ai criteri di anzianità fin lì seguiti. Successivamente spiegò che,quando aveva redatto il suo intervento,non sapeva nulla di Borsellino, ma aveva criticato «l’assenza di regole» da parte del Csm, arma poi usata in senso inverso,per bocciare la candidatura di Giovanni Falcone. Soprattutto, Sciascia chiarì che aveva scritto sull’onda di eventi traumatici.
Il primo, pur rimasto sottotraccia, è il caso di Enzo Tortora, il presentatore tv arrestato nell’83 e coinvolto nel processone di Napoli contro la camorra.
Per inciso, Giovanni Falcone pensava che non avere stralciato la posizione di un personaggio così famoso da un processone contemporaneo al maxiprocesso di Palermo contro la mafia fosse «una trappola ben organizzata» a Napoli per scatenare «pretese di impunità» per i boss anche a Palermo. Il secondo trauma,dichiarato invece apertamente:il suicidio del segretario della Dc siciliana Rosario Nicoletti, rimasto un mistero.Quanto a Borsellino,dopo la
pubblicazione dell’articolo, i due si riappacificarono e, successivamente,rimasero in contatto. Il giudice si disse certo che qualcuno «che gli voleva male» aveva giocato il ruolo del suggeritore. Tuttavia non replicò mai allo scrittore. «Ho amato troppo i suoi romanzi sulla mafia, ci sono cresciuto». Ma di quell’articolo resta la carta e il piombo, per una volta solo tipoche avvolge una tragedia siciliana. Si ha un bel dire che Sciascia e Borsellino si chiarirono. Il giudice, nel suo ultimo intervento pubblico prima di sacrificarsi in via D’Amelio, disse che Falcone aveva cominciato a morire il giorno della pubblicazione dell’atto d’accusa di Sciascia. Il  che da solo dovrebbe bastare a spiegare gli «eroici furori» di chi ha utilizzato in questi anni Sciascia in esclusiva chiave  antimagistrati. Ma la vedova di Borsellino, Agnese, ha detto di recente che Sciascia «aveva  capito tutto vent’anni prima».La figlia dello scrittore, Anna Maria, ha sottolineato che il padre non voleva colpire Borsellino,ma che mal sopportava «una certa retorica dell’antimafia ». Disonesto sarebbe però anche affermare che l’articolo sarebbe
stato scritto «sotto dettatura». O che fosse incoerente. La faccenda, comunque la si giri, resta complicata. E tragica. La simbiosi. La metastasi. La peste.Resta il fatto che Sciascia vede incubare un’Italia futura «mafizzata», con quello «sguardo distaccato di un entomologo» che gli attribuisce, a ragione, l’amico Vilardo.
A 23 anni aveva assistito all’omicidio del sindaco di Racalmuto, Baldassare Tinebra. Poi aveva visto, a Caltanissetta,il popolo far ressa per baciare la  mano al boss don Calò Vizzini. Nel 1965  aveva intervistato Giuseppe Genco Russo,padrino di Mussomeli. E aveva studiato,«osservandolo» mentre si occupava del caso De Mauro, il capo della squadra Mobile, Boris Giuliano, ucciso nel luglio del’79. Freddo non per cuore duro,ma per «osservare» bene. Confidava all’amico Vilardo: «Quando la mafia si arricchisce,e ci vuol poco con la ricchezza che muove, sforna avvocati, medici, imprenditori,professionisti. Colletti bianchi. Cambia la forma del mafioso, ma la sostanza resta sempre quella».
L’entomologo Sciascia divenne, con timore,quasi un profeta. In Todo Modo descrisse la futura dissoluzione della Dc e il caso Moro. «Ho paura di dire cose che possono avvenire» spiegava. Di più. Nel’72, l’anno in cui scrisse La storia della mafia (aprile), a febbraio aveva licenziato Il contesto. Lo aveva tenuto fermo due anni.
Ne aveva paura. L’ispettore del romanzo, Americo Rogas,sembrerà a tutti Boris Giuliano,l’amico poliziotto ucciso. E la trama? Un complotto per occultare omicidi eccellenti,in nome della «ragion di Stato ». Dentro ci sono tutti, anche l’opposizione. Questo valse a Sciascia una raffica di sei articoli di critica sui giornali di area comunista (dall’Unità a Rinascita). Ma era ben peggio il vaticinio finale del suo ispettore: «Il potere in Sicilia, in Italia, nel mondo, sempre più degrada nella impenetrabile  forma di una concatenazione che approssimativamente  possiamo dire mafiosa ». Sembra che si parli delle inchieste sulla trattativa tra Stato e mafia. Leonardo Sciascia, nel 1986, ascoltò la  deposizione del pentito Tommaso Buscetta al maxiprocesso di Palermo. Ne  uscì sgomento. Ma poi, dopo la sentenza,scrisse: «Il verdetto cancella l’impressione di allora. Vi si intravede quell'osservanza del diritto, della legge, della Costituzione  che i fanatici vorrebbero far cadere in desuetudine».
Non capì la nuova Cosa Nostra. Non poteva sapere che il mostro che lui aveva avvistato tanti anni prima, quei picciotti sempre uguali, le iene e gli sciacalli di  ogni tempo, stavano tornando sotto forme nuove. Dopo la breve parentesi della  mafia corleonese di Totò Riina, che dichiarò guerra allo Stato, dalle sue ceneri sono risorte, all’ombra delle grandi corruzioni e di equilibri impenetrabili, le mafie invisibili, aristocrazie più simili a quelle dei primordi. Muovono un fatturato annuo (secondo lo studioso Francesco Barbagallo) di 70 miliardi di euro. E, dopo  il tramonto dei corleonesi, hanno ripreso a vivere all’ombra delle istituzioni.
                                              PIERO MELATI

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