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23.4.21

anche il gusto ha delle storie dietro .storie di varia umanità e del territorio ( parte 1 ) da i 40 anni della locanda di don Gallo a Le ragazze del caffè della Casa circondariale femminile di Pozzuoli

 lo so che  sono storie prese dalla rete  ma  è   grazie ala rete  che  esse  evitano d'essere dimenticate    e vengono salvate  dall'oblio  e fatte  conoscere  al grande  pubblico  . Ma  soprattutto  si    dimostra    che  noi italiani   abbiamo oltre  ( anche se  non  sempre  sappiamo valorizzarlo   e  lo svendiamo   alle multinazionali estere  o  peggio lo delocalizziamo  in paese   esteri  dove i costi sono maggiori   spacciandolo poi come originali  )   delle rochezze   che  vanno oltre  il classico stereotipo  :  pizza  , mandolino , spaghetti .
Da   essendo tante  quello che ho  scoperto  cazzeggiando in rete   ho  scelto  di  pubblicare   ben due   parti  d'esse  . Iniziamo  .

Le storie sono tratte da  https://www.gediwatch.it/ 

Umanità a tavola: i 40 anni della locanda di don Gallo A' Lanterna è stata la sua prima impresa sociale: ha ospitato a Genova premi Nobel e artisti, ma anche diseredati. Perché a pranzo, diceva don Andrea, tutti sono uguali



 Così è nata in Puglia la scogliera corallina Un tesoro di biodiversità si estende dalle Tremiti allo Ionio: i ricercatori di Bari hanno scoperto che è stato creato da coralli e ostriche, come nei mari tropicali
 
 Il paese dei pennarelli che vive di colori Settimo Torinese è il cuore di un distretto in cui trent’anni fa operavano 150 aziende. Dalle stilografiche alle penne a sfera, un mondo che non si arrende al digitale
 
 Condividere e non comprare: la biblioteca delle cose Tutto è nato dai vicini di casa che si prestavano qualche utensile. Ora hanno aperto due sedi a Palermo. Un’esperienza a metà tra welfare cittadino ed
ecologia

 

 ed  dalla newsletter   altre  storie di  Mario Calabresi < altrestorie@mariocalabresi.com >




Le ragazze del caffè
                                di Anna Dichiarante


«Il caffè era l’idea perfetta: legata alla tradizione partenopea, ma non banale». Imma Carpiniello riavvolge il nastro dei ricordi fino al 2010, quando decise di fondare la Cooperativa Lazzarelle e di cimentarsi nelle vesti di imprenditrice all’interno del carcere di Pozzuoli, uno dei quattro istituti penitenziari interamente femminili d’Italia: «Ho cominciato a frequentare la Casa circondariale tramite l’Osservatorio sulle condizioni di detenzione e ho potuto ascoltare le esperienze delle donne che ci vivevano. Ho notato quanto fossero deluse dalle opportunità limitate ed estemporanee di formazione o lavoro. Allora ho pensato di costruire qualcosa che fosse stabile e che non ricadesse nello stereotipo delle classiche occupazioni muliebri». Da quel giorno, i corsi di découpage cedettero il posto a una torrefazione. A cui, oggi, si affianca un bistrot nel centro storico di Napoli.



Le lavoratrici della Cooperativa Lazzarelle preparano le confezioni di caffè nella torrefazione che gestiscono all’interno della Casa circondariale femminile di Pozzuoli


Così, a Pozzuoli si applica il dettato della legge sull’ordinamento penitenziario. L’articolo 20 di quel testo stabilisce che il lavoro, fondamento della nostra Repubblica, debba essere favorito in ogni modo anche all’interno delle carceri. Anche qui dev’essere remunerato, non afflittivo e organizzato con gli stessi metodi adottati nella società libera. Princìpi che faticosamente vengono tradotti in pratica per circa un terzo della popolazione carceraria. Tra risorse insufficienti e ripercussioni del sovraffollamento, a incontrare maggiori difficoltà nel vedersi riconosciuto tale diritto sono le donne: una minoranza (poco più del 4% sul totale dei detenuti) di solito relegata in sezioni dentro agli istituti maschili e spesso destinata a raccogliere le briciole del trattamento. Predisporre appositamente per loro le diverse attività mirate alla rieducazione non sempre conviene.
Eppure, la rotta si può invertire. Imma l’ha dimostrato. E l’ha dimostrato la Cooperativa Alice con la “Sartoria San Vittore”, aperta nel 1992 nella sezione femminile dell’omonima Casa circondariale milanese. A questo laboratorio, dove si confeziona abbigliamento secondo i dettami della moda sostenibile, si sono aggiunti quelli nelle carceri di Bollate e Monza: oltre 450 donne hanno potuto formarsi, lavorare e intraprendere percorsi di reinserimento sociale; molte, dopo aver scontato la pena, hanno proseguito la riabilitazione nella sede esterna della cooperativa. Ma la loro peculiarità è la produzione di toghe per magistrati e avvocati. Le detenute cuciono il tessuto nero con i bordi in raso o in velluto, decorano i bavaglini con il pizzo, eseguono le plissettature a mano: ciascun punto dato con ago e filo rammenda lo strappo tra loro e il mondo della giustizia. Sono in migliaia a indossare le loro creazioni nelle aule di corti e tribunali.
A Venezia, invece, nella Casa di reclusione femminile della Giudecca dal 2001 nascono i cosmetici delle quattro linee a marchio “Rio Terà dei Pensieri” (dal nome della cooperativa che gestisce i laboratori). Sotto la supervisione di un responsabile tecnico, le detenute producono creme, shampoo, gel doccia, sapone e profumi che derivano da formule originali. L’offerta è ampia: dagli articoli naturali a quelli per bambini, fino ai set personalizzati per alberghi e bed&breakfast. Una parte delle materie prime, peraltro, arriva direttamente dall’orto curato da altre detenute nei seimila metri quadrati di terreno di cui l’istituto dispone. Quaranta varietà di ortaggi, frutta, fiori ed erbe aromatiche sono le eccellenze di agricoltura biologica che si trovano in vendita una volta alla settimana presso il banchetto allestito dalle stesse coltivatrici.


I sacchi con i chicchi di caffè pronti per essere lavorati nella torrefazione delle Lazzarelle


Poi c’è il modello Pozzuoli, appunto. «La torrefazione – racconta Imma – ha preso forma grazie agli spazi concessi in uso nel carcere dall’Amministrazione penitenziaria e grazie ai fondi regionali per startup con cui abbiamo acquistato i macchinari, allacciato le utenze e sostenuto il primo anno. Era un ambito inesplorato per tutte noi e ho chiesto aiuto a miei amici, mastri torrefattori napoletani. Ci hanno consigliato nella scelta dell’attrezzatura, ci hanno insegnato come distinguere i tipi di caffè e come miscelarli. Certo, all’inizio abbiamo combinato qualche guaio… Mentre scaricavamo i sacchi di caffè, persino gli agenti di polizia penitenziaria ci guardavano perplessi. Eravamo una novità, entravamo in un mercato dominato dagli uomini. Tant’è vero che il termine “torrefattrice” indica la macchina, non la persona. Ma noi siamo riuscite ad affinarci, a superare le diffidenze di fornitori e clienti, ad affermarci puntando su qualità e affidabilità».


La torrefazione delle Lazzarelle, nel carcere della cittadina alle porte di Napoli


Le Lazzarelle (adolescenti un po’ pazzerelle nel dialetto napoletano) sono cresciute. In un decennio, circa sessanta detenute si sono passate il testimone e hanno imparato il mestiere in torrefazione. Vengono impiegate in gruppi di tre o quattro, tutte sono assunte, seguite e guidate al momento della liberazione. «Molte di loro non hanno mai lavorato o l’hanno fatto senza un contratto – spiega Imma – quasi nessuna perde l’occasione di cambiare vita, se il carcere le fornisce gli strumenti adeguati. In generale, le statistiche mostrano che il 68% di chi non ha lavorato durante la detenzione riprende a delinquere; il tasso di recidiva, invece, scende a livelli marginali tra chi si è confrontato con una professione. E lo stipendio consente di provvedere alle spese di mantenimento. Altrimenti si esce dalla cella con lo stigma e con il debito verso il Ministero della Giustizia».


L’interno del bistrot che la Cooperativa Lazzarelle ha inaugurato nel luglio 2020 nella Galleria Principe di Napoli


La pandemia ha complicato le cose e ha provocato una contrazione della domanda di caffè. Adesso nella torrefazione è operativa una sola detenuta. Imma e le altre, però, non demordono. La scorsa estate si sono armate di coraggio e hanno inaugurato, a Napoli, il “Lazzarelle Bistrot”: «È la nostra vetrina, il luogo “fuori” dove la gente può darci un volto e dove le ragazze mettono in pratica le competenze acquisite “dentro”».
Le origini del progetto risalgono al 2015, quando la cooperativa partecipò a un bando per la rigenerazione urbana. Due anni più tardi, le fu assegnato un locale all’ingresso della Galleria Principe di Napoli: il più antico corridoio commerciale del capoluogo campano, costruito nella seconda metà dell’Ottocento, si trova di fronte al Museo archeologico nazionale e all’Accademia di Belle Arti, ma anche vicino al Conservatorio di San Pietro a Majella, al Teatro Bellini e ad alcuni dipartimenti universitari. Uno scorcio di città dall’aria parigina, adatto per il bistrot. Così, dopo aver atteso che fosse smontata l’impalcatura per il restauro di una facciata della Galleria e dopo aver incassato la promessa di finanziamento da parte delle Fondazioni Charlemagne e San Zeno, nel futuro bar delle Lazzarelle partì la ristrutturazione.
Dopo poche settimane, però, un timpano della Galleria si sgretolò. Calcinacci, imbragatura, accertamenti. Tutta la struttura fu chiusa per il pericolo di ulteriori crolli e soltanto nel giugno del 2019, con la stesura delle reti anti-caduta, fu riaperta. «Eravamo bloccate – riprende Imma – non c’erano informazioni su come si sarebbe evoluta la situazione e l’incertezza spinse una delle fondazioni a investire altrove il denaro stanziato per noi. Fortunatamente, riemerse dallo stallo, abbiamo via via recuperato anche il finanziamento». Nonostante gli ostacoli, nel febbraio 2020 il “Lazzarelle Bistrot” era pronto a servire le prime tazzine di espresso. Ma il virus si avvicinava e Imma aveva intuito che era meglio non esagerare con le scorte in dispensa. Il Paese era sull’orlo della quarantena.


L’esterno del “Lazzarelle Bistrot”, nella Galleria Principe di Napoli, in uno dei giorni di lockdown


«L’attività era congelata, ma l’affitto andava pagato – ammette la fondatrice della cooperativa – non potendo più rimandare, a luglio ci siamo buttate e abbiamo tagliato il nastro! Pur nell’alternanza dei periodi di lockdown, siamo riuscite a restare aperte ricorrendo ad asporto e consegne a domicilio o funzionando come bottega. Solo da marzo ci siamo fermate, perché i costi sarebbero stati eccessivi. Il bilancio complessivo, comunque, è soddisfacente». Imma vuole essere ottimista, soprattutto per le detenute che lavoreranno nel bistrot: «A pieno regime saranno quattro. Finora abbiamo potuto impiegarne una, Teresa, che è stata in torrefazione e ha ottenuto il beneficio del lavoro all’esterno. A fine pena si conclude anche il rapporto con noi, è la regola per garantire l’avvicendarsi delle ragazze e per lasciare che quelle tornate libere conquistino la loro autonomia. In carcere si smarriscono l’indipendenza e la consapevolezza delle proprie abilità».


I tavolini del “Lazzarelle Bistrot” affollati nel periodo di apertura estiva


A confortare Imma è la risposta positiva del pubblico. Innanzitutto, della rete sociale che nel tempo le Lazzarelle hanno intessuto da Nord a Sud e che ha assicurato continuità sia nelle vendite di caffè sia nel rifornimento. «Acquistiamo i chicchi da importatori che rispettano i diritti dei contadini e il nostro marchio viene scelto da numerose realtà del mondo equo e solidale. Poi c’è il circuito carcerario, dove compriamo le specialità per il bistrot: dai biscotti sfornati dai minorenni del “Malaspina” di Palermo ai taralli prodotti nel reparto maschile ad alta sicurezza di Trani. Naturalmente l’aspetto etico si accompagna alla qualità. Anche se scoprono il nostro locale per curiosità o per caso, i clienti devono affezionarsi perché ciò che offriamo è buono. È il motivo per cui ho coinvolto nella squadra la chef Marcella Tagliaferri».


Da sinistra: Marcella Tagliaferri, chef del “Lazzarelle Bistrot”, Imma Carpiniello, fondatrice della Cooperativa Lazzarelle, e Teresa, lavoratrice della torrefazione poi passata al bistrot


Il bistrot, quindi, è stato immaginato come un trampolino di lancio per la rinascita delle detenute. «Per certi versi, il loro destino è parallelo a quello della Galleria – dice Imma – questo angolo di Napoli è stato a lungo abbandonato nel degrado, mentre se ne dovrebbero sfruttare le potenzialità. In effetti, qualcosa sta cambiando: si sono tenute delle mostre all’aperto, ci sono negozi nuovi ed è bello vedere il viavai di persone. Prima i cancelli venivano sbarrati alle 20, da quando c’è il bistrot chiudono più tardi. Purtroppo mi preoccupa la battuta d’arresto subita dal turismo a causa della pandemia. E non solo per il nostro giro d’affari. La maggioranza delle ex detenute aveva trovato lavoro nella ristorazione o nella filiera ricettiva, ma parecchie l’hanno perso nell’ultimo anno».

(Foto @ros_enbata)



22.4.21

Ortueri, tra vitigni e graniti nel borgo che non si arrende allo spopolamento



leggi anche   sempre  di repubblica  


Al centro della Sardegna, nella Barbagia del Mandrolisai, si trova  Ortueri   paese (  unico  dei pochissimi  che  ancora   le mantengono )   con case di pietra e tradizione artigiana di una comunità che si rinnova con un'amministrazione giovane. Sugherete, asinelli e retaggio romano

da  repubblica   del 22\4\2021  per i video   e il resto della  galleria  fotografica lo trovate in qui  
Tra i vigneti e le foreste di sughero e lecci del Mandrolisai, sorge l’antico borgo medievale di Ortueri. Il paese, rinomato in tutta l’isola come la capitale degli estrattori di sughero, preserva con cura i saperi e il saper fare del passato contadino. Tuttora, presenta un ricco tessuto di attività agricole, zootecniche, vitivinicole, enogastronomiche e artigianali.



ORTUERI (Nuoro) - Qui l’azzurro non è quello del mare. La macchia di blu che si attraversa per arrivare a Ortueri, lasciata la strada statale 131 verso Abbasanta, è il fiume Tirso, il più importante della Sardegna. Ha piovuto tanto nei mesi scorsi, come non succedeva da anni, e il fiume è grosso, la strada che, passato Ula Tirso, si inerpica sulle colline della Barbagia del Mandrolisai si snoda in mezzo a un’esplosione di profumi e colori. La ginestra è già fiorita, il pero selvatico chiazza di bianco la campagna dove si intravvedono le vigne basse che fanno la fortuna di questa zona. Il panorama già vale il viaggio.
In questo giorno luminoso di zona arancione, sembra di entrare in un paese disabitato: il parcheggio semivuoto vicino al comune esibisce con orgoglio una grande fotografia con le maschere tipiche del carnevale, Is Sonaggiaos e S’Urzu, con campanacci e pelli di montone che richiamano le tradizioni agropastorali del borgo. Sonaggiaos e Urzu qui non si lanciano nelle loro forsennate scorribande soltanto a carnevale (a proposito, un carnevale in Barbagia è un’esperienza indimenticabile) ma anche durante la festa di Sant’Antonio Abate, nella notte tra il 16 e il 17 gennaio, una delle ricorrenze più sentite del paese.
Sa limba de mesanias
Un vicolo stretto tra case di pietra porta al Comune. Per via del Covid la segretaria si affaccia alla finestra bassa per parlare con una signora, il loro botta e risposta è in limba, la lingua sarda, nella variante conosciuta come limba de mesania, cioè “lingua di mezzo”. Maurizio Virdis, docente di linguistica sarda all’università di Cagliari, spiega che nel 2000 si era individuata nella limba de mesania la varietà che potesse rappresentare l’intera Sardegna, poiché ha caratteristiche sia del Sud, sia del Nord dell'isola (Ortueri è una sorta di “ombelico sardo”) e che “La lingua della Carta de Logu, la raccolta di leggi promulgata da Eleonora di Arborea nel 1392, si avvicina a questa variante”. “Oggi - dice ancora il professor Virdis – i parlanti sardo sono sempre meno e c’è una fortissima italianizzazione del lessico:  

tuttavia, se all’inizio della carriera chiedevo ai miei studenti se sapevano parlare il sardo, e in genere erano in grado, si risentivano un po’. Adesso, se lo chiedo la risposta è ‘Purtroppo no’
L'artigianato che diventa azienda
L’aneddoto di Virdis guida a capire la chiave per scoprire il meglio di Ortueri, cioè una radicata appartenenza al territorio, tipica del centro Sardegna, sfruttata con vivacità imprenditoriale. Con fatica, certo: dal 2000 al 2020 il paese ha perso il 25% dei suoi abitanti per invecchiamento o emigrazione, ma a governare i 1074 rimasti, dopo alcuni anni di commissariamento del Comune, ora c’è un sindaco, Francesco Carta, la cui lista Animu Ortueri ha un’età media di 33 anni. La vivacità del borgo la si scopre nella zona artigianale, dove i fratelli Crobu hanno trasformato l’arte di fabbro e ferratore di buoi, asini e cavalli del padre in un’azienda di infissi con 20 dipendenti, showroom a Oristano e Olbia e commesse ovunque. Mostrano uno dei loro lavori, un cancello in ferro con motivi ornamentali




Ortueri, le immagini del borgo, del suo territorio e delle sue tradizioni































Foto di Pierluigi Dessì


grande bellezza, e dicono con orgoglio di lavorare tutto lì, nel capannone, riuscendo a mantenere prezzi competitivi anche se la loro filiera è tutta italiana.
Case di pietra e progetti per il futuro
I graniti, appunto. La bellezza del paese è in questa pietra e nei basalti con cui si costruiscono le case basse, con cortili interni. Qui veniva anche il grande scultore Pinuccio Sciola per farsi intagliare i graniti da scolpire, e la punta di Pedrarba, su cui svetta Sa conca ‘e s’Isteddu, è lì a ricordare quanto è antica questa terra, quanto è vicino, in questa giornata limpida, il massiccio del Gennargentu, con Punta Lamarmora, la vetta più alta della Sardegna, che si scorge all’orizzonte. Sul paese si staglia invece il campanile della chiesa parrocchiale di San Nicolò, di cui dicono con orgoglio: “Con i suoi 38 metri è il secondo più alto della Sardegna, superato soltanto da quello di Mores, alto 47 metri”. Delle origini medievali del borgo resta poco, così come non ci sono significativi resti di epoca nuragica, ma sono molte le testimonianze di una stabile presenza romana. A tre chilometri dall’abitato la necropoli di Pedra Litterada, dove fu ritrovata anche una pietra con dedica agli dei Mani, è emblematica di quanto avvenuto in molti siti romani della Sardegna, saccheggiati per recuperare materiale da costruzione.E infine, la bellezza di questo, come di tanti altri borghi sardi, sta nella sua gente. Non è necessario aspettare le manifestazioni come Cortes apertas tra settembre e ottobre, o Autunno in Barbagia, qui le persone, anche se ti hanno appena conosciuto, ti invitano in casa e ti fanno assaggiare gli asparagi selvatici appena colti e s’ortau, una variante del salsiccione da cuocere, aromatica e profumatissima, mettono in tavola il pane fatto in casa a forma di mezzaluna dicendo con orgoglio che il lievito madre era della nonna e ha più di cento anni di vita. La bellezza sta nella passione con cui i ragazzi dell’amministrazione raccontano che sono tornati dagli studi universitari “in continente” per prendersi cura del borgo e mostrano con orgoglio, all’interno del parco dell’asino sardo di Mui Muscas, le strutture per le quali hanno progetti turistici sostenibili.  E quel “noi”, con cui parlano dei loro progetti, risuona dell’antica cultura comunitaria dei pascoli sardi e di una nuova consapevolezza della ricchezza della loro terra. 


10.4.21

Carolina, pastora a 28 anni: “Ma non chiamatemi Heidi”

mentre  terminavo     il  post  << uomini  e  donne   che  mandano avanti   l'italia  e  resistono tra  burocrazia  e  cattiva  politica  e  alle mafie   >> mi è  ritornata  alla mente     questa storia

A 28 anni Carolina Leonardi, una laurea all'Università di Pisa, gestisce l’azienda agricola e agrituristica “Le Coppelle latteria Belato Nero” di Pian di Lago (Lucca), alle pendici del monte Corchia, a 1000 metri sul livello del mare. Qui produce latticini, alleva bovini della razza Rendena allo stato brado e vive insieme ai 100 capi di ovini. I primi tre anni, ricorda la pastora, dividendosi tra pascolo e università, sono durissimi: "La mattina mi svegliavo alle 5 e mungevo. Alle 8 andavo fino a Pisa all’università, tornavo all’una e andavo al pascolo; alle 17 una nuova mungitura e dalle 21 in poi facevo il formaggio. E la mattina dopo si ricominciava. È stato faticoso, ma non ho mai avuto tentennamenti".


  una  delle  tante  di  giovani  che  ritornano   agli antichi mestieri dei nostri nonni e   bisnonni     , trovate   sotto  le  altre 

da  repubblica     09 APRILE 2021

                  di Valentina Venturi  

"Ho imparato da sola a tosare le pecore, ma non chiamatemi Heidi"
Carolina Leonardi, 28 anni, pastora della Maremma: "Se si continua a far passare l’idea che questo lavoro sia faticoso e che toglie tempo per il resto nessuno porterà avanti le nostre tradizioni, l’artigianalità e i prodotti del territorio. Invece si può fare tutto, bisogna solo sapersi organizzare"



Ventotto anni, due pastori apuani e cento pecore da gestire. Non è la trama di un romanzo, ma la quotidianità di Carolina Leonardi, pastora della Maremma. Tutto nasce cinque anni fa, quando frequenta il corso di laurea in Scienze agricole a Pisa e d’istinto acquista un gregge di 40 pecore di razza massese autoctona della Garfagnana. Quello che all’inizio poteva risultare un azzardo, diventa la sua vita: il pascolo si moltiplica raggiungendo quota cento e facendole ricevere nel 2021 il riconoscimento come esempio di coraggio da Coldiretti in occasione della Giornata internazionale della donna.
A 28 anni Carolina Leonardi, una laurea all'Università di Pisa, gestisce l’azienda agricola e agrituristica “Le Coppelle latteria Belato Nero” di Pian di Lago (Lucca), alle pendici del monte Corchia, a 1000 metri sul livello del mare. Qui produce latticini, alleva bovini della razza Rendena allo s
tato brado e vive insieme ai 100 capi di ovini. I primi tre anni, ricorda la pastora, dividendosi tra pascolo e università, sono durissimi: "La mattina mi svegliavo alle 5 e mungevo. Alle 8 andavo fino a Pisa all’università, tornavo all’una e andavo al pascolo; alle 17 una nuova mungitura e dalle 21 in poi facevo il formaggio. E la mattina dopo si ricominciava. È stato faticoso, ma non ho mai avuto tentennamenti". I primi tre anni, ricorda la pastora, dividendosi tra pascolo e università, sono durissimi: "La mattina mi svegliavo alle 5 e mungevo. Alle 8 andavo fino a Pisa all’Università, tornavo all’una e andavo al pascolo; alle 17 una nuova mungitura e dalle 21 in poi facevo il formaggio. E la mattina dopo si ricominciava. È stato faticoso, ma non ho mai avuto tentennamenti. Sono molto, ma molto determinata e dove voglio arrivare, arrivo!". L’ha certamente sovraccaricata di impegni, ma quello universitario – con tesi sui formaggi –, è stato un passaggio utile; magari non indispensabile. "Per fare questo lavoro non serve una laurea. L’Università mi dava la consapevolezza per capire come lavorare e nello stesso tempo il lavoro mi dava lo stimolo per continuare a studiare e comprendere come procedere".
La determinazione non le manca, tanto che apre anche l’azienda agricola e agrituristica “Le Coppelle latteria Belato Nero” di Pian di Lago (Lucca), alle pendici del monte Corchia, a 1000 metri sul livello del mare. Qui produce latticini, alleva bovini della razza Rendena allo stato brado e vive insieme ai 100 capi di ovini e al compagno Simone ("Ci siamo conosciuti tredici anni fa, lavora come potatore alto fusto e free climbing").
Con l’arrivo dell’inverno i suoi animali si spostano nella stalla di Pietra Santa ("La mattina scendo a valle e resto giù tutto il giorno con loro"). Un dislocamento inevitabile che ha riportato in auge la transumanza, Patrimonio Immateriale dell’Umanità dal 2019. Si tratta della tradizionale migrazione stagionale del bestiame dai pascoli di pianura a quelli delle regioni montuose e viceversa. "In questo modo le stalle sono collegate e io recupero l’antica tradizione. Il trasferimento si svolge rigorosamente a piedi per dieci ore di cammino ed è una giornata di festa alla quale partecipano tantissime famiglie, ragazzi e bambini. Si parte dalla stalla di valle per arrivare alla stalla di quota e nell’intermezzo si fa un piccolo ristoro in montagna".
Oltre ai latticini c’è da pensare anche alla lana ("Ho imparato a tosare da sola, non ho paura di fare nulla"), che quest’anno ha deciso di donare a un’azienda pugliese che produce abiti di lana di pecora. Ed è proprio grazie al prezioso manto che Carolina ha preso parte all’evento organizzato dalla Onlus Gomitolorosa, un’associazione no profit con presidente Alberto Costa, che dal 2012 propone il recupero della lana autoctona italiana di scarto a scopo terapeutico e solidale. Gomitolorosa in collaborazione con Agenzia Lane d’Italia e Legambiente, ha identificato la prima Giornata italiana della lana con il 9 aprile, quale inizio rappresentativo del periodo della tosatura.
Eppure, nonostante tutto il cammino percorso, la pastora si schernisce, non si sente l’eccellenza della pastorizia: "Sono una ragazza normalissima, equilibrata, con amici, un compagno e una vita sociale". E sottolinea con convinzione i suoi punti fermi, le radici della sua scelta: "Da amante della natura, in qualsiasi sua forma, sia del mare che della montagna, ho sentito il desiderio di aprire la mia azienda e di creare un prodotto che provenisse dal territorio. Certo, se mi guardo indietro mi domando come ho fatto a percorrere tutti questi anni, perché all’inizio lavoravo e studiavo. In effetti sono sempre stata un po’ avventuriera e un po’ fuori dagli schemi".
Se le si domanda di riflettere sulla strada percorsa finora non ha tentennamenti, ma è difficile farle immaginare cosa le riservi il futuro, fondamentale è il presente. "Ho avuto la fortuna di fare ciò che mi piace e che mi rende libera. Ogni giorno mi sento e reputo fortunata: ho tribolato tantissimo, ho faticato tanto e ora sono in pace con me stessa. Sono felice".
Carolina esce dai cliché iconografici: ci tiene ad essere considerata una ragazza come tante ("pratico surf, mi piace mangiare la pizza e quando posso vado a fare l’aperitivo"), guai a paragonarla al cartone animato Heidi ("fisicamente magari ci assomiglio pure ma materialmente non lo so. Io svolgo la mia vita normalissima, non come lei"), quando va al pascolo non ha un fischio identificativo e si fa aiutare dai due adorati pastori apuani Mirtillo e Pepe. Fiocco di neve? Non esiste: delle sue pecore ha dato il nome solo alla capobranco, Anna, la prima agnellina che le è nata cinque anni fa. "Se si continua a far passare l’idea che questo lavoro sia faticoso e che toglie tempo per il resto nessuno porterà avanti le nostre tradizioni, l’artigianalità e i prodotti del territorio. Invece si può fare tutto, bisogna solo sapersi organizzare".


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8 MARZO

"Io, pastora delle Murge, amo il gregge e a farmi paura non sono i lupi ma la burocrazia"

15.2.14

IL BIBLIOMOTOCARRO DI ANTONIO LA CAVA



nonostante   sia no lontani anni luce   con   quanto  dice  il mio compaesano  Danilo Atzori La politica si opporrà... il miglior modo per governare e far subire il popolo è tenerlo ignorante... strano che ancora ci sia dopo oltre due anni...


Siamo nel periodo dell’anno che, ormai, anche mia nonna Tita (nata, appunto, il giorno del varo del Titanic) chiama back-to-school. Un irrinunciabile appuntamento della grande tradizione italiana come Halloween, i muffin o l’happy hour. Così -al rientro dalle ferie- con del blando esplosivo, libero la mia buca delle lettere dai quintali di giornalini degli ipermercati, nei quali innocenti prezzi di listino sono mutilati dal machete di un nemico impietoso: lo sconto. Corro all’ ipermercato, entro, mi piego in due per un leggerissimo crampo allo stomaco (me lo fa, a passare da +41° a -2°) e inizio. Compro zaini con ruote,  per  trasportare il necessario: libri, quaderni, carta igienica e presto – dato il livello di finanziamenti alla scuola – banco e sedia. Compro 60 pilots friction laser ultimate edition: cioè penne, una parte che scrive e una che cancella, che gli scolari usano come spuntino (a giudicare dalla velocità con la quale finiscono).  Compro 16,2 kg di libri, sui quali c’è scritto che l’Amazzonia è in pericolo e che se io –piccola egoista!- non riciclo lo scontrino, ho la responsabilità della catastrofe globale.Compro tutto quello che è nella lista, lunga quanto la  Torah.  Il fatto che io non abbia figli è ininfluente. Una Moglie Modello non si tira mai indietro  e volentieri sostituisco amiche e conoscenti, che possono così  concedersi uno smalto alle unghie, un libro, un idraulico. Tra quaderni e astucci di supereroi, mi sento anch’io un’eroina.Anche se mai come Antonio La Cava. Un distinto signore che gira le piazze della Basilicata su un’Ape con finestre, tetto e comignolo. Al suo arrivo, i bambini lo aspettano felici.  Ma Antonio La Cava non distribuisce gelati o nachos.  È un maestro in pensione e distribuisce libri. L’Ape è un Bibliomotocarro, con a bordo 700 libri.  I ragazzi li prendono in prestito e si mettono su un gradino a sfogliarli. Non solo. Possono anche contribuire con impressioni e storie a un libro aperto che altri bambini completeranno.  Tutto gratis, tutto per abituare i ragazzi alla lettura.E come finisce la favola? Non finisce. Se tra quei bambini uno scriverà meglio di altri o s’innamorerà della fisica o si metterà in testa che deve fermare lo scioglimento dei Poli, la favola è appena iniziata.  E Antonio avrà proseguito la missione degli insegnanti: plasmare futuri.

emergenza femminicidi non basta una legge che aumenti le pene ma serve una campaga educativa altrimenti è come svuotare il mare con un secchiello

Apro l'email  e tovo  queste  "lettere "   di  alcuni haters  \odiatori  ,  tralasciando  gli  insulti  e le  solite  litanie ...