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27.6.25

Trend Fashion Tatreez, il ricamo tradizionale che custodisce la storia della Palestina: quando la resistenza passa da ago e filo. Dalle sue radici ai collezionismo

Ieri  ad  Aggius   come annunciato nel post precedente ho partecipato  a Frequenze per G4z4    e  ho visto   questi due film : 
The Embroiderers \Le ricamatrici di Maeve Brennan  e Gaza Fights For Freedom" di Abby Martin .  Mi ha colpito molto il primo film / corto metraggio di cui trovate  sotto  due video con i sottotitoli   in inglese  e   con  sottotitoli   in italiano .
 Prima  di lasciarvi ai video e  agli articoli    che ho trovato in rete per approfondire le mie curiosita sull'argomento vorrei  dire  alcune   cose  .
 Non sapevo  o  quanto meno non  immaginavo  che    anche   ago e  filo     fossero un potente strumento di resistenza culturale insieme a un'antichissima tecnica di ricamo - mantiene viva la memoria e l'identità palestinese, oltre la distruzione e la diaspora, e ci consegna un messaggio importante. Nonostante  stia  come  sembra  testimoniare  il secondo articolo  diventando moda  . Ma   nonostante  tutto   esso  è  «  [....] Rinomato per la sua complessità, il tatreez è l’arte di ricamare a mano motivi a punto croce con fili dai colori vivaci sugli abiti. Molto diffuso nella società palestinese, esprime un patrimonio di conoscenze e abilità che si caratterizzano come una «pratica sociale e intergenerazionale», spiega l’Unesco, che il 15 dicembre scorso ha incluso l’arte del ricamo palestinese nel Patrimonio culturale immateriale dell’umanità. Con tale riconoscimento l’Unesco cerca di dare maggiore visibilità e di tutelare i vari elementi del patrimonio culturale del genere umano che possono essere minacciati.
Simbolo dei legami familiari
Tradizionalmente le donne palestinesi si riuniscono nelle case dell’una o dell’altra per ricamare e cucire insieme, spesso accompagnate dalle figlie. Questa abilità manuale (ma non solo), che simboleggia i legami familiari, si trasmette essenzialmente di generazione in generazione. Oggigiorno le donne possono anche incontrarsi nei centri sociali, dove hanno anche modo di commercializzare i loro lavori. [...]   da : Il ricamo palestinese è patrimonio dell’Umanità   di Terrasanta.net ».  

Ma  ora  bado alle  ciancie  a  voi   i video   e  gi articoli   in questione   buona   visione   e lettura 



 Per chi non mastica bene l'inglese ecco la versione con sottotitoli in italiano



insieme a un'antichissima tecnica di ricamo - mantiene viva la memoria e l'identità palestinese, oltre la distruzione e la diaspora, e ci consegna un messaggio importante. Nonostante   stia  come  sembra  testimonia  il secondo articolo  diventando moda  .


Di Maha Abu Shusheh THIS WEEK IN PALESTINE 

All’inizio, il ricamo sugli indumenti veniva utilizzato per adornare gli abiti dell’élite dominante e delle figure religiose di alto rango e incorporava metalli come l’oro e l’argento nella seta e in altri tessuti per imprimere e abbellire gli indumenti. Con il tempo, il ricamo si è diffuso nei villaggi grazie alle religiose che hanno formato ragazze economicamente svantaggiate nel ricamo per creare abiti per figure religiose. Successivamente, le ragazze trasferirono queste pratiche nei loro villaggi. Questa transizione ha permesso più libertà alla forma d’arte di fiorire, diventando in seguito una pratica popolare che era distinguibile in base alla cultura, alla comprensione della natura e alle credenze di ogni villaggio. Il ricamo è diventato una pratica continua e sostenibile che collega gli abitanti del villaggio con l’eredità, le pratiche, le storie trovate sui simboli e motivi dell’epoca. Le donne palestinesi dei villaggi e delle comunità beduine hanno portato avanti questa tradizione, sviluppandola ulteriormente e permettendole di evolversi nel corso degli anni, utilizzando tessuti di seta, lino e cotone per creare i loro capi. Queste donne erano generalmente note per indossare una vasta gamma di indumenti, da abiti pesantemente ricamati (indossati ai matrimoni e in occasioni speciali) agli abiti di tutti i giorni leggermente ricamati. Tutti sono stati decorati con una miriade di tecniche di ricamo, in particolare il punto croce e il rivestimento di Betlemme.      Questi punti si sono uniti in uno spettro di colori vivace e ampio che sono stati combinati con tecniche altamente qualificate per creare capolavori colorati in diversi tagli, riflettendo la bellezza e la modestia del villaggio e delle sue donne.

La parte posteriore di un abito di Al-Ramleh che condivide elementi con gli abiti dei villaggi di Yibna, Bashit e Al-Basheer, spopolati nel 1948.               I primi campioni di abiti palestinesi ricamati risalgono al diciannovesimo secolo. Prima di allora, abbiamo solo una descrizione di questi pezzi basata sulle osservazioni dei viaggiatori. Solo pochi orientalisti e viaggiatori avevano descritto l’abbigliamento palestinese in relazione al loro interesse religioso per la Terra Santa, dove il loro disprezzo e disdegno per la popolazione locale era evidente attraverso la loro descrizione della popolazione locale “primitiva”.
Gli indumenti ricamati palestinesi sono conservati nelle collezioni di John Whiting, la Church Missionary Society (CMS), Rolla Foley, Dar Al-Tifl Al-Arabi, Widad Kawar, il Museo di Israele e il Museo della cultura beduina.

Missionari, orientalisti e viaggiatori acquistavano ricami per interessi religiosi oltre che economici. Per alcuni la priorità era collezionare ricami, per altri vendere gli articoli in Europa e negli Stati Uniti per sponsorizzare i loro progetti in Palestina. Questi pezzi ricamati sono entrati a far parte delle collezioni di individui o chiese e alla fine sono finiti nelle collezioni dei musei etnografici nel ventesimo secolo, formando la base delle collezioni museali di abiti tradizionali palestinesi.

The John Whiting Collection: in qualità di manager del negozio American Colony nella Città Vecchia di Gerusalemme, John Whiting parlava correntemente l’arabo e conosceva bene le tradizioni locali. Era anche molto appassionato di acquistare abiti tradizionali palestinesi dai vari villaggi che ha visitato. La sua collezione comprendeva alcuni pezzi che risalgono al 1840 Quando John Whiting morì negli Stati Uniti nel 1951, la sua collezione fu inizialmente passata a sua moglie e in seguito finì al Museum of International Folk Art di Santa Fe. La sua collezione di 26 pezzi è diventata il fulcro della collezione del museo di abiti tradizionali palestinesi, che è stata successivamente integrata dal sostegno di Widad Kawar che è stato in grado di colmare le lacune nella Collezione Whiting.

Il pannello posteriore di un abito di Ni’lin, un villaggio a ovest di Ramallah.

Collezione della Church Missionary Society (CMS): Sheila Weir ha collaborato con il British Museum nella selezione di una collezione di abiti tradizionali palestinesi dalla Collezione CMS che era stata portata dalla Palestina. Tra il 1967 e il 1968, Weir ha condotto un’indagine attraverso la Palestina storica per documentare la Collezione CMS, per apprendere il vocabolario del ricamo e i nomi di elementi, motivi e punti e per identificare le caratteristiche distintive dei pezzi in base al loro luogo di origine .ra il 1969 e il 1970, Sheila Weir ha ampliato la sua indagine per includere la Giordania e i campi profughi palestinesi e ha acquisito un gran numero di pezzi che le donne nei campi profughi avevano conservato dopo la Nakba e la Naksa . Weir ha anche acquisito telai da Al-Majdal da aggiungere alla collezione etnografica in espansione del British Museum. A ciò è seguita l’istituzione del Museum of Mankind a Londra che ha avviato le sue attività con una mostra sulla tessitura in Palestina e sugli abiti tradizionali palestinesi.

La manica di un abito di Ramallah che è eccezionale perché è stata ricamata con un rivestimento in stile Betlemme.

The Rolla Foley Collection: Rolla Foley è stato un insegnante di musica americano che dal 1938 al 1946 ha lavorato presso la Friends School di Ramallah, dove è stato responsabile del programma musicale in Palestina, Libano, Giordania orientale e Siria. Ha pubblicato diversi libri sulla musica in inglese, francese, arabo e armeno e ha fondato un festival di musica folcloristica che comprendeva il suo interesse per la produzione culturale e artistica locale, in particolare il ricamo. Durante il suo soggiorno in Palestina, Foley collezionò ricami palestinesi, dipinti e ceramiche prima di tornare negli Stati Uniti nel 1946.
Foley tornò in Palestina nel 1952 per completare la sua ricerca di dottorato sulla musica folcloristica palestinese, dove si trovò di fronte al fatto che i suoi amici di Yafa erano diventati rifugiati a Ramallah dopo la Nakba.. Avevano perso le loro case e la maggior parte dei loro beni. Foley ha riconosciuto che a causa degli sfollamenti forzati, il ricamo palestinese era minacciato di cancellazione, quindi ha avviato una collezione diversificata che includeva abiti, giacche e cuscini ricamati. All’inizio degli anni ’60 fondò anche un piccolo museo a Oakland, Illinois, ma a causa della sua prematura scomparsa nel 1970 il museo fu chiuso. La sua collezione passò ad Hanan e Farah Munayer, con una descrizione dettagliata di ogni pezzo, inclusa la storia del pezzo stesso, la data di acquisizione, il nome del proprietario e il villaggio da cui aveva avuto origine. Questa accurata documentazione ha permesso di tramandare questo patrimonio alle generazioni future e ha fornito preziose informazioni sui pezzi della collezione.
All’inizio degli anni ’30, i collezionisti palestinesi iniziarono a creare le proprie collezioni di ricami nel tentativo di preservare questo patrimonio e garantirne la continuità per le generazioni future. È importante menzionare qui due raccolte principali.
Collezione Dar Al-Tifl Al-Arabi: Hind Al-Husseini iniziò a collezionare abiti palestinesi come parte della Collezione Dar Al-Tifl Al-Arabi negli anni ’30, per poi ampliare la collezione dopo la Nakba del 1948 . La sua risposta è derivata dalla sua convinzione nell’importanza di salvaguardare il patrimonio palestinese dall’essere spazzato via di fronte all’occupazione. Questo è stato in aggiunta al suo lavoro filantropico, dove ha fornito alloggi ai bambini rifugiati nella sua fondazione, Dar Al-Tifl Al-Arabi. Dopo la Naksa del 1967 , la Collezione Dar Al-Tifl Al-Arabi si espanse ulteriormente per includere la collezione di ricami del Museo di arte popolare palestinese.

La manica del vestito di Al-Ramleh.

La collezione Widad Kawar: qualche tempo dopo, Widad Kawar ha iniziato un viaggio che ora l’ha portata ad acquisire migliaia di pezzi dalla Palestina, dalla Giordania e da altre parti del mondo arabo. Ha iniziato la sua collezione con un abito affascinante del villaggio di Aboud e oggi possiede una collezione che ha viaggiato per il mondo portando il messaggio della Palestina. Widad Kawar ha anche fondato il Tiraz Center ad Amman, in Giordania, per mostrare la sua collezione speciale di abiti palestinesi in un ambiente interattivo ed educativo. Ha anche contribuito notevolmente alla produzione di libri e materiali di valore inestimabile per documentare e preservare questo patrimonio. La sua collezione e i suoi sforzi hanno ispirato e incoraggiato la creazione di diverse collezioni individuali e organizzative.Altre collezioni di ricami palestinesi sono detenute da istituzioni palestinesi, tra cui la Birzeit University e il Museo Palestinese, e da individui palestinesi che cercano di preservare e documentare l’eredità e la storia palestinese.
Ci sono anche collezioni di abiti e gioielli ricamati palestinesi, tra molti altri oggetti palestinesi, che si trovano oggi nei musei e nelle collezioni private israeliane. Nel 1948 Israele cancellò dalla mappa più di 400 villaggi palestinesi e trasferì le loro popolazioni nei paesi vicini. I collezionisti israeliani hanno successivamente accumulato un gran numero di costumi e strumenti tradizionali palestinesi nel tentativo di trovare un collegamento tra questi oggetti e la presunta storia israeliana nella regione.

Il retro di un abito di Hebron con elementi tipici anche degli abiti di Al-Faluja, Iraq al-Manshiyya e Beit Jibrin, villaggi spopolati nel 1948.

Parallelamente agli sforzi in corso dello stato israeliano per cancellare la Palestina e i palestinesi dalla mappa e dalla memoria, i musei israeliani hanno paradossalmente raccolto abiti e strumenti tradizionali palestinesi in modo implacabile nel corso degli anni. I seguenti sono alcuni esempi.
The Israel Museum: il museo è stato fondato nel 1965, quando il ricercatore e curatore antropologico Ziva Amir era responsabile della raccolta in massa di abiti tradizionali palestinesi. Amir ha approfittato dell’estrema vulnerabilità dei palestinesi dell’epoca e ha sfruttato questa situazione per acquisire ricami palestinesi dai rifugiati palestinesi impoveriti. Amir ha pubblicato diversi libri e articoli sull’argomento, concentrandosi sulla traccia dell’Antico Testamento attraverso questi pezzi raccolti, senza menzionare nemmeno la Palestina oi palestinesi.

Pannello laterale di un abito Ramallah bianco di rumi (lino) dei primi del Novecento.

Il Museo della cultura beduina: la collezione del museo risale alla sua istituzione nel mandato britannico della Palestina nel 1938. Documenta la vita dei beduini ad Al-Naqab e comprende una vasta gamma di pezzi che includono vestiti, strumenti, tende, tappeti e tessuti intrecciati
Questa storia e la realtà odierna sottolineano l’importanza di sviluppare ed espandere le collezioni di ricami di proprietà palestinese. Oltre a salvaguardare una forma d’arte tradizionale palestinese che è stata violentemente interrotta a causa della Nakba e dell’occupazione in corso, queste collezioni possono anche preservare una parte essenziale del nostro patrimonio immateriale. Le storie che raccontano non comprendono solo gli indumenti stessi, ma anche il modo di vivere che sono stati progettati ad arte per accogliere. Di fronte alla brutale macchina dell’occupazione, preservare e celebrare la nostra identità culturale è fondamentale per garantire la continuità della nostra cultura per le generazioni a venire.Visualizza PDF

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Il tatreez è più di una semplice decorazione. È un modo di raccontare storie, preservare il patrimonio culturale ed esprimere la nostra identità». Mi spiega Yasmeen Mjalli fondatrice e direttrice creativa di Nöl Collective, brand di abbigliamento basato a Ramallah, in Cisgiordania. «Ogni punto ha un significato, ogni motivo racconta la storia familiare, l’identità regionale o eventi significativi nella vita di chi lo indossa».

Una camicia di Nöl Collective ricamata a mano con la tecnica del tatreez. Courtesy of Yasmeen MjalliNöl Collective.

Una camicia di Nöl Collective ricamata a mano con la tecnica del tatreez. Courtesy of Yasmeen Mjalli/Nöl Collective.

Una gonna di Nöl Collective ricamata a mano con la tecnica del tatreez. Courtesy of Yasmeen MjalliNöl Collective.

Una gonna di Nöl Collective ricamata a mano con la tecnica del tatreez. Courtesy of Yasmeen Mjalli/Nöl Collective.

Una felpa di Nöl Collective ricamata a mano con la tecnica del tatreez. Courtesy of Yasmeen MjalliNöl Collective.

Una felpa di Nöl Collective ricamata a mano con la tecnica del tatreez. Courtesy of Yasmeen Mjalli/Nöl Collective.


Abeer Dajani, fondatrice di Taqa Clothing aggiunge: «La parola tatreez (تطريز) significa "abbellimento" in arabo. Ma oltre a essere una decorazione, è sempre stato un modo per le donne palestinesi di esprimere la propria identità, le esperienze e il patrimonio regionale attraverso motivi e disegni. Storicamente, è stato un linguaggio a sé: alcuni punti e colori potevano raccontare da dove veniva la donna che il indossava, il suo stato civile e persino la sua storia personale».
Praticata da oltre 3.000 anni, questa forma di ricamo tradizionale viene trasmessa di generazione in generazione, da madre a figlia, in Palestina così come nelle comunità di emigranti palestinesi in tutto il mondo. Sebbene la sua origine risalga alle zone rurali, oggi la tradizione di cucire e indossare abiti ricamati è diffusa sia nei villaggi che nelle città, e i diversi motivi rappresentano le diverse regioni della Palestina storica.


Il thobe abito tradizionale palestinese ricamato con trateez nell'interpretazione contemporanea di Taqa Clothing....

Il thobe, abito tradizionale palestinese ricamato con trateez, nell'interpretazione contemporanea di Taqa Clothing. Courtesy of Abeer Dajani/Taqa Clothing.


«Molti motivi tradizionali del tatreez rappresentano elementi della terra - fiori, alberi, animali -simboli del paesaggio unico della Palestina – mi spiega ancora Mjalli di Nöl Collective - Alcuni motivi rappresentano piante specifiche come i rami di ulivo, i fiori selvatici o i melograni, che hanno un significato culturale significativo, mentre altri raffigurano elementi della vita palestinese legati alla terra, come la kefiah o la famosa Cupola della Roccia. Questi motivi non sono semplicemente belli, sono una forma di resistenza, un modo per mantenere viva la memoria di una terra e della sua biodiversità di fronte alla diaspora, all'occupazione e alla distruzione»
Dichiarato nel 2021 dall’UNESCO patrimonio culturale immateriale e intellettuale dell’umanità, il tatreez è simbolo di resistenza culturale. Mantenere viva quest’arte significa preservare una parte fondamentale dell’identità e della cultura palestinese, in un momento in cui le radici culturali rischiano di essere cancellate. «Il tatreez offre un modo per archiviare e conservare ciò che sta per essere cancellato - continua Mjalli - Preserva le storie della terra, storie che non possono essere distrutte da bulldozer o da confini. Tessendo questi motivi nei nostri design, stiamo attivamente proteggendo la memoria di un paesaggio che potrebbe presto essere dimenticato dal mondo, ma che vivrà sempre nei nostri fili».



Un capo di Nöl Collective realizzato con la tecnica di tessitura majdalawi. Courtesy of Yasmeen MjalliNol Collective.

Un capo di Nöl Collective realizzato con la tecnica di tessitura majdalawi. Courtesy of Yasmeen Mjalli/Nol Collective.

 
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Un tessitore che Nöl Collective ha aiutato a evacuare in Egitto. Courtesy of Yasmeen MjalliNöl Collective.

Un tessitore che Nöl Collective ha aiutato a evacuare in Egitto. Courtesy of Yasmeen Mjalli/Nöl Collective


l thobe, ampio abito tradizionale indossato dalle donne palestinesi, è il capo di abbigliamento più comunemente ricamato. Ma sono diversi i designer che integrano il tatreez in creazioni dal design contemporaneo, producendo abbigliamento e accessori in grado di parlare anche al resto del mondo. Questo è particolarmente evidente nel lavoro di Yasmeen Mjalli che mixa le tradizioni della sua terra di origine con una visione contemporanea e internazionale della moda.
Nata negli Stati Uniti da genitori palestinesi emigrati, la giovane designer è tornata in Cisgiordania dopo la laurea in North Carolina e nel 2017 ha fondato Nöl Collective a Ramallah. Mjalli integra nel suo lavoro tecniche indigene, come la tintura dei tessuti con coloranti naturali derivati da piante locali, radici e insetti, l’utilizzo di metodi tradizionali di tessitura come il majdalawi, e il coinvolgimento di una rete di artigiani locali per ricamare a mano gli abiti, creando una combinazione unica di silhouette e tagli contemporanei e decori tradizionali palestinesi.


Una gonna di Taqa Clothing decorata con ricamo tatreez. Courtesy of Abeer DajaniTaqa Clothing.

Una gonna di Taqa Clothing decorata con ricamo tatreez. Courtesy of Abeer Dajani/Taqa Clothing.



Lo stesso fa Abeer Dajani con Taqa Clothing, seppure lontana dalla sua terra, tra Sidney, in Australia, e Riyad, in Arabia Saudita. Dopo aver studiato modellistica per abbigliamento femminile all'Istituto di Moda Burgo di Amman, in Giordania, con l'obiettivo principale di avviare una linea di moda ispirata al patrimonio palestinese, nel 2017 Dajani ha fondato Taqa, che lei stessa definisce un'esplorazione dell'arte indossabile, pezzi che raccontano storie, cultura e identità, rimanendo moderni e versatili.
«La moda è uno strumento potente di rappresentazione. Pensate alla kefiah, è diventato un simbolo globale di resistenza, identità e solidarietà. Allo stesso modo, il tatreez non è solo ricamo, è storia indossabile. Ogni punto porta con sé una narrazione, una connessione con il passato e un senso di appartenenza. Indossando questi pezzi, le persone si connettono a una storia più grande di loro. Vedo tutto ciò come parte di un cambiamento più ampio: le persone stanno rivendicando le arti indigene, valorizzando l'artigianato rispetto alla produzione di massa e trovando modi per esprimere la loro identità attraverso la moda».
La storia di queste e delle tante altre designer, tessitrici, ricamatrici palestinesi, che fanno della moda un mezzo di preservazione della storia, si colloca in un movimento globale che sta coinvolgendo il mondo della moda: non solo l'artigianalità (e la sostenibilità) di ciò che indossiamo comincia ad acquisire importanza, ma anche le mani che lo creano hanno rilevanza, così come la storia che si cela dietro a ogni capo e accessorio. Soltanto così la moda diventa energia creativa, forza propulsiva che sospinge verso il futuro. Nonostante le guerre, nonostante tutto.
«La creatività è una forma di resistenza, un modo di affrontare e persino di guarire - sono le parole di Yasmeen Mjalli - è una risposta al dolore, un modo per reclamare bellezza e dignità in uno spazio dove sono costantemente minacciate. Per me, essere creativa in questo contesto significa onorare il passato e il presente, ma anche immaginare un futuro, un futuro in cui i palestinesi possano vedere le possibilità di una vita più luminosa e libera. È una miscela di cuore spezzato e speranza, e il lavoro porta con sé quel peso emotivo. È un promemoria che anche nei momenti più bui, c'è ancora spazio per la creazione, per l'espressione e per reclamare la nostra narrazione».

26.5.24

non tutti gli ebrei sono sionisti come i palestinesi sono tutti hamas . Giovani attivisti israeliani e statunitensi davanti al consolato degli Stati Uniti a Gerusalemme e chiedono stop al genocidio


“Non siamo criminali come i nostri leader”


 “Israele, Stati Uniti, quanti bambini avete ucciso oggi?” gridano una trentina di giovani attivisti israeliani e statunitensi davanti al consolato degli Stati Uniti a Gerusalemme, la mattina di venerdì 24

maggio, “Che cosa vogliamo? Un cessate il fuoco. E quando lo vogliamo? Adesso”. Alcuni di loro sventolano uno striscione su cui c’è scritto “Stop al genocidio”, mentre altri si sono incatenati davanti all’ingresso del consolato. Appena mezz’ora dopo, gli attivisti vengono allontanati con violenza: alcuni vengono strattonati e spinti con violenza dalla polizia, che li trascina a forza lontano dal consolato e strappa i loro cartelli. Sette di loro, tra cui gli attivisti che si erano incatenati, vengono arrestati. “Non possiamo rimanere seduti a guardare i mucchi di corpi che si accumulano l’u- no sull’altro a Gaza” dice l’a ttivi sta Yahav Erez appena finito il sit-in, “noi cittadini, se non facciamo sentire la nostra voce, siamo criminali come i nostri leader. Sono i soldi delle nostre tasse, è nel nostro nome”.
“Adesso che ci sono dei mandati di cattura della Corte Penale Internazionale (contro Netanyahu e Gallant) forse gli Stati Uniti ci penseranno due volte prima di finanziare ed essere complici di ciò che sta succedendo, ma anche noi dobbiamo farci sentire”.
A opporsi alla guerra a Gaza, spiegano gli attivisti, è una minoranza della società israeliana. “Siamo una minoranza nella minoranza a chiedere il cessate il fuoco e per questo subiamo la violenza non solo della polizia, ma anche dai passanti” dice Maya, un’altra partecipante al sit-in davanti al consolato.
“Siamo convinti che sia cruciale che il mondo sappia che ci sono israeliani che sono contro quello che succede a Gaza e che vogliono che questa guerra finisca il prima possibile, e continueremo a lottare fino alla fine”, aggiunge M aya, che fa parte di “All That’s Left” e “Free Jerusalem”, collettivi impegnati contro l’occupazione israeliana dei territori palestinesi che negli ultimi mesi hanno organizzato varie azioni per protestare contro la guerra a Gaza. “Ma è molto difficile per noi fare parte della società israeliana in questo momento”. “Penso che  alcune  persone stanno iniziando ad aprire gli occhi” dice Yahav, “ma le persone che iniziano a porsi delle domande si sentono isolate”. “Viviamo in una società in cui chi mette in discussione quello che Israele sta facendo a Gaza, o ai palestinesi in generale, si sente dire che è pazzo. Per questo cerco di fare sentire la mia voce”. La situazione interna in Israele è, se possibile, ancora più tesa di quanto lo sia stata negli ultimi mesi, dopo l’ordine della Corte di Giustizia Internazionale di fermare la fine dell’offensiva a Rafah.

12.10.23

QUALCHE DOMANDA A UN BUROCRATE SIONISTA di Filippo Kalomenìdis

Una riflessione sarcastica e provocatoria sulle dichiarazioni e minacce di azioni repressive del ministro Valditara contro gli studenti che solidarizzano con il popolo palestinese

«Se è vero che alcuni collettivi scolastici hanno inneggiato ad Hamas, alla morte dei ragazzi israeliani, vanno perseguiti dalla legge. Farò partire immediatamente nostre ispezioni nelle scuole coinvolte, chiedendo alla Procura di promuovere un'azione penale per odio razziale. L'azione di Hamas è
infame. Queste persone devono essere perseguite dalla Procura della Repubblica e spero finiscano in prigione, sono di mentalità nazista, personaggi che devono essere isolati e condannati senza se e senza ma. Non è plausibile che alcuni sindacati o partiti li difendano… A quello studente farei vedere le immagini dei ragazzi aggrediti senza pietà mentre ballano nel deserto. Sai cosa vuol dire democrazia? Sai cosa vuol dire antifascismo? Antifascismo significa condannare queste cose».
Giuseppe Valditara, ministro dell’istruzione e del merito
Signor Valditara, mi rendo conto quanto sia ipocrita la formula di rito “signor”, ma mi pare inevitabile, non fosse altro per mancanza di alternative che non implichino le conseguenze penali, scatenate di regola su chi vi avversa.Esplicito subito che il mio rivolgermi alla sua persona è pura retorica. Come Ghassan Kanafani, ritengo che il dialogo tra dominanti e oppressi sia un colloquio «tra la spada e il collo». Cito quindi le sue parole solo per esporre al pubblico disprezzo e alla rabbia politica delle nuove generazioni l’empireo che ogni giorno muove guerra loro, alla razza dei senza nulla. La strumentalizzo, mi servo delle sue frasi, del suo agire soltanto per questo scopo.Ho letto le dichiarazioni del 9 ottobre e sono felice di constatare che per lei “nazista” sia diventato un aggettivo spregiativo. Spero abbia consultato prima i suoi sodali, in particolare quelli con la fiaccola tricolore mussoliniana dentro il petto, nel simbolo di partito e le divise repubblichine dei padri conservate nell’armadio. Sono esilarato dal fatto che un ministro, nominato da una coalizione che della discriminazione razzista fa religione, bandiera e norma, ora invochi azioni penali per istigazione all’odio etnico.Mi ha regalato ancora un’omerica risata il suo ritenere d’improvviso la danza nella bolgia di un rave come un’espressione di democrazia, in confusa contraddizione con la campagna di criminalizzazione condotta dal governo Meloni contro i raduni musicali non autorizzati, sfociata nella legge 30 dicembre 2022 numero 199. Chiaro che non erano certo i rave a spaventarvi, ma la libertà di manifestare e mobilitarsi nel territorio dello stato italiano. È sempre divertente però appurare la macilenza della memoria dei piccoli burocrati che guardano a Tel Aviv come il diamante più splendente e avanzato del liberismo occidentale.Un’atroce e farsesco difetto nel suo caso, dal momento che è un accademico, ordinario di diritto romano e di diritti dell’antichità. Forse è per via di questa mancanza mnemonica che non conosce la differenza tra antisionismo e antisemitismo. Un cratere cognitivo che affligge pure il suo predecessore Bianchi, tecnico del Partito Democratico, promulgatore di una circolare del MIUR del novembre 2021, vera e propria direttiva di comportamento filoisraeliano imposto ai docenti nelle scuole e nelle università della repubblica. Adesso smetto di ridere, impresa non facile quando si ascolta il suo tono da attore mediocre, da cabotin in un’inconsapevole e pessima commedia. Del significato autentico della parola “democrazia” a quelli del suo lignaggio non è mai importato nulla. Se non nell’accezione del diritto illimitato del più forte che inscatola migranti e chiunque si opponga al vostro totalitarismo liberista nel cemento, nell’acciaio delle galere. Se non nell’accezione di «democrazia fascista», come la chiamava Concetto Marchesi, un uomo che di sicuro dalle sue parti non ricordano con piacere. Non s’è accorto di quanto fosse mostruoso e assurdo richiamarsi ai principi dell’antifascismo, per difendere lo stato d’apartheid sionista che perpetra da settant’anni crimini contro l’umanità e lo sterminio di un popolo? Come studioso di norme giuridiche non sa che la Convenzione di Ginevra del 1949 e il diritto internazionale, scritti dai sacerdoti dell’Occidente che l’hanno preceduta, sanciscono la lotta armata per la liberazione come legittima, protetta ed essenziale per ogni popolazione occupata?Non s’è avveduto di quanto fosse grottescamente dispotico augurarsi che dei minori finiscano in carcere, rei d’aver espresso legittimamente entusiasmo per la rivoluzione palestinese, per di più lontana dai confini della sua nazione fondata sul colonialismo? Non sarebbe stato meglio ammettere che tra colonialisti si è parenti stretti e che quei confini tracciati derubando e massacrando i palestinesi sono anche vostri, sono quelli del vostro mondo libero (libero per pochi, bianchi, ricchi prescelti, ovvio)?Soltanto nel mio luogo di nascita, la Sardegna, il suo ministero ha disposto entro il 2025 la chiusura di 40 scuole: perché non manda gli agenti della Digos a offrire istruzione e formare i nostri figli? Magari bastonandoli a sangue come a Torino, il 3 ottobre e altre miriadi di volte?La consapevolezza storica, imposta dal suo ruolo, non le ricorda che un popolo, quando si libera da decenni di colonizzazione, quando la vita schiacciata si solleva e abbatte gli argini, opera una cesura con la vostra vile morale liberale? E altrettanto vale per i giovani che sostengono in tutta la loro bellezza la Resistenza Palestinese dall’Italia delle schiavitù capitalistiche a voi cara?Tornando al rave nel Kibbutz Re'im, è disumano chi balla e festeggia sui cadaveri di generazioni di palestinesi, a pochi chilometri dal campo di concentramento di Gaza, dove quasi due milioni di persone sono condannate alla morte in esistenza? O chi pone fine alla raccapricciante gioia del carnefice che oltraggia a ritmo di musica la terra defraudata e le spoglie di fratelli e sorelle uccisi ogni giorno?La dedizione alla funzione di burocrate sionista le impedirà di rispondere con sincerità a queste domande, persino interiormente. I vostri sudditi nemmeno le prenderanno in considerazione.Lo faranno però a gran voce, con limpide parole-azioni, tanti studenti «politicizzati» (nel vostro surreale lessico repressivo, siete riusciti a dare una connotazione criminosa pure a questo attributo) stando accanto alla Resistenza Palestinese nelle piazze, nelle scuole e nelle università di ogni città. Nonostante i vostri sforzi polizieschi non riuscirete a ridurli al silenzio. «Il muro tenta i prigionieri a saltare oltre, anche se solo in sogno.Tenta i più forti a desiderare che Dio li abbia creati per volare come uccelli o ad arrampicarsi come l’edera.Tenta le vittime a infiltrarsi e a penetrarlo come nelle fantasie dei cartoni animati. Le tenta a pensare di utilizzare il frantoio a ganasce, il trapano o gli esplosivi. Tenta qualcuno a fare della mera possibilità di muoversi una vittoria impareggiabile».
(da “Sono nato lì. Sono nato qui” di Murid al-Barghouti)

10.1.16

ARABI ED EBREI SI BACIANO, IL VIDEO SPARISCE DA FACEBOOK

Se  un hackers  che  scusa  banale  , diciamo che potrebbe aver  subito pressioni  dal governo israeliano  o  da qualche finanziatore  filo israeliano . Ma  internet    censuri da  una parte  fuori esce  da  un altra

http://bit.ly/1JuVZNN



È stato rimosso da Facebook un video in cui alcune coppie di ebrei e arabi, sia etero sia gay, si baciano. Il filmato è stato prodotto da Time Out Tel Aviv per promuovere l'amore e la pace tra le due culture dopo che il ministero dell'Educazione israeliano aveva rimosso dai programmi scolastici un libro che parlava della storia d'amore tra una donna ebrea e un uomo arabo. Il quotidiano israeliano Haaretz ha chiesto chiarimenti a Facebook, che però ha smentito di essere responsabile dell'eliminazione del video e ha detto non essere a conoscenza delle cause della sua rimozione. Facebook ha ipotizzato che alcuni hacker abbiano boicottato il video, eliminandolo dal social network. Al momento della sua cancellazione, il video aveva già ottenuto 100mila visualizzazioni.


3.8.15

Bestemmia ( Alì e Shira sono stati barbaramente uccisi ) © Daniela Tuscano

Lui 18 mesi, lei 16 anni. La vita li aveva destinati a due fronti opposti sul medesimo lembo di terra, chiamatela Israele, Palestina o entrambi. Io ho sempre amato poco le rigide distinzioni, in questo momento poi non le sopporto.
Alì era un bimbo dolce e bellissimo, palestinese di Nablus.
Dal volto altrettanto bello dell’israeliana Shira l’infanzia stava dileguando, ma ancora resisteva, rosea e paciosa, soprattutto raggiante. Di quella completezza donata solo ai giovanissimi.
 
Chi l’ha assassinata invidiava quella felicità, ripete adesso la mamma. Se Alì fosse o no felice, lo ignoriamo. Lo ignorava pure lui, alla sua età l’interrogativo non si pone. Semplicemente si vive, la felicità è una cosa, le braccia materne, l’esitante austerità del padre, gli scintillii della piccola casa. I bambini piccoli non vedono bene, toccano, respirano. Sono “animali graziosi e benigni”. E per questo, a volte, il loro sguardo si vena d’una gravità inaspettata, misterica. Quasi percepissero il peso del mondo circostante.
Non c’è più Alì, l’hanno arso vivo mentre dormiva, gettando una bottiglia molotov nella sua cameretta. Volevano sterminare lui e la sua famiglia – e ci sono quasi riusciti – solo perché palestinesi. Non importava come si chiamassero, né cosa facessero. Uno valeva l’altro. Non dovevano esistere. E sui muri della casetta devastata hanno tracciato scritte deliranti: “vendetta” e “viva il Messia”. Gli emissari del “Messia” hanno bruciato un bambino.
Shira invece sfilava al Gay Pride di Gerusalemme. Felice, come sostiene la madre. Gaia. Si trovava lì per solidarietà coi suoi amici. L’hanno colpita i fendenti di Yishai Schlissel.( foto  a  destra  )   Lo chiamano estremista ultraortodosso, non nuovo a simili attentati, eppure libero di circolare… e d’uccidere. L’informazione ormai sofisticatissima ci ha restituito quegli attimi atroci in tempo reale,
la sagoma nera e ottusamente sgangherata di Schlissel pronta a ghermire la folla col suo coltellaccio da macellaio. 
Sì, è nero, quell’”ultraortodosso”. Nero come le bandiere di Isis/Daesh, suoi corrispettivi islamisti. E invece eccolo lì, tra i poliziotti che lo portano via, con alle spalle una bandiera ben diversa, un arcobaleno per lui intollerabile e folle. Yishai Schlissel, o l’ascetismo senza cuore. La superbia ossuta e, perciò, priva d’anima; quell’uomo è orrendo perché non più umano, forse pre-umano. Lo stadio obliquo dell’evoluzione.
I volti degli sterminatori di Alì rimangono, purtroppo, sconosciuti. Ma siamo certi somiglino molto a Schlissel. Possono essere giovani o anziani, uomini o donne. Belli o ripugnanti. Restano mostruosamente uguali, per quella stessa superbia, per la bestemmia di credersi iddii e dover punire e annientare chi trasgredisce la Legge (Alì, lo ripetiamo, l’ha trasgredita il giorno stesso che è venuto al mondo).
Il governo israeliano ha assicurato punizioni severe. Personalmente gli credo, ma non basta. Non più. Non intendo addentrarmi in analisi politiche, ma gli Schlissel e chi ha ridotto Alì in cenere sono il logico risultato d’un clima diffuso, d’un odio proclamato, insegnato, persino vantato da partiti vicinissimi a Netanyahu e di cui fanno ora le spese gli stessi israeliani. Il premier ha sostenuto di voler difendere le tradizioni democratiche d’Israele dai crimini degli “ultraortodossi”, ma una democrazia, per essere reale e matura, non può ignorare i pur problematici vicini e ostinarsi a negare il diritto a esistere del popolo palestinese. Alì non è stato certamente il primo bambino a perire in modo così tremendo, ma la notizia del suo martirio ha avuto un’eco mai ottenuta in precedenza e scosso l’opinione pubblica mondiale. Tralascio la desueta e ipocrita frase “almeno il suo sacrificio è servito a qualcosa”. Primo, perché Alì non intendeva sacrificarsi neppur lontanamente; secondo, perché i sacrifici non servono mai; “misericordia voglio e non sacrifici”, ammonisce la Bibbia.
Già, la Bibbia. Il Libro. La Legge poc’anzi ricordata. Se Alì ha perso la vita a causa d’un abominevole connubio tra politica, fanatismo religioso e razzismo, Shira è stata eliminata perché manifestava con gli omosessuali, anzi coi “sodomiti”, e i sodomiti, nella Bibbia (ma pure nel Corano e in altre confessioni), sono condannati.
La religione giustifica il gesto di Schlissel? No, naturalmente. Gliene ha offerto però il pretesto? Per molti, altrettanto naturalmente, sì. Per quei molti, con la religione occorrerebbe solo farla finita; dimenticando che, quanto agli omosessuali, il trattamento loro riservato da regimi atei, di nome e/o di fatto – Urss, Cuba, Nord Corea, per tacere, in passato, della Germania nazista… - non si è rivelato né più tollerante, né più misericordioso. Ed eccoci tornati al vocabolo originario, misericordia. Qualsiasi religione, se autentica, se incontaminata dal fondamentalismo e dal millenarismo, non mortifica l’umano; il suo messaggio è sollievo per tutti; Asia Bibi, dal suo calvario infinito, ci sta dimostrando, ed è solo l’ultimo caso, il potere liberante della religione. Non schiavitù, non odio e ignoranza, non condanna, non invidia dell’altrui felicità.
Sono consapevole dell’estrema povertà delle mie parole. Soluzioni, non ne possiedo. Le apologie, oltre che inopportune, in simili casi divengono strumentali. Non difendiamo idee, per quanto nobili. Ma persone. E per questo urge una serissima riflessione certamente degli studiosi (politologi, storici di ogni latitudine, sesso ecc.), ma anche e soprattutto dei credenti. Il dilagare della peste fondamentalista esige, da parte nostra, un rinnovato linguaggio ed esegesi dei testi, uno slancio più deciso verso il dialogo ecumenico e un ascolto sempre più partecipe di quell’”altro”, di quell’ospite, uomo e donna, che in realtà è il nostro specchio. Perché i muri, li abbiamo in primo luogo dentro, e v’imprigioniamo tutto, anche Dio, il quale invece è somma libertà e detesta formule preconfezionate. Perché i muri vanno sì abbattuti, ma non bruciati, e le persone non si riducono a cortei. Dietro quei cortei si odono voci, storie. Dietro quei muri si snodano vite semplici e irripetibili. 

L’assassinio di Alì e Shira ha, quindi, un solo colpevole: non Dio, ma la superbia umana. Colei che riduce la religione a una nota, sempre la stessa, monotona, assillante, e la spaccia per Verità irrefragabile; colei che vuole il mondo nero, perché teme i colori; e non prende il largo, perché negligente. Colei che cerca pretesti alla sua insipienza. 

                                                       © Daniela Tuscano

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