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24.4.21

anche il gusto ha delle storie dietro .storie di varia umanità e del territorio ( parte 2 ) da Il birraio emigrato due volte che ha trovato l’America in Calabria La storia di Pasquale Barritta alla ditta Orco, tra senape, maionese e capperi di Pantelleria

continuiamo    dopo la  puntata precedente   che trovate   qui  https://ulisse-compagnidistrada.blogspot.com/2021/04/anche-il-gusto-ha-dele-storie-dietro.html  a raccontare  le eccellenze  le storie    italiane  stavolta  esse  vengono da   https://www.ilgusto.it/


Il birraio emigrato due volte che ha trovato l’America in Calabria
La storia di Pasquale Barritta, partito negli anni 70 per gli Stati Uniti e tornato nel suo paese. Spilinga, per creare Cunegonda, uno dei primi microbirrifici calabresi

DI EUGENIO FURIA
Pasquale Barritta 

C’era un calabrese che con un tedesco e un irlandese produceva birre in America. Questo è il racconto di una storia di successi ed emigrazione ma è anche una sfida: riuscire a parlare di Calabria – e in particolare di Spilinga – senza mai pronunciare quella famosa parola lì, quella che inizia come ‘ndrangheta ma indica qualcosa di bello: il famoso insaccato spalmabile e piccante.

La storia è quella di Pasquale Barritta, decano dei birrai calabresi che ha (ri)trovato l’America nella sua Calabria dopo decenni da homebrewer di stanza nel New Jersey e in trasferta in Pennsylvania. “Sono emigrato due volte”, sorride. Negli anni Settanta segue il flusso dei tanti conterranei che cercano fortuna oltreoceano. Nell’ottobre del 1996 entra nel mondo brassicolo statunitense. Alla passione e allo studio aggiunge la crescita professionale e il confronto con realtà come HeawyWeight: pesi massimi nelle birre fortissime (sui 13-14°) e a bassa fermentazione. “Con loro sogno di fare la 135esima birra, magari ospitandoli qui appena sarà possibile”, dice Barritta.

Intanto, per realizzare il suo, di sogno, ha impiegato non poco: “A causa di una burocrazia lentissima, soltanto nel 2005 ho potuto riavviare qui a Spilinga (nel Vibonese, ndr) l’impianto canadese che avevo spedito via nave nel 2002”. Il gioiellino firmato Dme, uno dei pochi impianti a fusione unica – in Italia la maggior parte è a gradini – impiega 15 giorni per arrivare in Italia dagli States e tre anni per entrare in funzione. I ritardi sono dovuti probabilmente al fatto che per la prima volta in assoluto l’agenzia delle dogane deve confrontarsi con un caso simile.

I prodotti del birrificio Cunegonda 

Nel 2006 il birrificio Cunegonda parte con una produzione di 120 ettolitri. In quindici anni quelle cifre si sono decuplicate: nel 2019 – prima della frenata imposta dalla pandemia – si arriva a 1180 ettolitri. La scommessa di Pasquale è concentrarsi su un solo prodotto: una Pale Ale londinese ambrata di 5°, destinata solo ai villaggi della Costa degli Dei, distretto turistico calabrese per eccellenza con Tropea, Ricadi e Capo Vaticano mete di visitatori da tutta Europa, Germania in primis. “È una spina, il colore è quello del tè, ragion per cui qualche turista all’inizio è diffidente… poi però cambia subito idea. Ero stanco di fare birre da pub come facevo negli Stati Uniti, dove sono arrivato a produrne dodici tipi diversi. Qui volevo fare una sola birra, ma per tutti”.

L’azienda imbottiglia anche un paio di etichette per altrettanti villaggi turistici, inoltre ogni anno prevede due o tre linee di birre speciali a rotazione, 200 litri in 400 bottiglie per clienti affezionati o turisti che le richiedono dopo aver apprezzato la Pale Ale: l’anno scorso una alla ghianda, una “gruit” alle erbe selvatiche, un ritorno alle origini, quando ancora non si usava il luppolo. “Vorrei rifarla l’anno prossimo”.

Non manca l’export: Corsica, Sud della Francia, Austria, Svizzera, Australia, due anni fa anche la Russia e l’anno scorso Washington. “Gli Usa restano il primo amore… quella terra mi ha dato un futuro e non lo dimentico. Sono stato un eterno emigrato ma ora basta viaggiare. Torno lì solo per rivedere gli amici, le mie due sorelle con i cognati e i nipoti. Oggi mi spiace quando leggo di giovani calabresi costretti ad andar via come ho fatto io anni fa”.

Potendo fare un consuntivo di 15 anni di produzione, la Calabria è per Barritta croce e delizia. “Abbiamo aperto la strada dei microbirrifici e questo mi fa piacere, però…”. Però? “Però dovremmo viaggiare tutti uniti, senza gelosie e invidie: ci si rafforza solo remando tutti nella stessa direzione. Nel New Jersey ci ritrovavamo ogni mese, eravamo in diciotto ed era un’occasione di crescita oltre che conviviale. Appena arrivato in Calabria ho proposto di creare un consorzio e un festival itinerante delle birre artigianali calabresi, non per guadagnare ma per farle conoscere e per educare più gente possibile”. Magari prima o poi ci si riuscirà.

Chiediamo un parere sul movimento brassicolo calabrese a Giuseppe Salvatore Grosso Ciponte, divulgatore (Do di malto) e produttore (Maltonauta) oltre che sommelier: “È vero che potrebbe esserci più unità tra i birrai calabresi, ma mancano anche figure istituzionali di riferimento lungimiranti come nella vicina Puglia, dove è in discussione una proposta di legge per aiutare i birrifici artigianali. Stanno nascendo tante realtà, quindi l’interesse a produrre c’è ma forse mancano i consumatori abituali che sostengano il movimento, e sono ancora troppo pochi i locali sensibili al craft. Per creare bevitori consapevoli occorre fare molta divulgazione. Intanto, Cunegonda ha dimostrato che si può sfidare la supremazia delle birre chiare”.

In un settore anarchico per definizione – senza un disciplinare, ogni produttore esercita la massima libertà – Barritta ha trovato la sua strada e presidia saldamente una fetta di mercato, ma non smette di sperimentare e invita le nuove generazioni a fare lo stesso. Per la sua Pale Ale, utilizza tre malti e due luppoli e un’acqua “molto simile a quella di Londra: ne abbiamo analizzato sette del territorio prima di sceglierla”. Il 2021 è un anno particolare. Quali sono le tre birre speciali da imbottigliare? “Una al bergamotto, che esordì già nel 2007. Poi una rossa al peperoncino, affumicata, il gusto che io preferisco, e una al grano puro di Spilinga. Perché Spilinga non è soltanto ‘nduja”. Oh no, sfida persa.



Biscotti, frollini e un pizzico di coraggio: i 110 anni di Colussi
Dalle origini contadine alle pasticcerie, dal Gran Turchese ai prodotti dietetici, la storia di un'azienda al passo con i tempi


Scende dal Cadore e arriva a Venezia nel 1880, con lo spirito forgiato dalle montagne: “Penso la mia fosse una famiglia di anime in pena, di gente senza pace perché gli piaceva sempre inventarsi lavori strani”. Esordisce così Angelo Colussi, terza generazione della famiglia, riguardo le sue origini: “Gli abitanti di Zoldo gravitavano intorno a Venezia ancor prima della caduta delle Repubblica: servivano due giorni di viaggio. Era il punto di riferimento, approdavano le navi cariche di spezie, c’era uno scambio continuo, non solo di mercanzie.” Dalle montagne e valli dolomitiche gli abitanti si muovevano in direzioni stagionali: “Erano contadini di nascita e producevano biscotti da portare a Venezia in una sorta di tentata vendita, come venditori ambulanti”. Ma nel 1880 la famiglia, con Giacomo e i suoi fratelli, si trasferisce in città per aprire una panetteria. Ed è qui che nasce nel 1890 Angelo Colussi, cresciuto nella famiglia che sforna pane e baicoli, i famosi biscotti della tradizione veneziana che devono il nome ai branzini della laguna. Giovane, intraprendente e risoluto a poco più di venti anni decide di aprire una piccola fabbrica di biscotti a Vittorio Veneto con i primi guadagni. 

Biscotti, intraprendenza e un pizzico di coraggio: i 110 anni di Colussi

Fu così che nel 1911 iniziava la storia imprenditoriale dei Colussi che non si sarebbe fermata neanche durante la prima guerra mondiale, arrestandosi solo per un breve periodo dopo Caporetto. Con la pace il profumo dei biscotti si sparse insieme alle innovazioni tecnologiche volute da Angelo: impastatrici, una macchina stampatrice, un nuovo forno, due camere di cottura e più di cinquanta operai. Intraprendenza e voglia di anticipare i tempi, con i piedi nel presente e gli occhi al futuro: “Il nonno si era scatenato, aveva aperto in pochi anni quattordici pasticcerie” di cui sei a Venezia, con punti vendita fra Padova, Udine e Trieste, valicando i confini del Triveneto per arrivare fino a Milano. Si ampliava la produzione fino a panettoni, wafer e piccola pasticceria, negli stessi in cui cresceva e studiava il figlio Giacomo cui, ancor prima che terminasse gli studi in Scienze economiche e commerciali alla Ca’ Foscari, il padre aveva nel 1936 affidato la gestione della fabbrica a Vittorio Veneto. Una sfida che il giovane aveva colto di buon animo apportando nuove idee. Un impegno che non cessò nemmeno quando nel 1942 Giacomo venne assegnato al reggimento di stanza a Vittorio Veneto, riuscendo così a continuare la direzione dello stabilimento. Poca manodopera e razionamenti, “gran parte delle attività produttive venivano sospese per mancanza di materie prime ma grazie a un accordo i biscotti potevano essere acquistati con la tessera annonaria”: la produzione era salva. 

La famiglia Colussi  

Tornata la pace il mondo faceva i conti con una velocità rinnovata e respirava la voglia di ripresa. Erano anni di accelerazione tecnologica: “Anche prima della guerra c’erano macchine che facevano amaretti e savoiardi, che colavano gli impasti su teglia. Così come esistevano le stampatrici per i biscotti, ma la difficoltà era riuscire a fare biscotti in pasta frolla ed estrarli dallo stampo". Dinamismo della prospettiva e crescita economica supportata dalle aspettative animavano gli imprenditori italiani, non da meno Giacomo Colussi che intuì come un posto più centrale dell’Italia avrebbe aiutato ad ampliare il mercato. “A mio papà piaceva progettare fabbriche, all’epoca bisognava sviluppare tecnologie, impianti moderni, essere efficienti. Al sud non esistevano grandi fabbriche e dopo la seconda guerra mondiale un certo numero di aziende si stava spostando proprio lì: i trasporti erano scarsi lungo la penisola, non esisteva ancora l’autostrada del Sole e partendo dal centro sarebbe stato più facile portare i prodotti in queste aree. Delocalizzando la produzione riuscì a coprire un più ampio raggio, rendendo la logistica più efficiente”. Così con il consenso paterno fonda nel 1949 la Colussi Perugia a Fontivegge, in una posizione strategica per la vicinanza con lo scalo ferroviario. I fratelli Sandro e Aldo rimasero a Vittorio Veneto, spostandosi poi a Voghera per gestire il marchio Colussi Milano. Intuizioni e sforzi ripagati in breve: la rete commerciale che si andava rinsaldano e i risultati produttivi lo spinsero verso le nuove aperture di Catania e Castelnuovo.

Di natura friabile, la frolla fa della fragilità il pregio. Fino agli anni ’50 i frollini erano prerogativa delle pasticcerie, si usava la sac à poche per formarli su teglia da cottura: “Erano prevalentemente artigianali, poi con le nuove tecnologie sono state proposte macchine che consentivano l’estrazione dei biscotti dagli stampi. Si riempivano con la frolla e per effetto della pressione su un rullo di gomma il biscotto veniva come risucchiato sul nastro trasportatore e in estrazione manteneva la forma”. La tecnologia diventatava indispensabile per il progresso dell’industria, così Giacomo Colussi acquistò nel 1952 in Belgio e Germania macchinari per compiere questo lavoro, diventando una delle prime aziende italiane in grado di produrre biscotti a rilievo con una tecnologia rotativa. Era anche modo di dare corpo a un sogno: “In un viaggio a Pompei papà aveva visto la forma di questi stampi e prese spunto per realizzare un biscotto che avesse quella forma di epoca romana: rotondo con un fitto reticolo di buchi". Strumenti tecnologici, desiderio imprenditoriale e ispirazione archeologica per il frollino che a distanza di cinquantacinque anni è ancora un’icona: il Gran Turchese. “Anche nel nome era innovativo, prima si chiamava Turchese appartenendo a una linea che si rifaceva alle pietre preziose, poi venne aggiunto Gran per dare l’idea di un unicum”, con forma e consistenza perfette per essere inzuppato nel latte. E non solo.


L’Italia degli anni ’60 era un paese dove il futuro era pronto per essere addentato, le restrizioni alle spalle e le possibilità tutte da afferrare. Il benessere entrava nelle case dalle abitudini più semplici: la zuppa di latte, il pane raffermo o la polenta avanzata lasciavano il posto a quello che fino al decennio precedente era considerato un lusso, un simbolo di festa - i biscotti - e al caffè riservato fino ad allora agli ospiti. Nelle case si accendeva la televisione e il Carosello avrebbe modificato il rapporto fra consumatori e prodotti: “Le vendite all’epoca erano realizzate attraverso i grossisti, intermediari fra l’industria e i dettaglianti. Con le grandi reti di vendita al dettaglio c’era una maggiore reattività e controllo del mercato: l’industria sapeva cosa piaceva o meno al consumatore. Carosello passava in quegli anni con ‘Gli amici di Gioele’, animali fantasiosi composti dalle parti di più specie -  come il Tartaraffa da tartaruga e giraffa - ognuno con una storia da raccontare in televisione e si accompagnava con un album di figurine da collezionare: una forma di fidelizzazione del consumatore”. Angelo, esponente della terza generazione che porta il nome del nonno, ormai all’università negli anni ’70 ricorda il suo esordio in azienda: “Mio papà era una persona molto laboriosa, un po’ autoritario, voleva mantenere il comando, poi per suoi motivi di salute mi trovai catapultato in azienda a 25 anni. Ero stato nella parte operativa, un ‘portatore di acqua’". Ricorda così, con tenerezza e ironia il momento in cui le decisioni passarono nelle sue mani. Facendo tesoro degli insegnamenti paterni e grazie alle sue capacità, mette in atto la rivoluzione che porterà l’azienda da un assetto familiare a quello manageriale: “Da lui ho imparato ad avere molta determinazione. Siamo abituati che le aziende non devono arrendersi di fronte a niente, ma avevo capito che bisogna avvalersi di risorse umane capaci e preparate. Adesso la gestione è autorevole e non autoritaria. L’importanza del fattore umano è fondamentale: la storia dell’imprenditore solo contro tutti è andata a cozzare con i movimenti sindacali”.

Dalla fragranza dei prodotti al cambiamento in azienda e nel rapporto con i lavoratori, forza imprescindibile di ogni produzione. “Era troppo facile decidere senza confronto, non andava bene. Non si teneva conto della controparte, da lì è nata la grande crisi degli industriali italiani: bisognava tenere conto di tutti gli attori, non solo nel mercato, anche dei collaboratori”. Visione manageriale di un uomo comando in anni niente affatto facili che, con decisioni e visioni, è stato capace di far prosperare la sua azienda, differenziando la produzione e rafforzando il marchio. Come si legge nelle parole del libro di Nicola Dante Basile, I Cavalieri del Lavoro, nelle pagine dedicate a Colussi, tutto ciò che è finalizzato alla valorizzazione del gruppo richiede "rispetto per le regole di mercato (…) saggezza nel gestire e valorizzare le risorse umane e professionali che partecipano con l’imprenditore nella costruzione e sviluppo dell’impresa stessa". Anni di rotture ideologiche e generazionali, asperità intellettuali, anni in cui il progresso della tecnologia e il cambiamento del commercio allungava il passo ancora una volta. “Fino ad allora l’innovazione era innovazione di fabbrica, si progettavano nuovi prodotti sull’arrivo delle nuove macchine.

Dagli anni ’80 i prodotti invece venivano ideati perché il consumatore aveva bisogno di qualcosa di nuovo”. Lo stare un passo avanti, guardare oltre il presente per intuire le esigenze future del mercato, fu ancora una volta il cardine di Colussi: “Le macchine erano progettate sui nuovi prodotti -  linee studiate per soddisfare le esigenze del lavoro e del mercato - e si sommava anche un cambiamento nelle confezioni per le esigenze quotidiane con packaging più piccoli” a favore di freschezza, fragranza e nuove esigenze fuori casa. Uno sviluppo rapido e incessante della grande distribuzione organizzata. “Dal numero enorme di dettaglianti, il mercato si è andato concentrando in un numero ridotto di catene - la distribuzione incontrava l’entusiasmo dei consumatori -, i prodotti si evolvevano secondo i diversi target di segmentazione del mercato: dall’aspetto monolitico della famiglia del dopoguerra si viveva un cambiamento anche dei nuclei familiari, determinando occasioni di consumo nuove e diverse. Non c’era più un prodotto unificante, ogni consumatore chiedeva il suo”. Fette biscottate, biscotti e frollini mantenevano i caratteri del passato, ma le esigenze portavano verso la richiesta, ancora confinata in un segmento ridotto, di prodotti gustosi e bilanciati nutrizionalmente.

Lo stabilimento Agnesi 

Angelo Colussi intuì, con caparbietà e capacità, l’importanza di formare un gruppo alimentare che potesse abbracciare più segmenti ed esigenze disparate, traghettando l’azienda anche oltre i confini nazionali. Con determinazione paterna e una serie di acquisizioni riunisce sotto il Gruppo Colussi: Misura nel 1996, Agnesi e Riso Flora nel 1999 e Sapori 1832 nel 2004, e riunifica i due rami della famiglia acquisendo la Colussi Milano dai cugini nel 2000, e altre ancora se ne sarebbero aggiunte nel tempo spaziando fino alla pasta fresca e al mondo del cioccolato con La Suissa. Misura era nato come marchio nel ’77 e l’acquisizione determinò un vantaggio, "siamo riusciti a partire prima sul mercato, differenziando con marchi che coprivano target diversi: Misura per i consumatori adulti con maggiore attenzione alla dieta, Sapori per le eccellenze e i prodotti tipici” e Colussi manteneva la leadership nel segmento della colazione e merenda. Dai primi prodotti integrali un grosso lavoro in cui “noi ci siamo impegnati per farli essere buoni, premiando anche il sapore, tanto che sono nate pure le merendine, per definizione non un prodotto privativo”. Una sfida vinta grazie anche al mercato che si è avvicinato al mondo dell’integrale, “tanto che oggi ci sono interi mercati che ne sono dominati, basti pensare alle fette biscottate dove l’integrale rappresenta già del 50% dei volumi venduti”.

I pack compostabili 


La valorizzazione dei marchi in ogni passaggio produttivo e generazionale non può prescindere dall’attenzione per le materie prime in tutto il gruppo: “Siamo stati fra i primi a eliminare l’olio di palma - a partire dai prodotti Misura - negli anni si sono andati riducendo sempre più coloranti, conservanti e additivi; ora gli aromi sono tutti naturali, i coloranti non sono presenti, una grande trasformazione”.  Negli anni il lavoro ha maturato l’esigenza di proiettarsi al futuro pensando anche alla sostenibiltà: impiego per alcuni prodotti della linea Misura e la pasta Agnesi carta certificata FSC e confezioni in parte sostituite con incarti derivati dal Mater-Bi, eliminazione di energia da combustibili fossili a favore di sole fonti rinnovabili e la stretta collaborazione con il Banco Alimentare per ridurre lo spreco di cibo. 

A Misura di Verde  

“Il lavoro è arduo, ma è il concetto di imprenditorialità stessa che ci permette di lavorare sul territorio, è la determinazione presente nel nostro DNA da quando non ci si fermava, da Zoldo quando ci si inventava il lavoro. Certe decisioni orientate alla pulizia e correttezza devono partire dal vertice”, senza vibrazione dell’autorità ma con piglio pacato e autorevole, quello di un uomo che continua a trarre insegnamenti dal passato e nel quotidiano per portarli insieme ai figli nel futuro. “Vorrei lasciare un clima di fiducia e determinazione nell’andare avanti, per ogni difficoltà si trova il modo giusto per affrontarla e migliorare le cose, bisogna essere flessibili per guardare al futuro con la disponibilità per adeguarsi ai tempi. Ogni nuova generazione deve fare uno sforzo enorme per affermare sé stessa, c’è il passaggio padre-figlio da vincere: mi auguro che possano acquisire la leadership in maniera non conflittuale. Loro possono vedere le situazioni più velocemente e in modo diverso da me, non devono combattere con me padre arroccato su posizioni in retroguardia” si augura Angelo Colussi. “Questo che desideri lo stai già dimostrando” chiosa la figlia Camilla mentre afferra lo sguardo di un padre che ha tanto da insegnare e ancora molta voglia di lavorare.












Viaggio nel regno delle salse: Orco, tra senape, maionese e capperi di Pantelleria

DI GIULIA MANCINI

La lunga storia della creazione di Federico Thomy, oggi gestita dalla famiglia Corno. E pensare che tutto partì dal caffè di cicoria
Entrò in Helvetia Laghental come apprendista nel 1901 Federico Thomy, iniziando a lavorare come giovane apprendista lì dove si producevano surrogati del caffè. Nel secolo precedente era diventava una moda sorseggiare la bevanda esotica i cui chicchi affrontavano lunghi viaggi, come un obbligo sociale da sorbire tanto che nella seconda metà del secolo si iniziò a lavorare surrogati come la cicoria essiccata e tostata, succedaneo meno costoso. L’Estratto Olandese O.G., dalle iniziali dei proprietari della Helvetia, Oppliger e Geiser, era uno di questi surrogati. Così il giovane e intraprendente apprendista mosse i primi passi nel mondo del lavoro, ma scalpitava nel suo dinamismo e non vi rimase a lungo. Un periodo di lavoro all’estero, prima di essere richiamato dalla Helvetia dove le sue doti non erano state dimenticate: non più come apprendista, ma come addetto alle vendite nel Canton Ticino e In Italia. “Intuendo che il mercato italiano aveva un potenziale straordinario, ben più vasto di quello svizzero, Thomy si prestò a dirigerla purché fosse autarchica, non una costola di quella svizzera” ma quella che sarebbe diventata la succursale italiana, racconta Claudia Corno. “Così nel 1911 trova il terreno e costruisce la villa liberty - tuttora sede di quella che in seguito sarebbe diventata la ORCO - e fonda il 2 febbraio 1911 la Helvetia SPA Varese dedicata alla produzione della cicoria tostata che dava un’emulsione corroborante, amara e calda che simulava il piacere del caffè, pur senza averne il profilo aromatico. L’indicazione geografica sottolineava "l’italianità dell’impresa”, valore che negli anni si sarebbe rivelato determinante.
110 anni e non sentirli: l'Orco Mangiabene e le salse all'italiana
Gli anni del primo conflitto mondiale irruppero ben presto, fra restrizioni e difficoltà negli approvvigionamenti la produzione si adattò agli ingredienti reperibili come ghiande e castagne, riuscendo a soddisfare gli ordini delle forze armate per le truppe impegnate al fronte. Tornata la pace, il governo Nitti impose un monopolio che regolava la vendita di surrogati del caffè, tentativo che si risolse in due anni. “Il consumo di questa bevanda era ormai molto popolare, ma nei primi anni ’20 tramontò sostituito dal caffè vero: durante il Ventennio dalle colonie fasciste si era aperto un canale di importazione del caffè a prezzi convenienti”. Fu allora che si rese necessario un ripensamento: con la destrezza che gli imprenditori sanno avere e con l’intraprendenza non sopita Thomy “pensò di riconvertire le linee produttive. Venne introdotta a Varese un’altra delle sue competenze, la lavorazione delle salse e fu fondato un reparto di produzione della senape secondo la tradizione austroungarica, abbracciando una tecnologia antichissima". Un profilo aromatico delicato, non piccante come la Dijon, iniziò a spandersi nei locali della fabbrica varesotta. “Thomy impiantò un reparto di produzione artigianale con dodici molazze di granito in batteria che ripassavano questa emulsione di aceto e semi di senape, esattamente lo stesso reparto in cui ora dopo 110 anni produciamo la senape ORCO. Siamo ormai rimasti gli unici ad aver mantenuto questa modalità produttiva che ci permette di dare alla nostra senape ciò che la contraddistingue: una salsa con un elevato residuo secco, una crema compatta che si scucchiaia dal barattolo e risulta estremamente spalmabile” prosegue la signora Corno, esponente della famiglia che dal 1982 ha rilevato l’azienda, acquisendone le competenze ma senza compromettere lavorazione e qualità.Con il nuovo prodotto e la non doma intraprendenza, Thomy intuì la necessità di un nome marchio. “Agli albori della pubblicità, si rivolse alle Officine Magagnoli di Milano, il primo embrione delle società di pubblicità dell’epoca che si avvalevano dei già grandi affissisti provenienti da tutta Europa. Così l’illustratore francese Achille Lucien Mauzan venne incaricato del lavoro”. Giovanissimo, era un caricaturista che applicava le sue opere alla promozione pubblicitaria con personaggi fantasiosi, “qualcuno ipotizza avesse frequentato le immagini di Gargantua e Panagruel e - sfidando la propaganda che imperava - ideò questo orco dai tratti cattivi: l’Orco Mangiabene che inzuppa un maialino su spiedo in un barilotto di senape”. Nasceva il nome e il marchio, nasceva l’iconografia che ancora oggi accompagna la senape Orco con tratti leggermente ingentiliti ma con la fedeltà all’Orco Mangiabene. Oggi di quei manifesti rimangono copie museali, una esposta al Bailo di Treviso e due al Bertarelli di Milano che sono state presenti alla mostra nel Castello Sforzesco “Mito del paese di Cuccagna”, durante l’Expo. Da quelle prime immagini che volevano imprimersi nella memoria con la paura per il mostro, il nome ORCO entra nel mercato come associazione alla senape. “Sin dai primi manifesti pubblicitari il barilotto è sempre della stessa forma, quella originaria del 1923”, un vetro personalizzato prodotto dalla Zignago che da sempre è depositaria dello stampo, suggellando il legame e tramandando la storia. “Il vaso era frutto di una contaminazione trasversale come si usava ai tempi, si applicavano all’alimentare modelli di mercati diversi: era un vetro destinato a una boccetta di profumo della Belle Époque, dava un’idea di esclusività alla senape come gourmandise dell’epoca. Un vetro sinuoso, dalle forme femminili, che porta impresso il nome, come indicazione del prodotto che avrebbe contenuto” come si usava quando le etichette non erano così usate. Non è solo il vetro del vasetto a essere immutato dai tempi: “La senape come tutte le nostre ricette - a parte le nuove inserite negli ultimi anni - è fatta come allora, seguendo una ricetta chiusa in cassaforte che conosciamo noi della famiglia e Gianni, il nostro ‘uomo della senape’, fidatissimo collaboratore che sta con noi da quaranta anni e ora sta trasmettendo le sue competenze affiancando i giovani". La seconda guerra mondiale non aveva fermato la produzione, ma dopo pochi anni il signor Thomy morì lasciando che la Helvetia SPA Varese venisse gestita dalla famiglia Geiser, la stessa della “G” del primo surrogato. Anni di boom economico e nuove abitudini nella case degli italiani, anni in cui si introdussero novità nella produzione della Orco: nel 1954 il tubetto in alluminio per contenere la maionese e la senape si affiancava all’iconico vaso, l’anno successivo Gusto, il nome per una nuova bevanda che potesse sostituire il caffè, imperversava lungo le tappe del Giro d’Italia con un bar viaggiante, nel 1958 la pasta di acciuga nel tubetto. Erano anni di fervore e sviluppo, anni che portarono la Helvetia a un entusiasmo produttivo di nuove referenze che non avranno lo stesso successo delle salse. Le difficoltà si affacciano alla fine dei ’70, quando gli stabilimenti erano divisi fra Varese, Novara e Moncalieri, anni di finanze non solide. Accidentalmente la famiglia Corno trovò nello stabilimento di Novara un luogo di stoccaggio per i suoi prodotti, “come era comune una volta, le crisi industriali venivano gestite nell’ottica della continuità. La mia famiglia rilevò insieme allo stabilimento di Novara anche il piccolo gioiello che è la sede liberty di Varese”, prosegue nel racconto la signora Claudia. Inizia così per la famiglia Corno nel 1982 il primo esperimento con un prodotto che aveva un marchio potente, “la nostra famiglia veniva dalla zootecnia, un mondo senza brand e abbiamo trovato un’azienda che non aveva mai smesso di produrre, frizzante nelle sue attività: un’azienda tutto sommato sana che aveva solo bisogno di risorse".
Nella nuova ‘Prodotti ORCO Società Alimentare Helvetia Varese’ si mantiene fin dal nuovo nome la continuità con il passato, nel pieno rispetto del lavoro e delle ricette di chi li ha preceduti, mantenendo saldo l’impegno nella qualità che non era mai mancato. Affiancati da due persone della vecchia azienda hanno iniziato i genitori della generazione oggi alla conduzione: “Ci hanno messi alla prova per vedere se riuscivamo a volare con le nostre ali” e da anni ormai si dividono la leadership con rispetto e comprensione del lavoro altrui. “Le aziende sane sono quelle che hanno uno sguardo limpido sul progetto industriale, che alimentano il rispetto per le lunghe storie del passato. L’azienda è qualcosa di diverso dalle persone che la gestiscono e la abitano, va preservata a tutti i costi - sottolinea Claudia Corno per rinsaldare il valore umano dei collaboratori, anche al di là del lavoro -. Se c’è un’incrinatura nella capacità di gestione va sanata immediatamente perché tutti abbiamo a mente come la cosa più importante sia portare l’azienda nel futuro e allo stesso tempo preservare l’armonia familiare: noi siamo fortunati in modo straordinario, può essere una fortuna o una condanna lavorare in famiglia, ma io sono molto orgogliosa di avere come partner un fratello con il quale andiamo molto d’accordo anche se abbiamo temperamenti diversi". Claudia e Matteo si dividono i compiti “in maniera osmotica rispettando i confini delle nostre competenze, condividiamo tutte le decisioni e il progetto: siamo sostituiti nel caso in cui succedesse qualcosa”.“Per la senape la ricetta non è mai cambiata: aceto di vino rosso italiano (a differenza della Dijon che impiega aceto di alcol e ha un gusto più pungente), un blend di semi di senape gialli e neri provenienti dal Canada, regione votata alla sua coltivazione per qualità e pulizia. Noi lavoriamo il grado 1 pulito al 99,99% e il sapere si tramanda nelle mani e nella sensibilità”. Il blend di semi viene dapprima triturato per essere ridotto in polvere grossolana e poi emulsionato con aceto e spezie in miscela segreta quindi, passando per un primo mulino, viene distribuita nelle sei molazze come la storicità della lavorazione impone. Mole in granito di 25cm di diametro che ruotano continuativamente una sull’altra girano oggi come allora. Da qui l’emulsione a gocciolamento viene lavorata e, una volta giunta a una certa temperatura, estromessa in forma di crema spalmabile. “Il processo è invariato dell’origine, custodito nella bellezza della continuità con il passato che abbiamo integralmente rispettato per portarlo nel futuro: nelle mani di Gianni, ‘uomo della senape’, la conoscenza di anni, la sapienza di gesti ripetuti, la sensibilità dell’esperienza. Sono gesti ripetuti del processo artigianale custoditi fra le mani: aprire e chiudere la dosatura delle emulsioni nelle molazze in movimento è affidata all’operatore, così come la regolazione della velocità ed è solo questione di sensibilità.” Sono vari i fattori che possono influire sulla riuscita del prodotto, come la luce, le giornate più calde o più umide, “tutti elementi che influenzano la riuscita, ma il solo fattore che riesce a compensarli è la conoscenza dell’artigiano, l’uomo con le sue mani esperte”. Un ultimo passaggio nelle vasche di decantazione per quaranta giorni è “la prima stagionatura, prevista sin dagli anni ’20 affinché gli ingredienti trovino una piena amalgama e gli olii essenziali naturalmente presenti nei semi possano evaporare leggermente, facendo risaltare anche le note aromatiche delle spezie”. Questo perché, sin dalla sua nascita l’intenzione e la pubblicità narravano una senape di gusto italiano e come sottolinea Claudia Corno “la cucina italiana è ricca e declinata nella varietà, non si voleva una salsa di copertura o di attribuzione dei sapori, ma una salsa di accompagnamento, un compendio nei piatti”. Un modo per emanciparsi dalla tradizione francese delle salse e per porre distanza dalla versione austroungarica: “In Italia la salsa è a bordo piatto, non entra nella ricetta: la frequenza della salsa è edonismo, un guizzo o un rinforzo nei sapori". Quella che è stata ai tempi la prima azienda salsiera italiana nel corso dei suoi 110 anni di vita si è trovata a dover fronteggiare la concorrenza, tenendo saldo in ogni suo momento il vantaggio competitivo di un processo che è riuscito a unire il valore artigianale con il progresso delle tecnologie. Con l’ingresso delle nuove salse negli anni ha saputo mantenersi al passo con i tempi, dalla pasta di acciuga in tubetto che per prima si è affiancata alla senape è stata poi raggiunta dalla maionese con la lista degli ingredienti ridotta all’osso; con la famiglia Corno dal 1988 approda sul mercato la pasta di capperi di Pantelleria. “Cerchiamo di difendere questa coltivazione, cultivar esclusiva dell’isola: nocellara a testa di lucertola così chiamato per la forma ogivale della testa del cappero. È minacciato dalla modernità e dal cambiamento del lavoro negli ultimi decenni, vive nella difficoltà di difendere il terreno agricolo” e consapevoli del pregio e del valore che abbia, ORCO ne fa una pasta saporita e profumata. Ogni anno almeno due lanci di prodotti nuovi, dalle salse a base di maionese a quelle dal sapore etnico con uno sguardo alla tradizione mediterranea come aioli, tonnata, cocktail, tartara, sandwich fino alla barbecue che accompagna i rub per la marinatura. “Siamo orgogliosi e anche un po’ piccati, le intuizioni sono difficili da difendere, se non impossibili. La monodose nasce in modo casuale: con mia sorella eravamo all’università, ci rendevamo conto che il barattolo o il tubetto erano dimensioni scomode. Eravamo giovani, attente alla dieta ma volevamo appagarci con una salsa, così è nata l’idea di portare al consumo la monoporzione che non esisteva sul mercato retail” ed escogitano questo formato comodo un po’ per tutti. “È stata l’innovazione più interessante nel mercato delle salse, capace di mantenere la freschezza e la fragranza, riduce gli sprechi e i 15 grammi di salsa appagano il gusto anche nelle diete più rigide dove la senape è consentito come condimento.”Le pesanti mole in granito continuano a ruotare lentamente, con quel ritmo placido che garantisce continuità e costanza, incessanti da 110 anni “al fianco delle mani dei nostri collaboratori, nello stesso reparto di un tempo. Escono dalle loro mani le salse e vanno verso il mercato, sono queste mani preziose che danno valore alla senape ORCO e ai suoi prodotti”. Un cucchiaio del presente affonda nella storia delle salse italiane e spalmandosi come un velo fra memoria e futuro aiuta a rendere piacevole il presente




Spumante? No, Franciacorta. Così in 50 anni è nata la risposta italiana allo Champagne

MANUELA ZENNARO
Il Franciacorta è un Metodo Classico 
Una sola parola per definire un vino dall'identità profonda e il territorio che gli permette di nascere. La degustazione: 20 bottiglie da non perdere




Si snoda lungo 18 comuni che compongono la provincia di Brescia, cuore pulsante della Franciacorta, già definita svariati anni or sono da Hugh Johnson e Jancis Robinson nell’Atlante Mondiale dei Vini “Produttrice del miglior spumante italiano ottenuto con metodo classico”. E pensare che nel XVI secolo la Franciacorta era zona di produzione per lo più di vini fermi, poco appetibili e con scarsa fortuna in termini di commercializzazione. Solo alla fine degli anni Cinquanta arriva la felice intuizione e viene sviluppata la produzione di vini base destinati alla spumantizzazione. Il riconoscimento della Denominazione Franciacorta giunge nel 1967, e in poco tempo l’intera area acquisisce sempre maggiore interesse agli occhi di numerosi imprenditori che si lanciano nell’acquisto dei terreni vitati, accorgendosi ben presto che la produzione inizialmente pensata per un consumo poco più che familiare può abbondantemente andare oltre, e costituire un reddito.
Negli anni Ottanta arrivano gli investimenti, quelli veri, da parte di acquirenti avveduti che subito scelgono di affidarsi alle mani esperte di professionisti ed enologi in grado di massimizzare la qualità del prodotto. Da allora l’escalation è costante, il numero dei produttori è vigorosamente aumentato, e il Consorzio Tutela Franciacorta costituito negli anni Novanta ha segnato l’ingresso nell’era moderna.
Uve per Franciacorta “In 50 anni di storia la Franciacorta ha tagliato molti traguardi importanti, bruciando le tappe – racconta Maurizio Zanella, Presidente dell’azienda Ca’del Bosco -. Ciò è stato possibile grazie all’intuizione, alla coesione e, soprattutto, allo spirito di sacrificio dei suoi produttori/agricoltori (non esistono industriali - senza vigna - e cantine sociali) che sono stati capaci di darsi delle regole semplici, chiare e molto severe dotandosi del Disciplinare più rigido al mondo per questa tipologia di vino, valorizzando così al massimo le uve che questo territorio magico e ineguagliabile ci regala. Il Franciacorta non è uno spumante (menzione vietata dalla legge europea): è il Franciacorta. 30 anni fa era la Cenerentola italiana in termini dimensionali dietro a Canelli, Trento ed Oltrepò; oggi è in testa con il doppio dei volumi (17,5 milioni) rispetto alla seconda e con un prezzo medio che è circa il 40 % superiore a quello delle altre zone. Non si può tuttavia dormire sugli allori. In futuro l’impegno dei produttori dovrà essere costante per regalare ai consumatori vini sempre migliori grazie alla maggiore età dei vigneti e, soprattutto, alla più lunga tradizione e maggior competenza raggiunta dai nostri uomini.”
Le regole stabilite dal Disciplinare di produzione della Docg Franciacorta sono precise, e in particolare impongono l’utilizzo del metodo classico (rifermentazione in bottiglia), definiscono le varie tipologie (Franciacorta, Satèn, Rosé, Millesimato, Riserva), e le uve che possono entrare nella composizione del vino, raccolte a mano da metà agosto a inizio settembre. Chardonnay, Pinot nero, e fino al 50% di Pinot bianco, fatta eccezione per il Satèn per il quale non è previsto l’utilizzo del Pinot nero. Il prodotto base può contenere vini di annate diverse, mentre nel Millesimato e nella Riserva deve essere presente l’85% di vino dell’annata indicata. A caratterizzare ulteriormente i vari Franciacorta è il dosaggio, che indica la quantità di zuccheri (grammi/litro) presente nel liqueur d’expedition (sciroppo di dosaggio) aggiunto dopo la sboccatura. Le differenti tipologie in ordine crescente di residuo zuccherino si distinguono in Pas dosé (Dosaggio zero), Extra brut, Brut, Extra dry, Sec o Dry, Demi sec. Sono infine diversi anche i tempi di affinamento, che dall’avvenuto imbottigliamento variano da un minimo di 18 mesi per il Franciacorta base, ad almeno 60 mesi per la Riserva.
In vigna, altrettanto importante è entrare in contatto con la terra, come spiega Pia Donata Berlucchi, dell’azienda Fratelli Berlucchi: “Dal 1967, anno della prima Doc della Franciacorta, la vera testimonianza della storia di questo fazzoletto di terra, gioiello dell’enologia mondiale, l’hanno resa i produttori che per primi hanno saputo leggere nei segni naturali del terreno, e investire in quello che in prima battuta poteva sembrare solo un piccolo sogno bucolico dal sapore famigliare. Imprenditoria prettamente lombarda, questa volta rivolta alla terra, coraggio da diventare quasi sfida, hanno dato da subito frutti promettenti spingendo le cantine storiche artefici di questa svolta alla continua ricerca quasi spasmodica verso il meglio, attraverso serietà e severità di regole divenute ormai proverbiali”. Oggi, dopo gli anni della difficoltà che pure la Franciacorta vinicola ha sentito e sofferto, pare si sia riaperta la buona stagione che, nonostante i problemi atmosferici della scorsa primavera 2017, lascia il momentaneo pessimismo per riaprire le menti, i cuori, le passioni “verso la ricerca continua di perfezione, sempre meglio, sempre di più, con la cocciutaggine di chi non demorde mai, e, se cade, si rialza più coraggioso di prima” continua Pia Donata Berlucchi.
“Ora si parla di lancio del territorio, questa Lombardia che pochi sanno sia così ricca di arte e di cultura: 11 siti Unesco, abbazie, castelli, dimore storiche, paesini quasi fiabeschi, cibi e vini antichi ed attuali, una ricchezza di grandi valori finora forse un po’ dimenticati. La Franciacorta ne è proprio al centro”. Quale futuro prossimo, ma pure immediato? “La ricerca e lo studio su come si possa ancora migliorare il principe della Franciacorta, ‘il Franciacorta’, continuano, la sfida al meglio non si ferma mai! Insieme, aprire ancora di più la Franciacorta agli ospiti e ai turisti, mostrando, raccontando, spiegando ciò che l’Uomo, nella ricchezza e versatilità della sua intelligenza, ha saputo fare nei secoli, espressione straordinaria di sinergia fra natura e mente umana. Il vino è una grande espressione dell’arte, unito alla cultura, ne raggiunge il vertice”.
Si può, a ragione, parlare di fenomeno Franciacorta, della capacità di interpretare uno stile personalissimo che si è fatto strada in Italia e nel mondo, con rigore e nella consapevolezza di poter dire la propria ed essere considerato un player di primo piano nei mercati internazionali. La comune visione dei 116 produttori aderenti al Consorzio Tutela Franciacorta ha dato vita a una squadra da Champions League, oggi capitanata dal Presidente Vittorio Moretti: “L’obiettivo con cui è nato il nostro Consorzio è lo stesso che ci guida oggi, ossia fare del Franciacorta lo spumante italiano, in grado di competere all’insegna della naturalezza, della qualità e della piacevolezza sui mercati internazionali. Un’espressione, cioè, dell’eccellenza del made in Italy, dove si fondono passione, creatività, competenza e impegno, in vigna e in cantina”.
I risultati ottenuti sino ad ora premiano il lavoro e la visione dei 116 produttori associati per l’apprezzamento che il Franciacorta è riuscito ad ottenere in Italia, e su alcuni mercati internazionali particolarmente attenti all’eccellenza e all’italian style, a cominciare dal Giappone. “Ora stiamo accostandoci con il nostro prodotto a nuovi mercati e a nuovi consumatori – aggiunge Moretti - dagli Stati Uniti alla Gran Bretagna, fino alla Cina e all’Estremo Oriente. Ma il Franciacorta vuole anche essere espressione di questo straordinario territorio che, con le nostre vigne, abbiamo contribuito a disegnare: un territorio che ambisce sempre più a proporsi quale luogo di accoglienza per un turista che abbini la ricerca enogastronomica con il contatto con la natura, l’arte, la storia e la cultura. Lungo questa direzione vogliamo proseguire il nostro impegno: nel rispetto per la tradizione, che emerge anche dal nostro Disciplinare; nell’amore per la terra e la naturalità del prodotto, testimoniata dal metodo biologico a cui è stato già convertito oltre il 70% dei nostri vigneti; nella consapevolezza dell’unicità e dell’identità che questo territorio, il suo lago e le sue colline, sanno esprimere”.


e concludiamo per questa settimana sempre con il vino



La sapienza tutta siciliana del Grillo Parlante   
LAURA DI COSIMO
 Lorenza Scianna 
La storia di Lorenza Scianna, un'enologa che si è innamorata del vino sotto i tramonti di Trapani e ora guida la cantina di Fondo Antico

La scelta della siciliana Lorenza Scianna di fare studi enologici è maturata nel vivere la bellezza del paesaggio agricolo intorno alla sua casa, luoghi cari d’infanzia dove ogni anno trascorreva le vacanze estive con la famiglia. Tramonti dai colori intensi, il profumo del mare, e quelle distese di vigneti con scorci sullo Stagnone, la grande laguna nel comune di Marsala in provincia di Trapani.


Dopo la laurea in viticoltura e enologia a Palermo e la specializzazione alla facoltà di Torino, è subito chiamata a far parte dello staff tecnico della Fondo Antico di Giuseppe Polizzotti, azienda vinicola che conta ottanta ettari di vigneti nel trapanese. Agli inizi, desiderosa (e volenterosa) di imparare affianca il consulente di cantina di allora Vincenzo Bambina, firmando la sua prima vendemmia nel 2004. Quando diventa l’unica enologa, con una sensibilità tutta femminile, sente forte il senso di responsabilità per il suo gruppo di lavoro.
  Lorenza Scianna 

"L’essere donna, in un settore dove le maestranze sono state per anni prevalentemente maschili, ha significato un iniziale bisogno della loro approvazione. Nel tempo ho compreso che creare una squadra è acquisire sicurezza, contando sul proprio ruolo e sulle competenze di ognuno" spiega Lorenza.
Lo stile della produzione che cura per la cantina Fondo Antico è ben espresso nel vino bianco Grillo Parlante, da uve Grillo in purezza, nitidi profumi fruttati e vivace sapidità al gusto. "Nei miei primi passi la conquista era fare un vino buono e tecnicamente corretto, dopo ho cercato molto di più: un aroma più tipico, una struttura più elegante, fino ad arrivare a quella verità del vino che si riassume nell’efficace termine francese terroir, cioè clima/territorio e tanto altro".

La storia professionale di Lorenza si è intrecciata spesso con il suo percorso personale: cercava un’identità nei vini e (forse) ha trovato anche la sua.

23.4.21

anche il gusto ha delle storie dietro .storie di varia umanità e del territorio ( parte 1 ) da i 40 anni della locanda di don Gallo a Le ragazze del caffè della Casa circondariale femminile di Pozzuoli

 lo so che  sono storie prese dalla rete  ma  è   grazie ala rete  che  esse  evitano d'essere dimenticate    e vengono salvate  dall'oblio  e fatte  conoscere  al grande  pubblico  . Ma  soprattutto  si    dimostra    che  noi italiani   abbiamo oltre  ( anche se  non  sempre  sappiamo valorizzarlo   e  lo svendiamo   alle multinazionali estere  o  peggio lo delocalizziamo  in paese   esteri  dove i costi sono maggiori   spacciandolo poi come originali  )   delle rochezze   che  vanno oltre  il classico stereotipo  :  pizza  , mandolino , spaghetti .
Da   essendo tante  quello che ho  scoperto  cazzeggiando in rete   ho  scelto  di  pubblicare   ben due   parti  d'esse  . Iniziamo  .

Le storie sono tratte da  https://www.gediwatch.it/ 

Umanità a tavola: i 40 anni della locanda di don Gallo A' Lanterna è stata la sua prima impresa sociale: ha ospitato a Genova premi Nobel e artisti, ma anche diseredati. Perché a pranzo, diceva don Andrea, tutti sono uguali



 Così è nata in Puglia la scogliera corallina Un tesoro di biodiversità si estende dalle Tremiti allo Ionio: i ricercatori di Bari hanno scoperto che è stato creato da coralli e ostriche, come nei mari tropicali
 
 Il paese dei pennarelli che vive di colori Settimo Torinese è il cuore di un distretto in cui trent’anni fa operavano 150 aziende. Dalle stilografiche alle penne a sfera, un mondo che non si arrende al digitale
 
 Condividere e non comprare: la biblioteca delle cose Tutto è nato dai vicini di casa che si prestavano qualche utensile. Ora hanno aperto due sedi a Palermo. Un’esperienza a metà tra welfare cittadino ed
ecologia

 

 ed  dalla newsletter   altre  storie di  Mario Calabresi < altrestorie@mariocalabresi.com >




Le ragazze del caffè
                                di Anna Dichiarante


«Il caffè era l’idea perfetta: legata alla tradizione partenopea, ma non banale». Imma Carpiniello riavvolge il nastro dei ricordi fino al 2010, quando decise di fondare la Cooperativa Lazzarelle e di cimentarsi nelle vesti di imprenditrice all’interno del carcere di Pozzuoli, uno dei quattro istituti penitenziari interamente femminili d’Italia: «Ho cominciato a frequentare la Casa circondariale tramite l’Osservatorio sulle condizioni di detenzione e ho potuto ascoltare le esperienze delle donne che ci vivevano. Ho notato quanto fossero deluse dalle opportunità limitate ed estemporanee di formazione o lavoro. Allora ho pensato di costruire qualcosa che fosse stabile e che non ricadesse nello stereotipo delle classiche occupazioni muliebri». Da quel giorno, i corsi di découpage cedettero il posto a una torrefazione. A cui, oggi, si affianca un bistrot nel centro storico di Napoli.



Le lavoratrici della Cooperativa Lazzarelle preparano le confezioni di caffè nella torrefazione che gestiscono all’interno della Casa circondariale femminile di Pozzuoli


Così, a Pozzuoli si applica il dettato della legge sull’ordinamento penitenziario. L’articolo 20 di quel testo stabilisce che il lavoro, fondamento della nostra Repubblica, debba essere favorito in ogni modo anche all’interno delle carceri. Anche qui dev’essere remunerato, non afflittivo e organizzato con gli stessi metodi adottati nella società libera. Princìpi che faticosamente vengono tradotti in pratica per circa un terzo della popolazione carceraria. Tra risorse insufficienti e ripercussioni del sovraffollamento, a incontrare maggiori difficoltà nel vedersi riconosciuto tale diritto sono le donne: una minoranza (poco più del 4% sul totale dei detenuti) di solito relegata in sezioni dentro agli istituti maschili e spesso destinata a raccogliere le briciole del trattamento. Predisporre appositamente per loro le diverse attività mirate alla rieducazione non sempre conviene.
Eppure, la rotta si può invertire. Imma l’ha dimostrato. E l’ha dimostrato la Cooperativa Alice con la “Sartoria San Vittore”, aperta nel 1992 nella sezione femminile dell’omonima Casa circondariale milanese. A questo laboratorio, dove si confeziona abbigliamento secondo i dettami della moda sostenibile, si sono aggiunti quelli nelle carceri di Bollate e Monza: oltre 450 donne hanno potuto formarsi, lavorare e intraprendere percorsi di reinserimento sociale; molte, dopo aver scontato la pena, hanno proseguito la riabilitazione nella sede esterna della cooperativa. Ma la loro peculiarità è la produzione di toghe per magistrati e avvocati. Le detenute cuciono il tessuto nero con i bordi in raso o in velluto, decorano i bavaglini con il pizzo, eseguono le plissettature a mano: ciascun punto dato con ago e filo rammenda lo strappo tra loro e il mondo della giustizia. Sono in migliaia a indossare le loro creazioni nelle aule di corti e tribunali.
A Venezia, invece, nella Casa di reclusione femminile della Giudecca dal 2001 nascono i cosmetici delle quattro linee a marchio “Rio Terà dei Pensieri” (dal nome della cooperativa che gestisce i laboratori). Sotto la supervisione di un responsabile tecnico, le detenute producono creme, shampoo, gel doccia, sapone e profumi che derivano da formule originali. L’offerta è ampia: dagli articoli naturali a quelli per bambini, fino ai set personalizzati per alberghi e bed&breakfast. Una parte delle materie prime, peraltro, arriva direttamente dall’orto curato da altre detenute nei seimila metri quadrati di terreno di cui l’istituto dispone. Quaranta varietà di ortaggi, frutta, fiori ed erbe aromatiche sono le eccellenze di agricoltura biologica che si trovano in vendita una volta alla settimana presso il banchetto allestito dalle stesse coltivatrici.


I sacchi con i chicchi di caffè pronti per essere lavorati nella torrefazione delle Lazzarelle


Poi c’è il modello Pozzuoli, appunto. «La torrefazione – racconta Imma – ha preso forma grazie agli spazi concessi in uso nel carcere dall’Amministrazione penitenziaria e grazie ai fondi regionali per startup con cui abbiamo acquistato i macchinari, allacciato le utenze e sostenuto il primo anno. Era un ambito inesplorato per tutte noi e ho chiesto aiuto a miei amici, mastri torrefattori napoletani. Ci hanno consigliato nella scelta dell’attrezzatura, ci hanno insegnato come distinguere i tipi di caffè e come miscelarli. Certo, all’inizio abbiamo combinato qualche guaio… Mentre scaricavamo i sacchi di caffè, persino gli agenti di polizia penitenziaria ci guardavano perplessi. Eravamo una novità, entravamo in un mercato dominato dagli uomini. Tant’è vero che il termine “torrefattrice” indica la macchina, non la persona. Ma noi siamo riuscite ad affinarci, a superare le diffidenze di fornitori e clienti, ad affermarci puntando su qualità e affidabilità».


La torrefazione delle Lazzarelle, nel carcere della cittadina alle porte di Napoli


Le Lazzarelle (adolescenti un po’ pazzerelle nel dialetto napoletano) sono cresciute. In un decennio, circa sessanta detenute si sono passate il testimone e hanno imparato il mestiere in torrefazione. Vengono impiegate in gruppi di tre o quattro, tutte sono assunte, seguite e guidate al momento della liberazione. «Molte di loro non hanno mai lavorato o l’hanno fatto senza un contratto – spiega Imma – quasi nessuna perde l’occasione di cambiare vita, se il carcere le fornisce gli strumenti adeguati. In generale, le statistiche mostrano che il 68% di chi non ha lavorato durante la detenzione riprende a delinquere; il tasso di recidiva, invece, scende a livelli marginali tra chi si è confrontato con una professione. E lo stipendio consente di provvedere alle spese di mantenimento. Altrimenti si esce dalla cella con lo stigma e con il debito verso il Ministero della Giustizia».


L’interno del bistrot che la Cooperativa Lazzarelle ha inaugurato nel luglio 2020 nella Galleria Principe di Napoli


La pandemia ha complicato le cose e ha provocato una contrazione della domanda di caffè. Adesso nella torrefazione è operativa una sola detenuta. Imma e le altre, però, non demordono. La scorsa estate si sono armate di coraggio e hanno inaugurato, a Napoli, il “Lazzarelle Bistrot”: «È la nostra vetrina, il luogo “fuori” dove la gente può darci un volto e dove le ragazze mettono in pratica le competenze acquisite “dentro”».
Le origini del progetto risalgono al 2015, quando la cooperativa partecipò a un bando per la rigenerazione urbana. Due anni più tardi, le fu assegnato un locale all’ingresso della Galleria Principe di Napoli: il più antico corridoio commerciale del capoluogo campano, costruito nella seconda metà dell’Ottocento, si trova di fronte al Museo archeologico nazionale e all’Accademia di Belle Arti, ma anche vicino al Conservatorio di San Pietro a Majella, al Teatro Bellini e ad alcuni dipartimenti universitari. Uno scorcio di città dall’aria parigina, adatto per il bistrot. Così, dopo aver atteso che fosse smontata l’impalcatura per il restauro di una facciata della Galleria e dopo aver incassato la promessa di finanziamento da parte delle Fondazioni Charlemagne e San Zeno, nel futuro bar delle Lazzarelle partì la ristrutturazione.
Dopo poche settimane, però, un timpano della Galleria si sgretolò. Calcinacci, imbragatura, accertamenti. Tutta la struttura fu chiusa per il pericolo di ulteriori crolli e soltanto nel giugno del 2019, con la stesura delle reti anti-caduta, fu riaperta. «Eravamo bloccate – riprende Imma – non c’erano informazioni su come si sarebbe evoluta la situazione e l’incertezza spinse una delle fondazioni a investire altrove il denaro stanziato per noi. Fortunatamente, riemerse dallo stallo, abbiamo via via recuperato anche il finanziamento». Nonostante gli ostacoli, nel febbraio 2020 il “Lazzarelle Bistrot” era pronto a servire le prime tazzine di espresso. Ma il virus si avvicinava e Imma aveva intuito che era meglio non esagerare con le scorte in dispensa. Il Paese era sull’orlo della quarantena.


L’esterno del “Lazzarelle Bistrot”, nella Galleria Principe di Napoli, in uno dei giorni di lockdown


«L’attività era congelata, ma l’affitto andava pagato – ammette la fondatrice della cooperativa – non potendo più rimandare, a luglio ci siamo buttate e abbiamo tagliato il nastro! Pur nell’alternanza dei periodi di lockdown, siamo riuscite a restare aperte ricorrendo ad asporto e consegne a domicilio o funzionando come bottega. Solo da marzo ci siamo fermate, perché i costi sarebbero stati eccessivi. Il bilancio complessivo, comunque, è soddisfacente». Imma vuole essere ottimista, soprattutto per le detenute che lavoreranno nel bistrot: «A pieno regime saranno quattro. Finora abbiamo potuto impiegarne una, Teresa, che è stata in torrefazione e ha ottenuto il beneficio del lavoro all’esterno. A fine pena si conclude anche il rapporto con noi, è la regola per garantire l’avvicendarsi delle ragazze e per lasciare che quelle tornate libere conquistino la loro autonomia. In carcere si smarriscono l’indipendenza e la consapevolezza delle proprie abilità».


I tavolini del “Lazzarelle Bistrot” affollati nel periodo di apertura estiva


A confortare Imma è la risposta positiva del pubblico. Innanzitutto, della rete sociale che nel tempo le Lazzarelle hanno intessuto da Nord a Sud e che ha assicurato continuità sia nelle vendite di caffè sia nel rifornimento. «Acquistiamo i chicchi da importatori che rispettano i diritti dei contadini e il nostro marchio viene scelto da numerose realtà del mondo equo e solidale. Poi c’è il circuito carcerario, dove compriamo le specialità per il bistrot: dai biscotti sfornati dai minorenni del “Malaspina” di Palermo ai taralli prodotti nel reparto maschile ad alta sicurezza di Trani. Naturalmente l’aspetto etico si accompagna alla qualità. Anche se scoprono il nostro locale per curiosità o per caso, i clienti devono affezionarsi perché ciò che offriamo è buono. È il motivo per cui ho coinvolto nella squadra la chef Marcella Tagliaferri».


Da sinistra: Marcella Tagliaferri, chef del “Lazzarelle Bistrot”, Imma Carpiniello, fondatrice della Cooperativa Lazzarelle, e Teresa, lavoratrice della torrefazione poi passata al bistrot


Il bistrot, quindi, è stato immaginato come un trampolino di lancio per la rinascita delle detenute. «Per certi versi, il loro destino è parallelo a quello della Galleria – dice Imma – questo angolo di Napoli è stato a lungo abbandonato nel degrado, mentre se ne dovrebbero sfruttare le potenzialità. In effetti, qualcosa sta cambiando: si sono tenute delle mostre all’aperto, ci sono negozi nuovi ed è bello vedere il viavai di persone. Prima i cancelli venivano sbarrati alle 20, da quando c’è il bistrot chiudono più tardi. Purtroppo mi preoccupa la battuta d’arresto subita dal turismo a causa della pandemia. E non solo per il nostro giro d’affari. La maggioranza delle ex detenute aveva trovato lavoro nella ristorazione o nella filiera ricettiva, ma parecchie l’hanno perso nell’ultimo anno».

(Foto @ros_enbata)



Il 29 dicembre 2020 veniva uccisa Agitu Ideo Gudeta, la regina delle capre felici.

Il 29 dicembre 2020 veniva uccisa la regina delle capre felici.È stata ferocemente uccisa Agitu, la regina delle capre felici, con un colpo...