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7.11.24
17.9.18
Ottant'anni fa le leggi razziali. E a Trieste una locandina diventa un caso ed il sindaco ne vieta la mostra
dall'unione sarda
Oggi alle 15:26 - ultimo aggiornamento alle 16:33

Gli effetti delle leggi razziali. (Wikimedia Commons)
Sarebbe dovuta partire proprio in questi giorni a Trieste la mostra "Razzismo in cattedra", a 80 anni esatti dal Regio Decreto che varò i provvedimenti contro gli ebrei italiani. Un tributo per ricordare una pagina infame della nostra storia, scritta da Benito Mussolini con l'avallo di re Vittorio Emanuele III, per allineare l'Italia alle politiche antisemite dell'alleato Adolf Hitler.
Ma la mostra organizzata dal liceo Petrarca di Trieste in collaborazione con l'Università cittadina, il Museo della Comunità ebraica e l'Archivio di Stato, non avrà luogo, a causa delle polemiche scoppiate tra gli organizzatori e il sindaco Roberto Dipiazza.
Motivo dello scontro la locandina dell'evento, un immagine che ritrae tre ragazze sorridenti e la prima pagina de Il Piccolo del settembre 1938 con l'annuncio della cacciata di studenti e insegnanti ebrei dalle scuole.
"Quando ho visto quel titolo del Piccolo dell'epoca, così estremamente pesante, e quella scritta sul razzismo mi è sembrato esagerato - commenta il primo cittadino di Trieste - Dico io, dobbiamo ancora sollevare quelle cose?". Da qui la convocazione della dirigente scolastica del Petrarca e la revoca delle sale comunali che avrebbero dovuto ospitare "Razzismo in cattedra", con uno strascico mediatico in cui si è inserito anche Enrico Mentana, con un post amaro in risposta alle parole di Dipiazza: "Sì sindaco, oggi più che mai, e quelle sue parole feriscono. Non solo, ma non smetto di guardare quel manifesto, e non capisco con che cuore, con che animo e con che raziocinio lei lo abbia potuto definire 'esagerato'. È storia, purtroppo. La nostra".
Una storia che non può essere rimossa e che per la gravità delle sue conseguenze deve anzi esser ricordata e trasmessa alle nuove generazioni. Anche con una mostra.

La locandina della mostra "Razzismo in cattedra"
18 SETTEMBRE 1938: E L'ITALIA SI SCOPRÍ ANTISEMITA -Proprio a Trieste, da un palco davanti al Municipio, Benito Mussolini annunciò i contenuti delle leggi razziali che avrebbero cambiato la vita dei circa 40mila ebrei italiani, avviando quella spirale micidiale di violenza cui seguirono le deportazioni di massa.
Quei pochi che "fiutarono" in anticipo il clima persecutorio lasciarono il Paese, ma per la maggior parte degli ebrei italiani partì una vera e propria caccia alle streghe, preannunciata nel luglio del '38 dal documento della "razza ariana italiana" redatto da illustri personalità accademiche. Il manifesto dell'antisemitismo italiano, scritto personalmente da Mussolini, nel quale si rivendica orgogliosamente di essere "razzisti" e si escludono ufficialmente gli ebrei dalla "razza" italiana.
"PROVVEDIMENTI PER LA DIFESA DELLA RAZZA ITALIANA" - Con il Regio Decreto, approvato dal Consiglio dei ministri nel novembre del '38, si bandirono i matrimoni misti e si vietò agli ebrei di possedere aziende, terreni e immobili di un certo valore, di essere impiegati nell'amministrazione pubblica, enti, istituti e banche, prestare il servizio militare e svolgere professioni di carattere intellettuale.

Un numero della rivista fascista
LE LEGGI RAZZIALI E LA SCUOLA - Tra i settori della vita pubblica maggiormente colpiti dai provvedimenti antisemiti ci fu la scuola, con il divieto di ammissione agli studenti ebrei e la "cacciata" degli insegnanti e dei dipendenti non "ariani", anticipando persino la Germania hitleriana, che sarebbe arrivata a un simile provvedimento solo alcuni mesi dopo.
E la sospensione dall'attività colpì anche docenti universitari e ricercatori, per un totale di circa 300 "epurati" dagli atenei italiani, tra cui eminenti studiosi e accademici di fama internazionale, che nel migliore dei casi riuscirono a proseguire l'insegnamento fuori dall'Italia o entro i confini dello Stato Vaticano.
Non ci fu il sostegno o la solidarietà dei colleghi, che spesso andarono a ricoprire le cattedre rimaste vacanti o firmarono le pubblicazioni al posto dei legittimi autori ebrei, che anzi si sperticarono per dimostrarsi pienamente "italiani" e arrivarono a denunciare colleghi ebrei membri di Accademie e Istituti scientifici, artistici e culturali.
Unica eccezione da ricordare è quella di Benedetto Croce, che all'invito a compilare i moduli "della vergogna" rispose con amaro umorismo: "L'unico effetto della richiesta dichiarazione sarebbe di farmi arrossire, costringendo me, che ho per cognome Croce, all'atto odioso e ridicolo insieme di protestare che non sono ebreo, proprio quando questa gente è perseguitata". E pensare che tra i membri di uno di questi enti illustri, l'Accademia dei Lincei, figurava anche "un certo" Albert Einstein.
(Unioneonline/b.m.)
14.10.17
La storia del fascista che salvò tutti gli ebrei che poteva. Solo perché era giusto
La storia del fascista che salvò tutti gli ebrei che poteva. Solo perché era giusto
da http://www.huffingtonpost.it/ del 15/10/2015 10:13 CEST | Aggiornato 15/10/2016 11:12 CEST
Vittorio Pavoncello
Vittorio Pavoncello
Presidente della Federazione Italiana Maccabi

AGF
Si avvicina il 16 ottobre, una data imprescindibile per ciascun ebreo romano. La data della razzia, della deportazione di migliaia di ebrei italiani da parte dei tedeschi. Ogni anno le storie, nei ricordi di quelle poche persone ancora in vita, riprendono corpo, si rianimano.
Solitamente sono storie che si raccontano durante una cena di Shabbat, in occasioni particolari. Questa volta, invece, ne sono venuto a conoscenza in un modo insolito, una storia che mai avevo sentito, che mai era stata raccontata. Un incontro fortuito al lavoro, con una persona discreta, schiva, riservata, forse timida. Si finisce a parlare di ebrei, perché era lì che il mio interlocutore voleva arrivare.
"Mio nonno il 16 ottobre salvò molti ebrei", mi dice. Perché ne parla a me? Mi consegna un fogliettino con il nome del nonno, lo liquido, quasi bruscamente e torno alle mie cose. Dimentico questo episodio. Ogni tanto, però, svuoto le mie tasche dai mille fogliettini che le popolano. Esce fuori il biglietto con il nome e comincio a curiosare su Internet.
Qualcosa comincia ad uscire e mi imbatto in questa storia. Il 16 ottobre del 1943, un sabato piovoso, il ghetto di Roma è circondato dalle SS; decine di camion ne bloccano le uscite. Con in mano la lista degli ebrei da deportare, forse fornita dalla polizia fascista, casa per casa, comincia il rastrellamento.
Pochi giorni prima l'ufficio toponomastico del Comune di Roma, aveva cambiato, per alcuni edifici il numero civico. Fu così per la famiglia Limentani, a Via Sant'Elena, dietro Via Arenula. Quel giorno, il capofamiglia sente i rumori, si ricorda delle confessioni, non credute, di alcuni coinquilini e si affaccia.
Realizza che, nonostante le rassicurazioni di Kappler e i 50 chili d'oro, la deportazione degli ebrei è iniziata. Ordina alla moglie e alle sue tre figlie di indossare il loro migliore vestito e decidono di dividersi. Mamma e papà Limentani escono dal portone come nulla fosse e le ragazze dovranno andare in casa di un ingegnere che aveva promesso aiuto in caso di bisogno, pochi piani sotto al loro.
Una promessa fatta a troppe persone, perché, nella piccola casa dell'ingegnere, erano già nascosti altri ebrei. Non c'è posto per tutte e tre le sorelle Limentani, soltanto la piccola Giuliana riesce ad entrare. Intanto i nazisti si arrabbiano con l'anziano portiere che non comprende il tedesco, ottengono ciò che vogliono e si dirigono verso casa Limentani.
Mirella e Marina si sentono perdute, quando però, sul pianerottolo, si apre una porta. Un uomo, in camicia nera, le fa entrare nella sua casa. Ferdinando Natoni, un fascista duro e puro, un "fascista de fero", uno che non aveva in simpatia gli ebrei e con il quale la famiglia Limentani non aveva mai scambiato due parole. Arrivano i tedeschi e Natoni dice loro che quelle due ragazze sono figlie sue, cosa che non convince i militari.
Perché, si domandano i militari, quelle due ragazze sono vestite di tutto punto e gli altri componenti della famiglia sono ancora in pigiama? Natoni gli sventola davanti la tessera del Partito Fascista e i soldati battono in ritirata. Non contento il Natoni scende in strada, deciso a salvare quanti più ebrei gli è possibile. Ma le SS che erano in casa sua, vedendolo prodigarsi per liberare altri ebrei, hanno un ripensamento, realizzano che è troppo giovane per avere due figlie così grandi. Fra la disperazione dei famigliari, viene arrestato dai nazisti.
Solo il suo alto grado nella milizia fascista gli salva la vita, viene scagionato e rilasciato. Torna a casa e non trova le due ragazze che, nel frattempo, i genitori miracolosamente scampati alla retata, erano tornati a riprendersi. A fine guerra la famiglia Limentani si salvò e ogni 16 ottobre, per ricordare quel magnifico gesto, portavano doni alla casa del Natoni.
Per un parente stretto dei Limentani sembrava riduttivo che la gratitudine nei confronti di Natoni si esaurisse con dei semplici doni. Avrebbe voluto che questa storia fosse raccontata e che Ferdinando Natoni ricevesse il premio per tale coraggioso comportamento, essere riconosciuto come Giusto tra le Nazioni e ricevere la Medaglia dei Giusti. Cosa che puntualmente avvenne, nel novembre del 1994.
Proprio mentre l'allora Capo Rabbino di Roma, Elio Toaff, stava per consegnare la medaglia, Natoni gli disse: "Devo precisare che però al fascismo io ci credo ancora, sono e resto fascista e lo sarò per sempre!". Toaff gli sorrise e gli disse: "Dispiace soltanto di non avere, qui con me, due medaglie, una per lei e l'altra alle sue parole, per l'onestà che lei ha dimostrato nell'esprimerle". Il fascista Ferdinando Natoni, che non aveva esitato a mettere in pericolo la sua vita e quella dei suoi famigliari per salvare degli ebrei dalla deportazione, solo perché non lo riteneva giusto.
Non è importante l'appartenenza politica, il credo religioso. L'animo è importante, il cuore è importante, quello che ti fa fare le cose giuste solo se sei onesto, integro, coerente. Una bella storia, come quella di Romolo Balzani, il più famoso cantante romano di quel periodo, che donò alla Comunità ebraica di Roma, impegnata a raggiungere i famosi 50 chili d'oro, l'unica cosa di valore che il padre gli avesse lasciato.
Una storia di uomini di valore oltre qualsiasi steccato. propri come dice il commento di

Salvatore Santoru ·
Università degli Studi di Sassari
Non è importante ciò in cui uno crede o le sue caratteristiche esteriori, ma le sue azioni. Purtroppo spesso e volentieri si legge la storia e la politica secondo i propri pregiudizi ideologici e non ci si concetra sulle persone. Questa storia dimostra come non mai il fatto che esistevano fascisti criminali e fascisti buoni,come questo Natoni o Perlasca così come esistevano antifascisti buoni come antifascisti criminali, e per quanto bisogna sempre tener presente che il fascismo fu un regime che indubbiamente fece dei danni (così come il socialismo reale nell'Europa e nel mondo), bisognerebbe al più presto abbandonare i soliti triti e ritriti odi ideologici che nostalgici del fascismo e cosiddetti antifascisti animano sempre e comunque pur di sviare dai reali problemi dell'Italia, che non avrebbe bisogno di guardare a un passato finito da un bel pezzo ma piuttosto di guardare al presente e al futuro

AGF
Si avvicina il 16 ottobre, una data imprescindibile per ciascun ebreo romano. La data della razzia, della deportazione di migliaia di ebrei italiani da parte dei tedeschi. Ogni anno le storie, nei ricordi di quelle poche persone ancora in vita, riprendono corpo, si rianimano.
Solitamente sono storie che si raccontano durante una cena di Shabbat, in occasioni particolari. Questa volta, invece, ne sono venuto a conoscenza in un modo insolito, una storia che mai avevo sentito, che mai era stata raccontata. Un incontro fortuito al lavoro, con una persona discreta, schiva, riservata, forse timida. Si finisce a parlare di ebrei, perché era lì che il mio interlocutore voleva arrivare.
"Mio nonno il 16 ottobre salvò molti ebrei", mi dice. Perché ne parla a me? Mi consegna un fogliettino con il nome del nonno, lo liquido, quasi bruscamente e torno alle mie cose. Dimentico questo episodio. Ogni tanto, però, svuoto le mie tasche dai mille fogliettini che le popolano. Esce fuori il biglietto con il nome e comincio a curiosare su Internet.
Qualcosa comincia ad uscire e mi imbatto in questa storia. Il 16 ottobre del 1943, un sabato piovoso, il ghetto di Roma è circondato dalle SS; decine di camion ne bloccano le uscite. Con in mano la lista degli ebrei da deportare, forse fornita dalla polizia fascista, casa per casa, comincia il rastrellamento.
Pochi giorni prima l'ufficio toponomastico del Comune di Roma, aveva cambiato, per alcuni edifici il numero civico. Fu così per la famiglia Limentani, a Via Sant'Elena, dietro Via Arenula. Quel giorno, il capofamiglia sente i rumori, si ricorda delle confessioni, non credute, di alcuni coinquilini e si affaccia.
Realizza che, nonostante le rassicurazioni di Kappler e i 50 chili d'oro, la deportazione degli ebrei è iniziata. Ordina alla moglie e alle sue tre figlie di indossare il loro migliore vestito e decidono di dividersi. Mamma e papà Limentani escono dal portone come nulla fosse e le ragazze dovranno andare in casa di un ingegnere che aveva promesso aiuto in caso di bisogno, pochi piani sotto al loro.
Una promessa fatta a troppe persone, perché, nella piccola casa dell'ingegnere, erano già nascosti altri ebrei. Non c'è posto per tutte e tre le sorelle Limentani, soltanto la piccola Giuliana riesce ad entrare. Intanto i nazisti si arrabbiano con l'anziano portiere che non comprende il tedesco, ottengono ciò che vogliono e si dirigono verso casa Limentani.
Mirella e Marina si sentono perdute, quando però, sul pianerottolo, si apre una porta. Un uomo, in camicia nera, le fa entrare nella sua casa. Ferdinando Natoni, un fascista duro e puro, un "fascista de fero", uno che non aveva in simpatia gli ebrei e con il quale la famiglia Limentani non aveva mai scambiato due parole. Arrivano i tedeschi e Natoni dice loro che quelle due ragazze sono figlie sue, cosa che non convince i militari.
Perché, si domandano i militari, quelle due ragazze sono vestite di tutto punto e gli altri componenti della famiglia sono ancora in pigiama? Natoni gli sventola davanti la tessera del Partito Fascista e i soldati battono in ritirata. Non contento il Natoni scende in strada, deciso a salvare quanti più ebrei gli è possibile. Ma le SS che erano in casa sua, vedendolo prodigarsi per liberare altri ebrei, hanno un ripensamento, realizzano che è troppo giovane per avere due figlie così grandi. Fra la disperazione dei famigliari, viene arrestato dai nazisti.
Solo il suo alto grado nella milizia fascista gli salva la vita, viene scagionato e rilasciato. Torna a casa e non trova le due ragazze che, nel frattempo, i genitori miracolosamente scampati alla retata, erano tornati a riprendersi. A fine guerra la famiglia Limentani si salvò e ogni 16 ottobre, per ricordare quel magnifico gesto, portavano doni alla casa del Natoni.
Per un parente stretto dei Limentani sembrava riduttivo che la gratitudine nei confronti di Natoni si esaurisse con dei semplici doni. Avrebbe voluto che questa storia fosse raccontata e che Ferdinando Natoni ricevesse il premio per tale coraggioso comportamento, essere riconosciuto come Giusto tra le Nazioni e ricevere la Medaglia dei Giusti. Cosa che puntualmente avvenne, nel novembre del 1994.
Proprio mentre l'allora Capo Rabbino di Roma, Elio Toaff, stava per consegnare la medaglia, Natoni gli disse: "Devo precisare che però al fascismo io ci credo ancora, sono e resto fascista e lo sarò per sempre!". Toaff gli sorrise e gli disse: "Dispiace soltanto di non avere, qui con me, due medaglie, una per lei e l'altra alle sue parole, per l'onestà che lei ha dimostrato nell'esprimerle". Il fascista Ferdinando Natoni, che non aveva esitato a mettere in pericolo la sua vita e quella dei suoi famigliari per salvare degli ebrei dalla deportazione, solo perché non lo riteneva giusto.
Non è importante l'appartenenza politica, il credo religioso. L'animo è importante, il cuore è importante, quello che ti fa fare le cose giuste solo se sei onesto, integro, coerente. Una bella storia, come quella di Romolo Balzani, il più famoso cantante romano di quel periodo, che donò alla Comunità ebraica di Roma, impegnata a raggiungere i famosi 50 chili d'oro, l'unica cosa di valore che il padre gli avesse lasciato.
Una storia di uomini di valore oltre qualsiasi steccato. propri come dice il commento di

Salvatore Santoru ·
Università degli Studi di Sassari
Non è importante ciò in cui uno crede o le sue caratteristiche esteriori, ma le sue azioni. Purtroppo spesso e volentieri si legge la storia e la politica secondo i propri pregiudizi ideologici e non ci si concetra sulle persone. Questa storia dimostra come non mai il fatto che esistevano fascisti criminali e fascisti buoni,come questo Natoni o Perlasca così come esistevano antifascisti buoni come antifascisti criminali, e per quanto bisogna sempre tener presente che il fascismo fu un regime che indubbiamente fece dei danni (così come il socialismo reale nell'Europa e nel mondo), bisognerebbe al più presto abbandonare i soliti triti e ritriti odi ideologici che nostalgici del fascismo e cosiddetti antifascisti animano sempre e comunque pur di sviare dai reali problemi dell'Italia, che non avrebbe bisogno di guardare a un passato finito da un bel pezzo ma piuttosto di guardare al presente e al futuro
futuro
20.4.17
In nome del popolo Italiano vi ricorda qualcosa oltre le frasse espressa dai giudici che leggono le sentenze ed il film omonimo del 1971?
N.B
L so che dovrei usare parole mie , ma spesso ( più di quanto s'immagini ) capita che qualche compagno\a di strada \ di viaggio,ma anche no , arrivi prima di te e lo esprimo meglio
concordo con quando scroiv e sulla sua bachec a di facebook Giampaolo Cassitta quando dice : << C'è gente che in nome dell’antica purezza e dell’orgoglio nazionale chiede di boicottare i negozi stranieri e scrive dei manifesti davvero imbarazzanti. In quei manifesti c’è tutta l’ignoranza, la protervia, la piccolezza, il razzismo insito e mai del tutto sopito di chi, davvero, pensa agli uomini in termini di “razza” e prova a utilizzare anche la parola popolo: “Aiuta il tuo popolo”. C’è da chiedersi dove queste
persone abbiano vissuto in questi ultimi anni. Se per caso siano stati ibernati e non abbiano capito che il “popolo” è divenuto in un mondo totalmente globalizzato un’accezione completamente diversa da quelle che essi immaginano.>> riferendosi alla notizia del nuovo squadrismo avvenuto a Roma qualche tempo fa
Infatti egli è ancora più incisivo e più chiaro in questo articolo ripreso oltre che sulla nuova sardegna del 20\4\2017 sul suo sito http://www.giampaolocassitta.it/
In nome del popolo italiano ?
L so che dovrei usare parole mie , ma spesso ( più di quanto s'immagini ) capita che qualche compagno\a di strada \ di viaggio,ma anche no , arrivi prima di te e lo esprimo meglio
concordo con quando scroiv e sulla sua bachec a di facebook Giampaolo Cassitta quando dice : << C'è gente che in nome dell’antica purezza e dell’orgoglio nazionale chiede di boicottare i negozi stranieri e scrive dei manifesti davvero imbarazzanti. In quei manifesti c’è tutta l’ignoranza, la protervia, la piccolezza, il razzismo insito e mai del tutto sopito di chi, davvero, pensa agli uomini in termini di “razza” e prova a utilizzare anche la parola popolo: “Aiuta il tuo popolo”. C’è da chiedersi dove queste

Infatti egli è ancora più incisivo e più chiaro in questo articolo ripreso oltre che sulla nuova sardegna del 20\4\2017 sul suo sito http://www.giampaolocassitta.it/
In nome del popolo italiano ?
Provate questo gioco: controllate dove è stato prodotto il vostro smartphone, le vostre scarpe alla moda, le calze, le camicie, probabilmente anche le cravatte, i jeans, alcuni abiti firmatissimi, le macchine fotografiche, televisori, forni a microonde, magliette, palloni, zaini. Provateci e vi renderete conto che il made in Italy rappresenta una cifra davvero minimale. Ma vi renderete conto che anche il made in Eu, ovvero il prodotto europeo, rappresenta una piccola quota.
Tutto è fortemente delocalizzato nei paesi dell’Est e, soprattutto, nell’area cinese e asiatica. Importiamo anche molte cose dal Brasile e dal Messico firmate da stilisti italiani. E siamo felici, orgogliosi che la nostra moda, i nostri brand siano apprezzati all’estero, ma non ci rendiamo conto che sono addirittura manufatti fuori dal mercato europeo. Non è una novità. E’ il mercato, bellezza.
Cose note e discusse da persone molto più informate e preparate di me. Infatti voglio parlare di un altro aspetto che però mi obbligava a questa premessa: c’è gente che in nome dell’antica purezza e dell’orgoglio nazionale chiede di boicottare i negozi stranieri e scrive dei manifesti davvero imbarazzanti.
In quei manifesti c’è tutta l’ignoranza, la protervia, la piccolezza, il razzismo insito e mai del tutto sopito di chi, davvero, pensa agli uomini in termini di “razza” e prova a utilizzare anche la parola popolo: “Aiuta il tuo popolo”. C’è da chiedersi dove queste persone abbiano vissuto in questi ultimi anni. Se per caso siano stati ibernati e non abbiano capito che il “popolo” è divenuto in un mondo totalmente globalizzato un’accezione completamente diversa da quelle che essi immaginano. Ma il cartello dice altro: “Boicotta i negozi stranieri. Sostieni le attività commerciali italiane del tuo quartiere.
E qui ho sorriso.
Il gruppo di “Azione frontale” – pare una sigla di ultradestra nata dalle costole di “Forza Nuova”- ha sistemato questi cartelli in un quartiere popolare e multietnico di Roma, variegato e ben disposto alle miscelazioni delle culture. Scrivere “il tuo popolo” in un luogo dove la popolazione è equamente divisa e stratificata in nazionalità diverse è davvero esilarante, ma pretendere di boicottare i negozi stranieri e sostenere solo le attività commerciali gestite da italiani è comunque azzardato per una serie di motivi: perché dovremmo farlo? Chi mi garantisce, per esempio, che l’italiano paga le tasse e non mi truffi? Chi può sostenere che la qualità di ciò che vende l’italiano è migliore di quella venduta in un altro negozio?
Il bellissimo film di Ettore Scola “Concorrenza sleale” racconta la storia di due commercianti romani ai tempi del fascismo. Uno di essi era ebreo. La lotta era quotidiana è basata sulla qualità della merce. Quando il fascismo promulga le leggi razziali e l’ebreo è costretto a chiudere il negozio, il suo collega romano si ribella perché ritiene che proprio quella legge sia concorrenza sleale.
Già, la sana concorrenza che oggi è legata solo al prezzo più basso e non importa dove e come è prodotta. Comprare “italiano” aiuta senz’altro l’economia del nostro paese che è però incardinato in un contesto europeo o mondiale.
Il problema di questi strani incantatori di serpenti vacilla davanti alla coerenza che non riescono, neppure per un attimo a mantenere.
Chi ha scritto il manifesto probabilmente ha una moto giapponese, stivali americani, sciarpe irlandesi e fuma sigarette di multinazionali statunitensi.
Una volta ricordo una discussione con un conoscente che si dichiarava indipendentista sardo convinto: mangiava hamburger e vestiva come uno sceriffo. Almeno il maialetto, per un minimo di coerenza, lo poteva prevedere nel suo strano menu.
Tutto è fortemente delocalizzato nei paesi dell’Est e, soprattutto, nell’area cinese e asiatica. Importiamo anche molte cose dal Brasile e dal Messico firmate da stilisti italiani. E siamo felici, orgogliosi che la nostra moda, i nostri brand siano apprezzati all’estero, ma non ci rendiamo conto che sono addirittura manufatti fuori dal mercato europeo. Non è una novità. E’ il mercato, bellezza.
Cose note e discusse da persone molto più informate e preparate di me. Infatti voglio parlare di un altro aspetto che però mi obbligava a questa premessa: c’è gente che in nome dell’antica purezza e dell’orgoglio nazionale chiede di boicottare i negozi stranieri e scrive dei manifesti davvero imbarazzanti.
In quei manifesti c’è tutta l’ignoranza, la protervia, la piccolezza, il razzismo insito e mai del tutto sopito di chi, davvero, pensa agli uomini in termini di “razza” e prova a utilizzare anche la parola popolo: “Aiuta il tuo popolo”. C’è da chiedersi dove queste persone abbiano vissuto in questi ultimi anni. Se per caso siano stati ibernati e non abbiano capito che il “popolo” è divenuto in un mondo totalmente globalizzato un’accezione completamente diversa da quelle che essi immaginano. Ma il cartello dice altro: “Boicotta i negozi stranieri. Sostieni le attività commerciali italiane del tuo quartiere.
E qui ho sorriso.
Il gruppo di “Azione frontale” – pare una sigla di ultradestra nata dalle costole di “Forza Nuova”- ha sistemato questi cartelli in un quartiere popolare e multietnico di Roma, variegato e ben disposto alle miscelazioni delle culture. Scrivere “il tuo popolo” in un luogo dove la popolazione è equamente divisa e stratificata in nazionalità diverse è davvero esilarante, ma pretendere di boicottare i negozi stranieri e sostenere solo le attività commerciali gestite da italiani è comunque azzardato per una serie di motivi: perché dovremmo farlo? Chi mi garantisce, per esempio, che l’italiano paga le tasse e non mi truffi? Chi può sostenere che la qualità di ciò che vende l’italiano è migliore di quella venduta in un altro negozio?
Il bellissimo film di Ettore Scola “Concorrenza sleale” racconta la storia di due commercianti romani ai tempi del fascismo. Uno di essi era ebreo. La lotta era quotidiana è basata sulla qualità della merce. Quando il fascismo promulga le leggi razziali e l’ebreo è costretto a chiudere il negozio, il suo collega romano si ribella perché ritiene che proprio quella legge sia concorrenza sleale.
Già, la sana concorrenza che oggi è legata solo al prezzo più basso e non importa dove e come è prodotta. Comprare “italiano” aiuta senz’altro l’economia del nostro paese che è però incardinato in un contesto europeo o mondiale.
Il problema di questi strani incantatori di serpenti vacilla davanti alla coerenza che non riescono, neppure per un attimo a mantenere.
Chi ha scritto il manifesto probabilmente ha una moto giapponese, stivali americani, sciarpe irlandesi e fuma sigarette di multinazionali statunitensi.
Una volta ricordo una discussione con un conoscente che si dichiarava indipendentista sardo convinto: mangiava hamburger e vestiva come uno sceriffo. Almeno il maialetto, per un minimo di coerenza, lo poteva prevedere nel suo strano menu.
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