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6.11.13

strage di nassyria dieci anni dopo parlano 5 vedove

Voglio proporre  , anticipando quel fiume di retorica  e  becero nazionalismo   che  ci sarà   tra qualche giorno  per  il deccenale  dei fatti di nassyria  un articolo interessante senza quella  retorica ( almeno da parte della giornalista ) che invaderà tra qualche giorno i media internet compreso . Un articolo che ho giudicato  come : << un articolo pessimo perchè non viene , come sempre si parla di nassyria , di Adele Parillo compagna del regista morto con i militari .ma solo delle vedove di militari . >> Ma  poi  la  risposta  della giornalista Emanuela Zuccalà   di io donna del corriere del  a sera su una bacheca  di un amica  comune  che aveva  condiviso  l'articolo  : << 


.Emanuela Zuccalà Avrei tanto voluto intervistare anche Adele, perche' conosco bene la sua storia. L'ho cercata, ci siamo parlate, e lei con grande gentilezza e sincerita' mi ha spiegato perche' non se la sentiva di comparire. Cosi' anche la vedova di Marco Beci, l'altro civile vittima della strage.

Giuseppe Scano Grazie delle informazioni.leggero con vivo interesse l.articolo mi scuso x giudizio affrettato


>>

 mi ha indotto   a rileggermi l'articolo   che sotto  riporto   e quindi a cambiare  giudizio espresso a caldo   ed   ritornare  ed  a rafforzare la mia opinione che  m'ero fatto  su tale evento   che ho  appreso sia   corrispondendo  via fb  con Adele  Parrillo     sia  leggendo  ( oltre  che a sentirli  quandoi erano venuti a presentare   qui a tempio il libro  )    20 sigarette  a  nassyria  . Un libro  che  si legge in un ora per la fluidità e schiettezza con cui è scritto ( anche se io , causa tristezza , piangevo ad ogni pagina ci ho messo 2 giorni ) da cui l'autore ha tratto il film omonimo http://it.wikipedia.org/wiki/20_sigarette

DIECI ANNI DOPO

Noi, vedove di Nassirya

Il 12 novembre 2003 un camion-bomba devastò la base Maestrale causando una strage. Come ha trascorso questo decennio chi, quel giorno, vide saltare in aria il proprio amore e la propria vita?

di Emanuela Zuccalà - 28 ottobre 2013



8.40, 12 novembre 2003. Alessandra e Monica lavorano. Paola va in palestra, Miriam alle prove in teatro, Margherita dal pediatra. A 4mila chilometri, un camion-bomba uccide i loro mariti, carabinieri in missione in Iraq. Sono passati dieci anni dalla strage alla base Maestrale di Nassiriya: 19 morti italiani (12 carabinieri, 5 soldati e 2 civili), 9 iracheni, 19 feriti gravi. Dieci anni di memoria collettiva a fasi alterne. E di inchieste: l’ideatore dell’attacco viene impiccato in Iraq; tre alti militari italiani, accusati di non aver difeso la base, sono assolti. I familiari di 7 vittime si costituiscono parte civile e la Cassazione riconosce il loro diritto a un risarcimento. Ma com’è trascorso il decennio nel privato di chi, quel giorno, ha visto saltare in aria il proprio amore e la propria vita? 

PAOLA COEN GIALLI

69 anni, moglie del maresciallo luogotenente Enzo Fregosi
«Un ragazzo atletico si tuffava da un trampolino altissimo, in uno stabilimento qui a Livorno: si accorse del mio sguardo affascinato e, con la classica scusa del fiammifero per la sigaretta, mi si avvicinò. Era il 1972. Io mi ritengo fortunata: ho avuto il tempo di godere di mio marito, i miei figli hanno imparato tanto da lui ed Enzo è morto nel pieno del suo vigore, senza invecchiare. Lo so, le suona strano ciò che dico...». Paola è livornese; Enzo, di La Spezia, è stato fra i fondatori del Gis, il Gruppo di intervento speciale dei carabinieri. Nel 2003 aveva 56 anni ed era comandante del Nas: «Voleva concludere la carriera in bellezza, con una missione all’estero. Del suo corpo non è rimasto nulla». Restano i bei ricordi e tre oggetti da cui Enzo non si separava mai, ma prima di partire per l’Iraq li ha lasciati a casa: «Oggi io ho la sua fede nuziale, mio figlio Pietro la catenina e mia figlia Allegra un anello». L’immagine più nitida del 12 novembre è di lei che corre su un’auto dei carabinieri a sirene spiegate, per raggiungere la figlia a Firenze prima che apprenda la notizia della morte del padre dalla televisione. Oggi Paola è fra coloro che si sono costituiti parte civile al 

processo e sperano nella medaglia d’oro. Ha un solo rimpianto: «Nella base vivevano in condizioni durissime, la chiamavanoAnimal House, tanto era malmessa. Lui però non faceva trapelare nulla e io al telefono gli parlavo di stupidaggini, dei nostri cani, delle feste di compleanno...». Solo ora Paola si commuove.



ALESSANDRA SAVIO 
51 anni, moglie del maresciallo Filippo Merlino

«Non sentivo nulla, come se mi fosse colato addosso del ghiaccio. Di quei giorni ricordo solo mio padre che mi accarezza i capelli e Miriam (moglie di Daniele Ghione, ndr) che grida ai funerali. Per un anno ho atteso che lui entrasse da quella porta». Sulla porta una targa recita La casa di Penelope, ma oggi l’attesa di Alessandra è un’altra: quella della medaglia d’oro al valor militare. «L’hanno promessa allora, mi appello al presidente della Repubblica perché ce la conceda. E l’ultima sentenza della Cassazione fa finalmente luce su responsabilità e omissioni. Nassiriya è il nostro 11 settembre: un attacco all’Italia. I caduti meritano questo riconoscimento ». Alessandra incontra Filippo a 15 anni. Corre in motorino e lui, carabiniere lucano di stanza al Nord, la ferma. La corteggia, la sposa nell’85. Abitano a Viadana, nel Mantovano. Cinque anni dopo nasce Fabio, affetto da un’atrofia muscolare che lo costringe in sedia a rotelle. «Filippo alternava il comando della caserma alle missioni all’estero per poter costruire una casa su misura per lui». Ma alla vigilia dell’Iraq appare insolitamente teso. 
Le dice: «Non sarà una missione come le altre». «Rinuncia» abbozza lei. Filippo è lapidario: «Non posso». «L’ho visto per l’ultima volta il 13 luglio 2003, era il mio compleanno e lui ci raggiunse a Ischia per festeggiare». Fabio oggi è impiegato nella caserma di Viadana, la stessa del padre, ed è solare e positivo nonostante la disabilità. Lei ancora rabbrividisce alla parola vedova: «Di Filippo Merlino, io sono la moglie».


MARGHERITA CARUSO 
43 anni, moglie del brigadiere Giuseppe Coletta


«Si amavano da quando erano ragazzini ad Avola, in Sicilia, e nel ’97 avevano condiviso la sofferenza più atroce, la morte per leucemia del primo figlio Paolo, a sei anni. «Negli occhi dei bambini che incontrava nelle missioni all’estero, lui ritrovava Paolo. Aiutandoli, leniva il suo dolore ». Ma l’11 novembre del 2003, quando Giuseppe telefona come ogni sera, lei lo avverte freddo, distante. «Mi sono svegliata all’alba con un groppo in gola, finché le notizie hanno iniziato a rincorrersi... Mi guardavo allo specchio e non mi vedevo, tanto era lo strazio». Margherita ha una fede cattolica granitica, in quelle ore tremende dichiara il perdono per gli assassini del suo amore e spedisce incubatrici all’ospedale di Nassiriya. «Mi davano della pazza, ma io dovevo rispondere a quell’atto inumano con l’amore, altrimenti sarei morta». Torna ad Avola con la seconda figlia, che oggi ha 12 anni, e finanzia un orfanotrofio in Burkina Faso. Scrive due libri (con Lucia Bellaspiga, 
edizioni Ancora: l’ultimo è Nassiriya fonte di vita ). «Tre anni fa mi sono trasferita a Roma, ad Avola ero cristallizzata nel ruolo di “vedova di”, e io volevo tornare a vivere». Oggi ha un compagno. «È un amore grande che convive con quello per Giuseppe, mi batte ancora il cuore per lui». Lei non si è costituita parte civile al processo: «Non avrei potuto mettermi contro l’Arma, Giuseppe era tutt’uno con la divisa, si è fusa con la sua pelle, quando è saltato in aria. È un eroe non per com’è morto, ma per come ha vissuto».


MIRIAM AGRESTA 
36 anni, moglie del maresciallo capo Daniele Ghione

«E' difficile scindere i ricordi di lui da ciò che è accaduto dopo: così forte, così pesante». Daniele aveva 31 anni e Miriam 26, la più giovane delle vedove di Nassiriya. Quella che, ai funerali di Stato nella Basilica di San Paolo a Roma, gridava come impazzita per un disguido sui posti a sedere. Aveva gridato anche il 12 novembre, dopo ore a sentirsi dire che suo marito era disperso. Infine la notizia, lei scagliava via il telefono, dava pugni al frigorifero. Piombava in un buco nero, e ha lottato a lungo per riemergere. Lei e Daniele erano di Finale Ligure, Miriam aveva scelto Roma per la sua carriera di ballerina, mentre lui era assegnato al reggimento di Gorizia. «Stava chiedendo il trasferimento a Roma. Non ha fatto in tempo». Lei schiva rabbiosa le interviste, e lascia subito il mondo dello spettacolo. «Non esisteva più la ragazzina che viveva in una favola con il suo principe azzurro. Sono cresciuta di colpo e mi sono indurita». E si tiene fuori dai processi. «Mi sarei fatta del male» dice. Oggi insegna ginnastica ed è tornata a Finale. Il suo compagno è carabiniere, anche lui, e conosceva bene Daniele. Hanno una bimba di quattro anni. «Le parlo dello zio Daniele, la porto al cimitero, e lei chiama nonni i suoi genitori. Lo so, è difficile da comprendere, ma anche se ho una nuova vita, io sarò sempre la signora Ghione». 
In sala, accanto alla foto della sua nuova famiglia, c’è un primo piano di Daniele. Guardandolo, la tensione di Miriam si scioglie in un sorriso.



MONICA CABIDDU 
42 anni, moglie dell’appuntato Andrea Filippa
«
Poco tempo prima avevo sognato che una bomba dilaniava il suo braccio destro. All’obitorio, sollevando il lenzuolo e vedendo che l’unica parte offesa era proprio quella, ho avuto un brivido». Quella mattina Andrea Filippa era di guardia alla base Maestrale, protetto da sacchi di sabbia, solo il braccio destro era scoperto, per sparare al camion-bomba. Senza le sue raffiche di mitra, il mezzo sarebbe penetrato all’interno distruggendo più vite. «Andrea ha solo fatto il suo lavoro» sussurra Monica, che lo amava da 11 anni e, dalla loro Torino, lo aveva seguito a Gorizia. Lui era nel 13° Reggimento dei Carabinieri, specializzato in missioni all’estero; lei faceva l’insegnante di sostegno. «Era stato in Bosnia, Kosovo, Eritrea. Ma quando mi ha annunciato l’Iraq, non ho parlato per tre giorni, qualcosa mi si era già spezzato dentro». Andrea è stato l’ultimo a essere ritrovato nella base sventrata, «Un burlone, fino alla fine...». All’inizio Monica non mangia, non vive. Finché incontra un altro carabiniere, sta indagando sull’attentato, è



un uomo rassicurante, e lei lentamente torna ad assaporare sentimenti ed emozioni. Oggi continua a insegnare e vive con il compagno a Ladispoli, vicino a Roma: «Volevo il mare». A lei la medaglia d’oro non interessa. «Lo Stato mi ha già accudita molto e tanto lui non torna». In salotto, le altre medaglie ricevute dal marito sono in una vetrina, accanto a una foto di lui in divisa, con la frase dei loro momenti difficili: «Se mi ami, non piangere».

31.8.13

Come la propria permalosità "danneggia" anche chi non c'entra .

          .

Sule note   della belissima    , specie in questa  versione di Slash & Myles Kennedy ,  Sweet Child O' Mine


I  fatti che m'accingo a raccontare   sono veri   ma per  ovvi motivi (  di privacy  ,  di lavoro  , ecc  . Ma soprattutto per    il carattere  , della persona in questione da qui il titolo del post  )=   modificati e traformati  . Ed  ho  ricorso alla forma letteraria  . Ora  dopo questa premessa  andiamo al post









C'era una volta un negozio di fiori che faceva oltre le normali confezioni e boquet decide d'aggiungervi anche una corona per le lauree .Un giorno venne una ragazza che voleva un bouquet di fiori per la festa di laurea. Le commesse le proposero oltre il bouquet 
da Google

gli proposero anche una corona d'alloro.
da  yahoo.it

Essa  accetto'contenta  . Qualche giorno dopo il lieto evento ritorno in negozio per  ringraziare della bella figura fatta  con amici\che  e  familiari  , oltre che per  far vedere le foto  , portando  per  le gentilissime commesse   la sua bomboniera di laurea 
la  bomboniera  in questione  


Loro , non essendo le padroni del negozio e quindi decidere di lasciarla nel negozio ( il piano terra di un edificio degli anni 20\30 ristrutturato\ riadattato a negozio ) la portarono con il relativo incasso della giornata ai padroni che avrebbe deciso cosa farne se lasciarla in negozio o tenerla a casa o metterla in un angolo fra le tante carabattole o chi sa cos'altro . Sul fare dell'ora di cena , il figlio dei proprietari , tornato dalla passeggiata serale , vide sul tavolo di soggiorno tale oggetto . Ed ecco che chiese alla madre cosa fosse . La madre : << è una bomboniera 
di laurea che ci ha regalato una cliente >> . Il figlio chiese : << perchè allora e qui e non i negozio ? >> si vide rispondere : << perchè è una cosa pacchiana  per il negozio >> . La madre riprese a cucinare con la TV accesa . Il figlio se la prese e la mette , insieme ad altri oggetti di cui è appassionato \ collezionista sulle mensole della libreria della sua camera . 
Qualche temo dopo chiacchierando con le commesse , di cui una si occupava della pesca di beneficenza per la classe del **** della festa patronale della madonna di buon cammino ,di bomboniere e regali e altre cose di cattivo gusto\ kitsch di cui la gente si libera regalandole appunto a tali lotterie o " agli svuota solai " che si ritrovano fra le bancarelle dalla primavera all'autunno nelle feste e altre iniziative turistiche dei paesi ., gli capitò di parlare di quel regalo e  di  come  la madre   rispose  alle  sue  domande  del perchè  non la  si  metteva  in negozio  . Ed inconsciamente , senza accorgersi che dietro di lui era entrato come cliente  qualcuno\a ( familiare , parente , o amico\ca  conoscente ) del  regalo della  persona in questione  e delle discussioni     con relativo scambio di pareri per  lui  bello   per la madre   dozzinale  . Infatti la settimana dopo , una collega di lavoro , gli disse facendogli il pistolotto per le sue intemperanze verbali e la sua impulsività , che quella persona era andata a lamentarsi in giro contro i proprietari del negozio e indirettamente contro le commesse e che non ci sarebbe più tornata perchè eravamo statio cosi cafoni . Ma .......... 



A voi indovinare fra queste opzioni


22.7.12

il peso delle parole di enrico tagliaferro

 mi cospargo il capo di cenere  per  aver  condiviso e messo mi piace    sul  mio facebook ad  un idiozia  del genere   e  non aggiungo altro  all'articolo   dell'amico  Enrico    che trovate sotto  se  non questo  video    di un regista cervellotico    e geniale  allo stesso tempo   che  Nanni moretti





 buona lettura

Il peso delle parole

Sulla prima pagina di “Libero” di ieri  Filippo Facci, in dichiarata sintonìa col sottoscritto, ha lanciato una provocazione. Speriamo che porti a qualcosa di positivo.
Il tema è piuttosto spinoso:  il riporto giornalistico, più o meno strumentale o più o meno infedele,  delle parole e dei pensieri dei nostri eroi di Stato, mediato o tramandato da chi gli era vicino allorchè essi erano ancora in vita.
In questo caso a sollevare la nostra attenzione, è stato un “aforisma” attribuito a Paolo Borsellino e pubblicato come una lapide in decine di migliaia di pagine del web, che recita:
Mi uccideranno, ma non sarà una vendetta della mafia, la mafia non si vendica. Forse saranno mafiosi quelli che materialmente mi uccideranno, ma quelli che avranno voluto la mia morte saranno altri.”
In questi giorni di commemorazione del ventennale della morte di Paolo Borsellino, l’impiego di questo aforisma nelle pagine di internet, è letteralmente esploso. (cercandolo con google, compaiono migliaia di link).
Sono state realizzate composizioni d’effetto, poster e immagini votive, e centinaia e centinaia di cittadini lo hanno inserito, in memoria del magistrato, nelle pagine dei propri blog, dei forum, dei profili, ecc.. ecc..
La seguente composizione fotografica, su Facebook, ha superato le 10.000 condivisioni da parte di altrettanti utenti.
Ma ve ne sono anche altre, altrettanto suggestive:
Qualcuno poi ha realizzato delle composizioni artistiche di pregevole fattura, come il fotografo fiorentino Davide Bellanti che in questo suo scatto molto suggestivo ha inserito anche un’immaginaria riproduzione della famosa Agenda Rossa, aperta sulla pagina dove compare il nostro aforisma manoscritto e firmato in calce da Paolo Borsellino:

Ora, tutto questo onorare e ricordare queste parole di Paolo Borsellino,  assume un aspetto un po’ grottesco se si pensa ad un piccolo dettaglio che ora noi, come già Filippo Facci nel suo corsivo su Libero, ci permettiamo di segnalare:  queste parole, scritte a quel modo, in realtà non possono appartenere a Paolo Borsellino.
Per la verità c’è un solo episodio in cui Borsellino risulta avere espresso parole vagamente simili, ma, come vedremo ,dal significato molto diverso.
A quell’episodio era presente soltanto la moglie, Agnese Leto Piraino, la quale lo ha raccontato con dovizia di particolari ai procuratori di Caltanissetta, il 18 agosto 2009.
Quindi riportiamo la fedele trascrizione della parte di quel verbale di nostro interesse:
AD.R. Ricordo perfettamente che il sabato 18 luglio 1992 andai a fare una passeggiata con mio marito sul lungomare di Carini senza essere seguiti dalla scorta.
In tale circostanza, Paolo mi disse che non sarebbe stata la mafia ad ucciderlo, della quale non aveva paura, ma sarebbero stati i suoi colleghi ed altri a permettere che ciò potesse accadere.”
Poco dopo, la teste precisa:  “ non posso negare che quando Paolo si riferì ai colleghi non potei fare a meno di pensare ai contrasti che egli aveva in quel momento con l’allora Procuratore GIAMMANCO.”
Quindi:
che l’episodio in cui Borsellino, a poche ore dalla morte, si confidò con la moglie sul proprio imminente assassinio lamentandosi del fatto che, per responsabilità di terzi, la mafia si stava trovando la strada aperta per realizzarlo, sia quello e soltanto quello oggetto di questa deposizione, non c’è alcun dubbio.
Che Borsellino abbia fatto quell’affermazione riferendosi espressamente ai “colleghi”, allo stesso modo non può esservi dubbio in quanto la testimone fornisce una precisazione ben circostanziata a riscontro (… quando Paolo si riferì ai colleghi…), che non lascia spazio ad equivoci.
Pare, di conseguenza, altrettanto incontestabile, che Borsellino abbia manifestato il suo sconforto alla moglie riferendosi specificatamente  al suo isolamento ed all’abbandono da parte di colleghi di lavoro e da parte di altri che, come loro, avrebbero dovuto invece supportarlo e proteggerlo (soprattutto a seguito del fatto  che le informative che erano pervenute in procura, le quali preannunciavano il suo attentato, gli erano state celate dal collega Giammanco, e Borsellino era venuto a saperlo).  E tutto questo,  senza sollevare mai, nelle sue parole,  la mafia dalla responsabilità della premeditazione dell’attentato “imminente”, perché questo, di fatto, dalle parole “pesate” dalla signora Agnese di fronte ai magistrati, non risulta essere avvenuto,  e noi non crediamo assolutamente che nella realtà possa essere avvenuto.
Detto questo, bisogna dare atto che esistono altre versioni, in circolazione, di quell’episodio.
Nella fattispecie, io ne conosco altre tre, tutte testualmente diverse l’una dall’altra. Delle altre due di queste, parlerò in un prossimo articolo, perché rappresentano di fatto qualcosa che va analizzato a parte e approfonditamente.  Ad ogni modo, si tratta di versioni più “sintetiche”, generiche e meno circostanziate, di quelle di cui ora parleremo, per cui per il momento possiamo trascurarle.
La versione di cui oggi invece ci stiamo occupando, la più diffusa, definita come una “schifosa manipolazione” da Filippo Facci nel suo corsivo, compare, oltre che nelle decine di migliaia di citazioni lapidarie nei siti internet di cui abbiamo parlato,  in virgolettato e forse per la prima volta,  nel libro “L’agenda rossa di Paolo Borsellino” di Sandra Rizza e Giuseppe Lo Bianco, (ed. Chiarelettere – 2007), ed è citata sia nella prefazione di Marco Travaglio (come segnala Facci), sia nel testo degli autori, i quali la raccontano così:
“Agnese Piraino Leto nella sua deposizione al Borsellino ter dice che il marito, nei giorni precedenti alla morte, sosteneva di avere “capito tutto” della morte di Falcone. “Così diceva: ho capito tutto.” Oggi, a quindici anni di distanza, Agnese è più precisa: “Paolo era come uno che ha il cancro, sapeva di dover morire presto, aspettava di morire da un momento all’altro. Mi diceva: mi uccideranno, ma mi diceva anche: non sarà una vendetta della mafia, la mafia non si vendica. Forse saranno mafiosi quelli che materialmente mi uccideranno, ma quelli che avranno voluto la mia morte saranno altri“.
Ecco, per la verità, Rizza, Lo Bianco, e il prefatore Travaglio,  non ci forniscono il minimo aiuto per capire quando, dove e come la signora Agnese sarebbe stata più precisa, a quella maniera.
Si tratta di una dichiarazione resa forse in un’intervista rilasciata agli autori stessi? Si tratta di uno stralcio di qualche altro verbale giudiziario? Si tratta di qualcosa detto dalla signora Agnese a qualche convegno? Si tratta di un’informazione passata ai giornalisti da qualche intermediario terzo, magari un famigliare? Si tratta di qualcosa di inventato di sana pianta? Si tratterà di una versione veramente testuale, oppure arricchita e infiorettata?
Noi, in tutta onestà, non lo sappiamo. Abbiamo effettuato un’umile ricerca in internet, nei nostri archivi personali, e negli archivi storici dei  principali quotidiani nazionali, e non abbiamo trovato null’altro che quel virgolettato di quel libro, in merito a quell’apporto testimoniale della signora Borsellino che, secondo gli autori, risalirebbe al 2007.
Però una cosa certa la sappiamo: che, comunque sia, quelle pubblicate nel 2007 su quel libro, non possono essere state le parole di  Paolo Borsellino.  Proprio perché, se così non fosse, allora la vedova Borsellino avrebbe testimoniato il falso dinnanzi ai magistrati di Caltanissetta il 18 agosto 2009.  Infatti in quella deposizione la signora Agnese,  in regime di ammonizione formale perché dica la verità,  circostanzia esattamente l’episodio, e lo descrive come un giudizio del marito espresso con stretto riferimento all’atteggiamento di ignavia ed accondiscendenza soprattutto dei suoi colleghi relativamente  all’attentato imminente , e non come una dichiarazione del giudice riferita a presunti ignoti “committenti” della strage imminente, committenti diversi dalla mafia, come invece indicherebbe l’aforisma che tanto successo e diffusione ha ottenuto presso i cittadini.
Insomma, delle due soltanto una può essere vera, e soltanto una compare su di un verbale giudiziario sottoscritto dalla testimone, per cui quella vera non può essere che questa , risalente all’agosto 2009.
Se in quella riflessione Borsellino fece uno specifico riferimento all’atteggiamento dei colleghi, allora le parole che impiegò non possono essere quelle che oggi ovunque gli vengono attribuite a seguito della pubblicazione del libro di Rizza e Lo Bianco, dove quella parte centrale, quella sui colleghi, viene invece bellamente omessa e concettualmente stravolta. Questa evidenza, è oggettiva.
E ciò a maggior ragione, se si guarda a quella strana affermazione: “La mafia non si vendica”.
Potrebbe mai Paolo Borsellino aver pronunciato una cosa del genere? Noi, francamente, ne dubitiamo.
Non c’è bisogno di essere uno dei massimi esperti di mafia come Paolo Borsellino, per sapere che la vendetta mafiosa non soltanto è qualcosa che esiste, ma è anche qualcosa che sta nel DNA stesso della mafia essendo proprio la vendetta una delle opzioni principali dell’organizzazione  per mantenersi autorevole nel suo regime di terrore.
Molto difficile quindi accettare l’idea che Paolo Borsellino possa aver espresso un postulato del genere proprio con quelle esatte parole, perchè stridono con il suo pensiero e la sua professionalità, tanto che paiono più simili a quelle che si ritrovano in alcune leggendarie sortite,  del tipo “la mafia non esiste” o “qui ci sono solo pastori e braccianti agricoli”, che tutti conosciamo.
Sic stantibus rebus, noi siamo d’accordo con Filippo Facci che provocatoriamente definisce le due versioni  una la manipolazione dell’altra, perché concettualmente è così: la versione propagandata si configura, a tutti gli effetti, come un’alterazione delle vere parole pronunciate dal magistrato,  anche se, come pare, sotto il profilo cronologico  dovrebbe essere nata prima la versione alterata rispetto a  quella veritiera, per cui si tratterebbe di un’alterazione non fisica ma concettuale: un modo molto sottile, quello di Facci, per richiamare l’attenzione sul fatto che decine di migliaia di cittadini, sulle loro pagine di internet, stanno onorando Paolo Borsellino  con la “santificazione”  di un aforisma composto da parole che non solo il magistrato potrebbe non avere mai pronunciato (o comunque certo non in quegli esatti termini), ma che, nel caso non le avesse mai pronunciate e fossero quindi false o  alterate, potrebbero arrivare anche ad apparire   come scientemente elaborate per favorire Cosa Nostra.
La mafia infatti, grazie a quell’aforisma enormemente reclamizzato da cittadini ignari, dapprima ottiene grossi benefici a livello d’immagine,  mediante la notizia ripetuta in internet migliaia e migliaia di volte che essa non sarebbe usa a vendicarsi, dopodiché viene pure nettamente scagionata, direttamente dalla bocca di un virtuale Paolo Borsellino (che possiamo bene immaginare quanto sarà d’accordo, da lassù), dalla responsabilità della premeditazione della strage di Via D’Amelio, figurando solo come un sicario, una specie di sciocco, quasi ignaro, mero esecutore.
Tutto ciò pare gravissimo, ma allo stesso modo inevitabile, in un paese dove, come dice Beppe Grillo, “i giornali sono medium, non media: fanno parlare i morti.

emergenza femminicidi non basta una legge che aumenti le pene ma serve una campaga educativa altrimenti è come svuotare il mare con un secchiello

Apro l'email  e tovo  queste  "lettere "   di  alcuni haters  \odiatori  ,  tralasciando  gli  insulti  e le  solite  litanie ...