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28.8.25

Diario di Bordo n 145 anno III Giulia Tofana creatrice dell'acqua tofana uccise più di 600 uomini eroina contro i mariti violenti o serial killer ? anche l'italia ha i suo cammino di Santiago ., anche gli oggetti hanno una loro storia ed identità Il Mediterraneo ai piedi, storia delle espadrillas .,


fonte principale il portale msn.it poi sotto prima  di  ogi  post    i  vari  siti  portali degli articoli 

Geopop
Chi era Giulia Tofana, la donna che nel 1600 uccise circa 600 uomini grazie al suo veleno trasparente




C

Nel cuore dell’Italia del Seicento circolava un nome che ancora oggi suscita fascino e inquietudine: Giulia Tofana. Orfana e poverissima, proveniva dai bassifondi palermitani e fu Cortigiana della corte di Filippo IV di Spagna, ma era conosciuta da molte donne come fattucchiera. La sua fama nacque grazie alla sua invenzione mortale, l’Acqua Tofana, un veleno trasparente quasi insapore in grado di uccidere lentamente senza lasciare traccia. Tra il 1630 e il 1655, con questo intruglio sarebbero morti oltre seicento uomini, probabilmente tutti mariti violenti.
Le cronache la descrivono con due volti opposti: da un lato la “Vergine Nera”, spietata assassina che seminò morte nell’Europa barocca; dall’altro una sorta di alleata delle donne, capace di offrire un’arma invisibile contro un sistema patriarcale che non lasciava loro scampo. La verità, come spesso accade, si muove probabilmente tra i due estremi.
L’Acqua Tofana, il veleno che si mascherava da cosmetico
Il veleno veniva presentato come cosmetico o acqua santa, ma conteneva una miscela letale di arsenico, antimonio, belladonna e piombo. Bastavano poche gocce al giorno, versate nel vino o nella minestra, per uccidere senza destare sospetti: i sintomi imitavano malattie naturali (vomito e febbre) e lasciavano roseo il colorito del morto. Grazie alla sua intelligenza pratica e alla propensione per gli esperimenti, Giulia perfezionò la formula fino a renderla perfetta per la somministrazione discreta. Molte delle sue acquirenti erano donne intrappolate in matrimoni imposti o violenti, prive di protezione dalla legge o dalla Chiesa, e l’Acqua Tofana rappresentava per loro l’unica via di fuga.
Giulia Tofana, l'ultima strega bruciata a Roma: il suo veleno per i "matrimoni infelici" e la battaglia femminista.
Chi era
Giulia, pur agendo in modo spregiudicato, non perseguiva un diretto guadagno personale, ma creava un mezzo per consentire a queste donne di liberarsi di mariti crudeli. Non agiva mai da sola: attorno a lei ruotava una rete di farmaciste, levatrici e complici che distribuivano il veleno con discrezione. Con il tempo, anche la sua figliastra, Girolama Spana, avrebbe iniziato ad agire al suo fianco nella produzione e nella distribuzione del veleno. I flaconi erano decorati con l’immagine di San Nicola (l'immagine di un santo famoso e venerato, infatti, gli conferiva l'aria di una reliquia o di un'acqua miracolosa) circolarono per oltre vent’anni, trasformando l’attività in una vera e propria industria clandestina.






I clienti aumentavano rapidamente, consentendole di lasciare il malfamato quartiere del Papireto (inizialmente abitava infatti a Palermo) insieme alla sorella di latte Girolama. Successivamente, grazie a un frate amante, Giulia si trasferì a Roma, dove visse nel rione Trastevere, imparò a scrivere e si vestì come una dama d’alto rango.
La caduta e la condanna
Il destino di Giulia cambiò quando una cliente, la contessa di Ceri, contrariamente alle istruzioni, versò l’intera boccetta nella minestra del marito, uccidendolo subito e attirando i sospetti della famiglia. La polizia indagò, scoprendo la rete di Giulia. Durante il processo, che coinvolse anche centinaia delle sue clienti, molte spose furono condannate a morte e murate vive nel palazzo dell’Inquisizione a Porta Cavalleggeri (Roma). Tra le vittime di questa storia ci fu anche la figliastra Girolama, che finì impiccata a Campo dei Fiori il 5 luglio 1659 assieme ad altre quattro donne che la aiutavano a produrre e distribuire la pozione letale. Giulia, invece, sottoposta a tortura, sembra che sia fuggita dalla sua cella grazie all’intervento del suo amante frate, e di lei non si è più saputo nulla. La sua difesa in tribunale? Quei preparati erano cosmetici, e non era affare suo se le clienti li usavano diversamente.
L’Acqua Tofana continuò a circolare anche dopo la sua scomparsa. Pochi mesi prima di morire, nel 1791, Mozart confidò a sua moglie di sospettare di essere stato avvelenato proprio con questo veleno, testimonianza della fama e del timore che la miscela aveva suscitato quasi due secoli dopo la sua creazione. Oggi Giulia Tofana resta sospesa tra due figure: prima serial killer d’Europa o eroina silenziosa in un mondo che negava giustizia alle donne

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Runner's World Italia

È chiamato il Piccolo cammino di Santiago d’Italia e a settembre è perfetto



© Gina Pricope - Getty Images

Quante volte hai pensato di intraprendere il cammino di Santiago e poi per i più diversi motivi hai rinunciato? Ci vuole parecchio tempo, la preparazione fisica giusta, il suo costo non può essere sottovalutato e tanti altri piccoli fattori che alla fine ti hanno convinto a rimandare.
Ma certe situazioni, si sa, o le si prendono di petto oppure si finisce sempre per spostare la data un po’ più in là e diventa quasi una scusa quella che “intanto lo farò l’anno prossimo”. In attesa che quell’anno prossimo arrivi davvero, una soluzione te la diamo noi. Un’alternativa decisamente più alla portata di tutti che potrebbe essere il trampolino giusto per decidersi. Già, perché non tutti sanno che c’è un’escursione chiamato il Piccolo cammino di Santiago d’Italia e settembre può essere il mese perfetto per affrontarla.
Ecco dove si trova il Piccolo cammino di Santiago d’Italia, perfetto per settembre
Il Piccolo cammino di Santiago d’Italia è un percorso naturalistico lungo un centinaio di chilometri abbondanti, ma anche un'escursione storica dal sapore spirituale perché segue le orme di un santo. Si trova nel Trentino tra la Valle dell’Adige e le Dolomiti del Brenta, collega Trento a Madonna di Campiglio ed è formato da un’antica via romana. Stiamo parlando del Sentiero di San Vili, che prende il nome proprio da San Vigilio, un vescovo martire che nel IV secolo d.C. si incamminò su questo tracciato per un’opera di evangelizzazione.
Se sei un appassionato della natura, della storia, della religione e se ami il trekking questo percorso fa per te. E affrontarlo a settembre può essere un’ottima idea. Camminerai in mezzo alla natura incontrando boscaglie, tipici laghi montani e borghi storici che ti permetteranno di conoscere la loro storia affascinante e assaggiare prodotti tipici con sapori davvero unici. Proprio questo insieme di esperienze, che invitano alla riflessione e al viaggio spirituale (seppure se non è nato con funzione religiosa) grazie alle numerose chiese che si incontrano, ha fatto sì che il Sentiero di San Vili prendesse anche il nome di Piccolo cammino di Santiago d’Italia.Il Piccolo cammino di Santiago d’Italia va percorso in sei tappe
E per tenere fede a quello più famoso in tutto il mondo, anche il Piccolo cammino di Santiago si divide in tappe, per la precisione sei, con la possibilità però di scegliere un itinerario più impegnativo (definito “Alto”) adatto a esperti di trekking e uno più agevole che attraversa più centri abitati e ha un minore dislivello (definito “Basso”). Inoltre lo puoi percorrere in entrambi i sensi da Trento a Madonna di Campiglio e viceversa.
Il Sentiero di San Vili è stato inaugurato la prima volta nel 1988 dalla SAT, Società Alpinisti Tridentini. La prima tappa prende il via dal sobborgo trentino di Vela per raggiungere Covelo con un dislivello di circa 700 metri. La seconda tappa si conclude a Moline, nel comune di San Lorenzo in Banale, ed è particolarmente spirituale perché incontrerai numerose chiesette, oltre che le Gole del Sarca, canyon all’interno di un fiume. La terza tappa ti farà arrivare al borgo medievale di Irone, abbandonato a seguito della peste che nel Seicento colpì l’intera Europa. La quarta tappa, invece, ti condurrà al Passo Daone. È forse la più impegnativa, ma anche quella che ti regalerà panorami meravigliosi. La quinta farà capolino a Pinzolo con numerosi punti attrattivi tra cui la Pieve di San Vigilio, in val Rendena presunto punto dove il Santo fu martirizzato. Infine la sesta tappa con arrivo a Madonna di Campiglio, il luogo più turistico di tutto il cammino.

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Marie Claire Italia

Il Mediterraneo ai piedi, storia delle espadrillas



Che una scarpa così umile custodisca una storia sorprendente, fatta di arte, guerra e rivoluzione, potrebbe sembrare poco probabile, e invece le espadrillas – o espardenyas, per rispettare il loro antico nome catalano – nascono nel XIV secolo in Spagna come calzatura da lavoro, resistente ed economica, adatta a soldati, contadini e a chiunque avesse bisogno di praticità prima che di stile.
Il termine stesso, in ogni sua variazione, rimanda allo sparto, l’erba mediterranea utilizzata per intrecciare la suola. Allora era il risultato di produzione artigianale quasi corale, tra chi realizzava la tomaia in lino (oggi per lo più cotone), chi intrecciava e pressava le suole nei laboratori, chi cuciva a mano i punti ornamentali e chi sigillava tutto con la pece, oggi sostituita dalla gomma.




gettyimages-955105622© Gerard SIOEN - Getty Images

Col tempo, ogni regione aveva sviluppato il proprio stile, così si vedevano ai piedi espadrillas con nastri lunghi da avvolgere intorno al polpaccio, altre che si distinguevano per i pompon o le finiture a contrasto. E seppure indossate da entrambi i sessi, a consacrarle è stata la danza - la Sardana -, simbolo dell’identità catalana, eseguita in cerchio da ballerini con berretti rossi ed espadrillas ai piedi legate da nastri alti fino al ginocchio. Per secoli sono rimaste un affare esclusivamente spagnolo, diffuse tra i contadini della Catalogna e dei Paesi Baschi, ma a partire dal XIX secolo, complici il commercio internazionale e il nazionalismo, hanno iniziato a diffondersi, prima a Mauléon, nei Pirenei francesi, dove si è sviluppata un’industria fiorente, poi in Sud America, complice il clima tropicale che le ha rese un vero un successo.




Lady Diana© Anwar Hussein - Getty Images

Hanno cambiato ruolo con l’ascesa dei movimenti indipendentisti, diventando parte dell’abbigliamento popolare anche tra i combattenti baschi e catalani. Economiche, traspiranti e facili da sostituire, erano ideali per chi viveva in montagna o combatteva in clandestinità. Durante la Guerra Civile Spagnola le espadrillas si sono diffuse tra i repubblicani: molti marciavano contro l’esercito franchista con ai piedi le stesse scarpe che usavano nei campi. Non erano scarpe da battaglia, ma la penuria di equipaggiamento rendeva necessario l’uso di qualsiasi calzatura disponibile, e nemmeno Franco ne era rimasto indifferente, perché negli anni Trenta aveva requisito la fabbrica Castañer per convertire la produzione a uso militare. Un dettaglio che testimonia quanto questa calzatura fosse al tempo stesso radicata nella vita quotidiana e nelle lotte di un paese.
La storia della maison Castañer era iniziata nel 1927 a Girona, con Luis Castañer e suo cugino Tomàs Serra. Lavoravano lo sparto, cucivano a mano, vendevano localmente. Nel dopoguerra Salvador Dalì ne fece il proprio, se non ennesimo, dettaglio eccentrico, indossandole con i calzini rossi e un copricapo da giullare. Rita Hayworth le aveva sfoggiate in La signora di Shanghai (1947), mentre in L'isola di corallo (1948) Lauren Bacall, con camicia bianca, gonna dirndl ed espadrillas ai piedi, aveva lanciato un look che non è mai davvero passato di moda. Erano anche fisse nei guardaroba estivi di Audrey Hepburn e Gabrielle Chanel. Durante le sue fughe in Costa Azzurra, Coco ne portava spesso un paio in tela abbinate a uno o più giri di perle, un cappello da marinaio e l’aria di chi ha inventato il less is more senza doverlo mai dire. È stato però l’incontro con Yves Saint Laurent, nel 1972, a consacrare Castañer - insieme i due marchi hanno creato il primo modello con la zeppa e da lì in poi le espadrillas sono diventate parte dell’eleganza francese, perfette sia per le Baleari che per la Costa Brava, simbolo di un’estetica vacanziera e disinvolta.




gettyimages-508406316© Rico Puhlmann - Getty Images

Decenni dopo, è stato Karl Lagerfeld a recuperarle per la maison: le espadrillas Chanel hanno fatto il loro debutto con la collezione Primavera/Estate 2013. Il modello in tela pastello, con punta quasi dorata e le doppie C intrecciate, sembrava una ballerina con la licenza di prendersi una vacanza, e come accade sempre con Lagerfeld, poco dopo sono arrivate tutte le variazioni possibili, in pelle liscia, in tweed, in denim, in velluto trapuntato. Oggi le espadrillas Chanel sono considerate un’istituzione estiva quanto la 2.55 e la giacca bouclé, un classico off-duty, un ibrido perfetto tra informalità e savoir-faire.


gettyimages-650951986© Bernard Annebicque - Getty Images

A contribuire in maniera meno vistosa, e forse più radicale, al mito delle espadrillas fu Pablo Picasso, che amava indossarle durante le sue vacanze a Juan-les-Pins o sulla spiaggia di Dinard, abbinate a camicie di lino e pantaloni larghi. Il mercante e mecenate Paul Rosenberg, vero regista del suo successo mondano, si preoccupava personalmente che l’artista ricevesse regolarmente i modelli giusti, quelli più morbidi, con la suola flessibile. Quando nel 1919 Picasso era partito per Londra con i Ballets Russes, è stata la moglie di Rosenberg a spedirgli un paio di espadrillas nuove insieme a qualche consiglio su come arredare il soggiorno con eleganza. Quindi non sorprende che, tra i codici del “basque chic”, ci siano proprio le espadrillas, che con i loro colori bruciati – gialli, ocra, rossi terracotta – sono il simbolo stilistico di una Francia rurale e colta allo stesso tempo.



gettyimages-949589912© Francois ANCELLET - Getty Images


 Dal lino coltivato nei Paesi Baschi alle righe dei pescatori dell’Atlantico, fino ai berretti alla marinara, è tutto parte di un’estetica sobria, assolutamente riconoscibile, a cui Picasso ha contribuito in modo decisivo, sia con i suoi quadri che con il modo in cui abitava il mondo. Di questi tempi la maggior parte delle espadrillas è prodotta in Bangladesh, con metodi industriali e materiali sintetici, eppure ci sono ancora laboratori che resistono, come Castañer e Naguisa, a Barcellona, dove si lavora secondo metodi autentici - la suola in sparto è ancora modellata a mano, la tela ancora tagliata in due pezzi distinti, cuciti e poi fissati con cura maniacale. Un lavoro artigianale e di fino che, seppur invisibile, farà tutta la differenza.

30.10.20

ma la chiesa invece di limitarsi a condannare Halloween cosa propone contro tale americanata omologante e standardizzante ?

sfoglio  la pagina   fb dell'unione  sarda  e   trovo    tale  articolo 

 Oggi alle 12:45, aggiornato oggi alle 12:53

Halloween, l'allarme degli esorcisti: "C'è chi festeggia pro satana"
"L'evento non è innocuo o commerciale, ma porta le persone che lo festeggiano a un'introduzione all'esoterismo e all'occultismo"

(foto www.pixabay.com)


"In questi giorni diversi soggetti stanno reclutando le future vittime della notte di Halloween o i futuri adepti delle sette. La cosa più scioccante che avviene nella notte del 31 ottobre e che nessuno racconta è che qualcuno sparirà, non si vedrà più e nessuno ne darà notizia. Chi festeggia Halloween in questi termini non è un soggetto innocuo ma qualcuno che adora Satana, perché si parla di compleanno di Satana".
A lanciare l'allarme sulla festa di Halloween è l'esorcista fra' Paolo Carlin, frate cappuccino, coordinatore nazionale e portavoce dell'Associazione Internazionale degli Esorcisti. Lo ha fatto nel corso della presentazione a Roma del libro "Il mio nome è Satana - Storie di esocismi dal Vaticano a Medjugorje" (Edizioni San Paolo) del vaticanista Fabio Marchese Ragona.
ESOTERISMO E OCCULTISMO - L'esorcista Carlin ha precisato che "Halloween così come si presenta può sembrare un evento innocuo o commerciale, di fatto è un evento che porta le persone che lo festeggiano a un'introduzione a ciò che è l'esoterismo e l'occultismo. Certamente non è una festa cristiana", ha aggiunto il francescano, "qualcuno vuole occultare la festa di tutti i Santi, che si festeggia appunto l'1 novembre, e proporre Halloween, ed è una cosa che va avanti da alcuni anni. Educare i bambini alla morte, alla paura, alle maschere dei vampiri, dei teschi e degli zombie non è un'educazione alla vita. Sarebbe bello invece, anziché studiare la festa delle streghe e dei fantasmi, studiare i Santi e fare le maschere dei Santi".  .....  continua  qui sul sito

Ciò, oltre  alla  domanda  espressa nel titolo  ,  mi porta  a domandarmi   1)  ma allora  perchè non ho   (  magari  ce  ne sono  ) mai sentito i cattolici e  cristiani  ed  loro esponenti  religiosi   Usa opporsi  e fare  crociate  eppure  li  Halloween  è più  diffusa  ed  radicata    che  da  Noi  ?   2)  come mai  la  chiesa  di  Roma  ... il Vaticano  e quindi il papa  non ha   mai  condannato  , che io ricordi  ed ho letto  per  l'esame  di storia  delle tradizioni popolari  ,  con tale  vemenza   come  fa  con H  le  tradizioni funebri \  mortuarie simili  a  H     sempre  presenti  in Italia   (  specie   nel Meridione  vedere   url   del  post  precedente     di cui  trovate  l'url     fra   leggi anche  a  fine  post  )    fino a  gli anni  1960\70  e che  ancora  resistono    e vengono riscoperte  in contrapposizione   all'omologante  e  standardizzato    H  Usa   

1.6.13

Riaprire le indagini per Palmina, bruciata viva a 14 anni




da  http://www.sudcritica.it/


Palmina Martinelli era una ragazzina di quattordici anni. Abitava in una cittadina pugliese chiamata Fasano. Il 1981 fu l'anno in cui venne barbaramente uccisa, bruciata viva da chi aveva già deciso di destinarla al mercato della prostituzione. I due criminali responsabili della sua morte erano di casa della famiglia Martinelli e quel giorno in cui Palmina, minuta, viso dolce, si rifiutò per l'ennesima volta di far parte della sordida realtà di soprusi e violenze, che attanagliava la sua famiglia, i due entrarono in casa sua, decisi a darle una dura lezione. Uno, il compagno della sorella, ragazza madre costretta a prostituirsi, l'altro, socio in affari in un giro di prostituzione e droga.
targaUno scenario di degrado, che all'improvviso una cittadina come tante altre, con i suoi notabili e gente perbene, si trovò a dover fronteggiare. E qui che la storia di Palmina colpisce nella crudeltà proprio di quella società che tanto spesso distoglie gli occhi da realtà di violenze e miserie occultate nelle abitazioni, nel quartiere, persino nei piccoli paesi. Palmina, piccola, ultima tra gli ultimi, segnata da un destino infame, desiderava solo una vita normale. Per questo aveva per quel giorno progettato di scappare via con una sua amica che viveva in istituto, scappare forse in Germania dal papà di quell'amica.
Dopo la sua morte, che arrivò per lei a quasi un mese dal giorno in cui fu bruciata viva, la società civile con le sue istituzioni si dispose a definire quel fattaccio nei ripetuti processi. In primo grado e in appello i due imputati presunti assassini furono assolti per insufficienza di prove, in Cassazione poi dichiarati innocenti per insussistenza dei fatti. E nel processo di primo grado le parole di Palmina, testimonianza drammatica resa al medico di rianimazione del Policlinico di Bari Tommaso Fiorecon un fil di voce proveniente da un corpo dove non era distinguibile più nulla e raccolte dal pubblico ministero Nicola Magrone, finirono con l'essere tacciate come infamanti i suoi assassini. In sede processuale fu questa la tesi che i giudici accolsero: Palmina si sarebbe suicidata, addirittura dandosi fuoco da sola, ma in punto di morte avrebbe voluto calunniare quei ragazzi. In definitiva, dopo essere risalita tra dolori atroci dal suo stato di coma farmacologico, Palmina, aveva voluto infangare quegli individui. Con quella sentenza la società civile mostrò il suo volto più violento, sprezzante della morte, fino al disconoscimento della pietà verso coloro che nulla contano, che scarso peso hanno nella scala sociale dei riconoscimenti delle vite umane.gruppetto
Una ragazzina, vittima inerme di una violenza inaudita, fu giudicata in un processo in cui gli imputati erano i suoi carnefici. Da vittima, Palmina divenne colpevole. “Una condanna non detta, non scritta”, come ha detto il magistrato Nicola Magrone. Palmina giudicata e condannata, “Palmina arsa viva come una strega”. E sono sempre le parole di quel pm che in piena solitudine lottò per sottrarre Palmina all'efferato giudizio del consorzio sociale e del suo perbenismo.
Il 23 aprile 2012 a Fasano, il paese da cui Palmina non riuscì più a fuggire, l'intitolazione di una piazzetta a “Palmina Martinelli (1967-1981) giovane vittima di crudele violenza”, alla presenza del magistrato Magrone, del sindaco del paese e di una sorella di Palmina, Mina, è venuta di fatto a negare quella sentenza. Piccolo, tardivo atto di giustizia, che iscrive Palmina in quell'interminabile elenco di vittime, per la gran parte appartenente al genere femminile, della violenza che alligna nelle stesse famiglie, in cui invece la vita dei deboli dovrebbe essere tutelata e difesa. Vite di donne così tante volte lasciate sole, come sola era Palmina a lottare per se stessa, soppresse da una mano maschile con quella violenza che la nostra civile società non riesce ad espellere da sé, che non riesce a riconoscere appieno.Palmina doppiamente relegata tra i perdenti. Due volte oggetto di discriminazione in quanto piccola donna che aveva osato dire di no, coraggioso atto di rifiuto nei confronti di quegli individui  determinati a sfruttare il suo corpo e la sua vita. E per questo vittima più volte: dei suoi carnefici e del mondo in cui viveva e poi della società, che ha voluto rimuovere ed espellere da sé quella realtà miserabile in cui lei aveva avuto la sfortuna di nascere. Vittima di violenza di genere, ragazzina non degna di rispetto e considerazione nemmeno in punto di morte, nemmeno in un processo con i suoi assassini alla sbarra. All'unica testimonianza valida, quella di Palmina, non fu dato credito, non alla sua voce registrata in rianimazione al Policlinico e ascoltata in tribunale solo dietro insistenza del pm, non ai suoi racconti al pronto soccorso ai medici (tra i quali, proprio l’attuale Sindaco di Fasano Lello Di Bari), agli infermieri, ai carabinieri. Neppure la testimonianza del fratello che la trovò in casa avvolta tra le fiamme servì a restituire la verità e fare giustizia. Quell'assoggettamento al potere maschile, che si rivestiva di brutalità nell'angusto mondo di Palmina, trovò altra faccia in un potere istituzionale, che dettò una sentenza semplicemente ingiusta, atto colpevole ammantato di giustizia sociale. Fatto sociale e culturale, dove le istituzioni segnarono il passo di una retrograda e incivile cultura maschilista.Adesso, una targa alla memoria, tentativo di riparazione di un vergognoso torto verso quella ragazzina che fu Palmina, è riconoscimento collettivo, rispetto restituito alla persona e a coloro, gli ultimi, per i quali, soprattutto per loro, il diritto alla giustizia dovrebbe tradursi in realtà.

Nelle foto covella/Sudcritica: Nicola Magrone, Mina Martinelli e Lello Di Bari scoprono la targa; Nicola Magrone tra i ragazzi di Libera, associazione contro tutte le mafie.

17.5.12

paura dell'innocua strega di siligo o paura delle donne ?

La situazione   culturale italiana  ,  nonostante gli anni  60\70 , mi trova  d'accordo   con gente  ilo cui il pensiero \  modo di vedere  il mondo  è lontano  e quasi agli antipodi dal tuo  

da  la  nuova  sardegna del  17\5\2012


Paura dell’innocua strega di Siligo o paura delle donne?

Dietro il divieto della Prefettura di Sassari, la condanna di una marginalità che testimonia una subalternità ancora non superata

di Eugenia Tognotti
E così, a quanto pare, la povera Julia Casu Masia Porcu da Siligo, processata per stregoneria dal Tribunale dell'Inquisizione tra la fine del XVI e l'inizio del XVII, ha subito, a distanza di circa mezzo millennio un terzo processo, storico- istituzionale-burocratico questa volta, istruito a seguito della richiesta del Comune di Siligo di intitolarle una via . E' finita con una "condanna" , se vogliamo chiamarla così : la Prefettura di Sassari , confortata dal parere storico della Deputazione di Storia patria, ha respinto la richiesta .
Si tratta di un caso interessante, collegato ad un vasto movimento per le pari opportunità nella toponomastica, lanciata alcuni mesi fa da una docente di Geografia che, lavorando ad una ricerca per la realizzazione di una guida turistica, ha constatato che le vie intitolate a donne , a Roma, erano meno del cinque per cento, includendo le sante, senza le quali, quella risicata percentuale sarebbe ancora più bassa. La sua denuncia è stata raccolta da gruppi di donne di numerose città - compresa Sassari- ed è rimbalzata su Facebook, dove si sono moltiplicate le nominations: scrittrici e artiste, rivoluzionarie e pensatrici, politiche e patriote, eroine civili e monache, che dovrebbero uscire dal silenzio e dalla dimenticanza affinché il mondo appartenga ad ambedue i generi.
Ma, intitolare una strada o una piazza a una particolare figura non è una scelta "neutra" e indolore, come indicano le diatribe toponomastica di questi ultimi anni (ad esempio quella sul nome di Bettino Craxi a Milano). Ogni Paese e città, si sa, fonda la propria storia su una memoria collettiva, più o meno condivisa. Un racconto costellato di eroi, di grandi gesta e di momenti capitali intorno al quale la popolazione elabora un senso di appartenenza. Un nuovo nome, inserito nello stradario, rappresenta indubbiamente un valore che si aggiunge alla multiforme identità nazionale.
Anche a livello locale, l'atto di intestare strade o piazze è una scelta importante e impegnativa: la toponomastica è uno dei modi di entrare in contatto con la storia di una città, di sentirne il fascino . I nomi delle strade, delle piazze, dei vicoli raccontano storie. Lo fanno, per restare a Sassari, via dell'Insinuazione o via Rosa Gambella che evocano momenti e figure della storia della città. Che cosa racconta o potrebbe raccontare alla gente di Siligo - ma non solo - il nome di Julia Carta? Sicuramente la storia di quel fenomeno conosciuto come "caccia alle streghe", che portò - tra il Quattrocento e il Seicento- alla brutale persecuzione, all'arresto, alla tortura e alla condanna al rogo di donne sospettate di compiere sortilegi, malefici, fatture, o di intrattenere rapporti col diavolo: l'accusa per la quale, appunto, Julia Carta fu arrestata e processata a Sassari, dal Tribunale dell'Inquisizione spagnola.
I fatti ricostruiti su documenti di prima mano da Tomasino Pinna, docente di Storia delle religioni a Sassari e autore del libro "Storia di una strega", rimanda ai lunghi secoli in cui alle donne è toccato praticare la medicina empirica, assistere e curare, in famiglia e nelle comunità di villaggio.
Le donne dominavano la scena del parto, conoscevano i segreti della natura, confezionavano unguenti e pomate. Un patrimonio immenso di saggezza e di conoscenza della natura e dei suoi cicli, di capacità di interpretare i segni e i sintomi, ancora prima che fosse il sapere dotto e accademico a spiegarli.
Furono quei "saperi" a perdere Julia Carta- che sapeva cucire, tessere, filare, e conosceva il potere delle erbe che guarivano dalle malattie del corpo e della mente. Perché, dopotutto, Siligo non dovrebbe intitolarle una strada in rappresentanza delle tante donne-streghe senza nome e senza storia scritta?

Procuratrice Ancona, 'non tutti i casi di violenza sono uguali'

© Provided by ANSA (ANSA) - ANCONA, 04 DIC - "Questa storia lascia l'amaro in bocca, non si possono trattare tutti i casi di violen...