da http://www.sudcritica.it/
Palmina Martinelli era una ragazzina di quattordici anni. Abitava in una cittadina pugliese chiamata Fasano. Il 1981 fu l'anno in cui venne barbaramente uccisa, bruciata viva da chi aveva già deciso di destinarla al mercato della prostituzione. I due criminali responsabili della sua morte erano di casa della famiglia Martinelli e quel giorno in cui Palmina, minuta, viso dolce, si rifiutò per l'ennesima volta di far parte della sordida realtà di soprusi e violenze, che attanagliava la sua famiglia, i due entrarono in casa sua, decisi a darle una dura lezione. Uno, il compagno della sorella, ragazza madre costretta a prostituirsi, l'altro, socio in affari in un giro di prostituzione e droga.
Uno scenario di degrado, che all'improvviso una cittadina come tante altre, con i suoi notabili e gente perbene, si trovò a dover fronteggiare. E qui che la storia di Palmina colpisce nella crudeltà proprio di quella società che tanto spesso distoglie gli occhi da realtà di violenze e miserie occultate nelle abitazioni, nel quartiere, persino nei piccoli paesi. Palmina, piccola, ultima tra gli ultimi, segnata da un destino infame, desiderava solo una vita normale. Per questo aveva per quel giorno progettato di scappare via con una sua amica che viveva in istituto, scappare forse in Germania dal papà di quell'amica.
Dopo la sua morte, che arrivò per lei a quasi un mese dal giorno in cui fu bruciata viva, la società civile con le sue istituzioni si dispose a definire quel fattaccio nei ripetuti processi. In primo grado e in appello i due imputati presunti assassini furono assolti per insufficienza di prove, in Cassazione poi dichiarati innocenti per insussistenza dei fatti. E nel processo di primo grado le parole di Palmina, testimonianza drammatica resa al medico di rianimazione del Policlinico di Bari Tommaso Fiorecon un fil di voce proveniente da un corpo dove non era distinguibile più nulla e raccolte dal pubblico ministero Nicola Magrone, finirono con l'essere tacciate come infamanti i suoi assassini. In sede processuale fu questa la tesi che i giudici accolsero: Palmina si sarebbe suicidata, addirittura dandosi fuoco da sola, ma in punto di morte avrebbe voluto calunniare quei ragazzi. In definitiva, dopo essere risalita tra dolori atroci dal suo stato di coma farmacologico, Palmina, aveva voluto infangare quegli individui. Con quella sentenza la società civile mostrò il suo volto più violento, sprezzante della morte, fino al disconoscimento della pietà verso coloro che nulla contano, che scarso peso hanno nella scala sociale dei riconoscimenti delle vite umane.
Una ragazzina, vittima inerme di una violenza inaudita, fu giudicata in un processo in cui gli imputati erano i suoi carnefici. Da vittima, Palmina divenne colpevole. “Una condanna non detta, non scritta”, come ha detto il magistrato Nicola Magrone. Palmina giudicata e condannata, “Palmina arsa viva come una strega”. E sono sempre le parole di quel pm che in piena solitudine lottò per sottrarre Palmina all'efferato giudizio del consorzio sociale e del suo perbenismo.
Il 23 aprile 2012 a Fasano, il paese da cui Palmina non riuscì più a fuggire, l'intitolazione di una piazzetta a “Palmina Martinelli (1967-1981) giovane vittima di crudele violenza”, alla presenza del magistrato Magrone, del sindaco del paese e di una sorella di Palmina, Mina, è venuta di fatto a negare quella sentenza. Piccolo, tardivo atto di giustizia, che iscrive Palmina in quell'interminabile elenco di vittime, per la gran parte appartenente al genere femminile, della violenza che alligna nelle stesse famiglie, in cui invece la vita dei deboli dovrebbe essere tutelata e difesa. Vite di donne così tante volte lasciate sole, come sola era Palmina a lottare per se stessa, soppresse da una mano maschile con quella violenza che la nostra civile società non riesce ad espellere da sé, che non riesce a riconoscere appieno.Palmina doppiamente relegata tra i perdenti. Due volte oggetto di discriminazione in quanto piccola donna che aveva osato dire di no, coraggioso atto di rifiuto nei confronti di quegli individui determinati a sfruttare il suo corpo e la sua vita. E per questo vittima più volte: dei suoi carnefici e del mondo in cui viveva e poi della società, che ha voluto rimuovere ed espellere da sé quella realtà miserabile in cui lei aveva avuto la sfortuna di nascere. Vittima di violenza di genere, ragazzina non degna di rispetto e considerazione nemmeno in punto di morte, nemmeno in un processo con i suoi assassini alla sbarra. All'unica testimonianza valida, quella di Palmina, non fu dato credito, non alla sua voce registrata in rianimazione al Policlinico e ascoltata in tribunale solo dietro insistenza del pm, non ai suoi racconti al pronto soccorso ai medici (tra i quali, proprio l’attuale Sindaco di Fasano Lello Di Bari), agli infermieri, ai carabinieri. Neppure la testimonianza del fratello che la trovò in casa avvolta tra le fiamme servì a restituire la verità e fare giustizia. Quell'assoggettamento al potere maschile, che si rivestiva di brutalità nell'angusto mondo di Palmina, trovò altra faccia in un potere istituzionale, che dettò una sentenza semplicemente ingiusta, atto colpevole ammantato di giustizia sociale. Fatto sociale e culturale, dove le istituzioni segnarono il passo di una retrograda e incivile cultura maschilista.Adesso, una targa alla memoria, tentativo di riparazione di un vergognoso torto verso quella ragazzina che fu Palmina, è riconoscimento collettivo, rispetto restituito alla persona e a coloro, gli ultimi, per i quali, soprattutto per loro, il diritto alla giustizia dovrebbe tradursi in realtà.
Nelle foto covella/Sudcritica: Nicola Magrone, Mina Martinelli e Lello Di Bari scoprono la targa; Nicola Magrone tra i ragazzi di Libera, associazione contro tutte le mafie.