Prince lo lessi prima d'ascoltarlo. L'articolo, comparso su "Ciao 2001", s'intitolava "Il principe ambiguo della musica nera" ed era corredato da una delle rutilanti immagini che l'avrebbero reso inconfondibile. Anno 1983 o giù di lì, il cantante (lo showman) fissava l'obiettivo col classico sguardo da sotto in su, caldo e seduttivo, e di sesso, anzi, della sua morbida satiriasi, nel servizio si parlava parecchio, fors'anche più della musica. Normale in quel tempo, in tutti i tempi, specialmente in quelli facili, e gli anni Ottanta lo erano, ma lui, divenuto popolare come la versione "maledetta" (e truzzarella) di Michael Jackson, col Peter Pan di Gary aveva da spartire meno di quanto si pensasse. Insomma, ok gli urletti ma dopo aver sentito "Purple rain" non ebbi più dubbi: lì c'era Jimi Hendrix, e probabilmente Davis, e anche Zappa, forse più lui degli altri per il suono affaccendato e imprendibile, gli sperimentalismi obliqui, l'incostanza più che l'eclettismo. E poi la lotta con le major, il cinema, quindi - a pagare il tributo a un decennio che, tutto sommato, l'opprimeva - la moda, gli amori tormentosi (il più chiacchierato, quello con l'ex modella Vanity, anch'essa deceduta a 57 anni dopo una vita d'eccessi culminata in crisi religiosa)... Prince, con quel nome glitterato, non era un folletto ma un piccolo diavolo e il suo retroterra culturale, antropologico, etnico si radicava nei '70. "Re del pop", come adesso lo designano i tabloid, denota non solo scarsissima fantasia e povertà lessicale ma anche un'autentica difficoltà a incasellarne il genere. Io, manco a dirlo, preferisco il Roger Nelson - questo il vero nome - acido ed elettrico, il velenoso suburbano di "Sign o' The Times", però non è solo quello e come dimenticare il disco-soul degli esordi, l'acconciatura afro, soprattutto il titolo, quel "For You" con copertina da cinemino equivoco, misticamente pansessuale, rozza e quindi vera, ancor lontana dai riflettori di "Lovesexy", il proposito di darsi tutto al pubblico - all'arte - alla musica, rabbozzata e rivoltata? Prince malgrado i successi planetari non volle mai diventare un vero e proprio re, era rimasto The Artist, un pokerista delle note e, come tutti i giocatori, a volte scivolava, poi si rialzava, poi faceva il botto, con la sfrontatezza e infingardaggine di sempre. Anche la sua scomparsa è stata misterica e inafferrabile, in questo 2016 così nefasto per le star. È morto in ascensore, un posto che non è un posto bensì transito, domanda sospesa. E siccome per crescere non servono incrollabili verità, ma dubbi e ripensamenti, quel transito ora ci manca.
Nostra patria è il mondo intero e nostra legge è la libertà
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22.4.16
PRINCE, NON SI SA COME © Daniela Tuscano
Prince lo lessi prima d'ascoltarlo. L'articolo, comparso su "Ciao 2001", s'intitolava "Il principe ambiguo della musica nera" ed era corredato da una delle rutilanti immagini che l'avrebbero reso inconfondibile. Anno 1983 o giù di lì, il cantante (lo showman) fissava l'obiettivo col classico sguardo da sotto in su, caldo e seduttivo, e di sesso, anzi, della sua morbida satiriasi, nel servizio si parlava parecchio, fors'anche più della musica. Normale in quel tempo, in tutti i tempi, specialmente in quelli facili, e gli anni Ottanta lo erano, ma lui, divenuto popolare come la versione "maledetta" (e truzzarella) di Michael Jackson, col Peter Pan di Gary aveva da spartire meno di quanto si pensasse. Insomma, ok gli urletti ma dopo aver sentito "Purple rain" non ebbi più dubbi: lì c'era Jimi Hendrix, e probabilmente Davis, e anche Zappa, forse più lui degli altri per il suono affaccendato e imprendibile, gli sperimentalismi obliqui, l'incostanza più che l'eclettismo. E poi la lotta con le major, il cinema, quindi - a pagare il tributo a un decennio che, tutto sommato, l'opprimeva - la moda, gli amori tormentosi (il più chiacchierato, quello con l'ex modella Vanity, anch'essa deceduta a 57 anni dopo una vita d'eccessi culminata in crisi religiosa)... Prince, con quel nome glitterato, non era un folletto ma un piccolo diavolo e il suo retroterra culturale, antropologico, etnico si radicava nei '70. "Re del pop", come adesso lo designano i tabloid, denota non solo scarsissima fantasia e povertà lessicale ma anche un'autentica difficoltà a incasellarne il genere. Io, manco a dirlo, preferisco il Roger Nelson - questo il vero nome - acido ed elettrico, il velenoso suburbano di "Sign o' The Times", però non è solo quello e come dimenticare il disco-soul degli esordi, l'acconciatura afro, soprattutto il titolo, quel "For You" con copertina da cinemino equivoco, misticamente pansessuale, rozza e quindi vera, ancor lontana dai riflettori di "Lovesexy", il proposito di darsi tutto al pubblico - all'arte - alla musica, rabbozzata e rivoltata? Prince malgrado i successi planetari non volle mai diventare un vero e proprio re, era rimasto The Artist, un pokerista delle note e, come tutti i giocatori, a volte scivolava, poi si rialzava, poi faceva il botto, con la sfrontatezza e infingardaggine di sempre. Anche la sua scomparsa è stata misterica e inafferrabile, in questo 2016 così nefasto per le star. È morto in ascensore, un posto che non è un posto bensì transito, domanda sospesa. E siccome per crescere non servono incrollabili verità, ma dubbi e ripensamenti, quel transito ora ci manca.
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