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1.4.15

c'era volta uno stazzo

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  questo sito


Fra   le  canzoni  che descrivono meglio  il post  d'oggi ed  quindi  anche  la mia  esperienza  ed  i ricordi  familiari diretti e  indiretti    della  mia infanzia  (  ne  ho parlato  in altri  post    del blog   sia quando  si chiamava  cdv.splinder   sia  dopo quando  ha   avuto la denominazione   attuale    )      ci sono   oltre  al cd   la terra, la guerra , una questione privata 
queste  due  canzoni   (  la  seconda  è una     cover  della  sua   canzone   )   di  un autore  che non ha   bisogno di presentazione  



con la  collaborazione dell'altro   blog (  in realtà  è di mio padre  dico nostro  perchè mi serve  come spunto  d'idee     per eventuali    i post   da mettere   sul  il mio   è questo  è  un caso )   . http://costasmeraldagarden.blogspot.com/




Lo stazzo è una forma di insediamento rurale tipica della Gallura.Esso Ha origini molto antiche come testimonia 


La sua peculiarità consiste  nella contemporanea presenza di più colture e allevamenti.La forma di allevamento predominante è quella del bovino ma anche degli ovini, caprini e  suini.
Lo stazzo è un'unità produttiva autosufficiente,la produzione è volta in primo luogo verso il consumo del nucleo familiare.La superficie media è intorno ai 20-30 ettari.
Oggi dello stazzo rimangono quasi esclusivamente i fabbricati, mentre  non vi sono le famiglie che vi risiedevano  , eccetto poche eccezioni nelle zone vicine ai centri abitati prossimi al mare.
Il fabbricato dello stazzo ha forma rettangolare, con poche finestre di piccola dimensione perchè la porta d'ingresso, quasi sempre aperta serve anche da sorgente luminosa.
Questa casa "stazzina" è abbastanza  importante, con muratura curata e graniti lavorati nei capitelli e nei riquadri. Al suo apice il fabbricato diviene "lu palazzeddu", quando si aggiunge un piano superiore,spesso con balcone. Ma in questo caso siamo all'evoluzione "da  pastori a signori"  per  parafrasare    il  famoso testo di  Giusepe Mele sulla storia  della  Gallura  .
Confermo quanto detto da  mio padre   aggiungendo  un  piccolo estratto    dalla mia tesi di laurea

In Gallura   come  in  tutta la  Sardegna fino agli inizi del XX secolo è quella del   popolamento dell'interno e l'abbandono delle coste. Infatti : « ( .... )   Le condizioni storiche che causarono lo spopolamento sono da ricercare nello stato di  abbandono generale nel quale si trovava tutta la 
Sardegna, dopo alcuni secoli di dominazione spagnola [  anche  prima secondo alcuni storici  corsivo mio   ]  a questa si aggiungevano le frequenti incursioni saracene lungo le coste e si capisce il motivo per cui nella Gallura marittima esisteva il solo villaggio di Olbia. Gli altri erano raggruppati alle falde del Limbara (Aggius, Bortigiadas, Tempio, Luras, Calangianus e Nuchis ) ». ( .... da   P.SUELZU Lo stazzo Gallurese,in Atti del Convegno. "Coment'era” ,Viddalba 9 giugno 2007.pp.69-76 ,Alghero 2008 )
La colonizzazione delle zone abbandonate fu la conseguenza di una notevole immigrazione dalla vicina Corsica; in seguito ulteriormente rafforzata, nei primi anni del Settecento, anche dal movimento della gente dell’interno, per lo più pastori, che dai villaggi, nelle loro transumanze, si spingevano fino alle zone disabitate. Si trattava in genere di migrazioni temporanee. Erano soliti abbandonare il villaggio nel tardo autunno per poi rientrare al villaggio d’origine, all’inizio dell’estate, quando era terminata l’annata agricola. Durante questo periodo, all’inizio, soggiornavano in strutture di fortuna utilizzando come abitazione qualche nuraghe o, più spesso le spelonche scavate nella roccia dagli agenti atmosferici. In seguito furono costruiti i “cuponi”, capanne circolari di pietre a secco con il tetto ricoperto di frascame, in pratica gli antenati della casa dello stazzo.
La prima fase della colonizzazione, caratterizzata dalla presenza di insediamenti temporanei presenta quindi in  prevalenza un’economia di tipo pastorale allo stato  brado. In seguito con il formarsi dei primi insediamenti   fissi si intraprendono anche attività agricole e di   allevamento più intensivo Tale insediamento rurale fu   tipico del nord Sardegna e della Corsica principalmente  della Gallura.
IL termine "stazzo"(in gallurese lu stazzu) deriva dal  latino "statio", stazione, luogo di sosta Esso Indica  contemporaneamente l'azienda contadina e la  costruzione in cui abita il proprietario ed è costituito da  un'abitazione di forma grossomodo rettangolare  costituita da blocchi di granito e all'interno suddivisa in  massimo due ambienti ,ma più spesso da un  monolocale. All'esterno era spesso annesso il forno (lu  furru) ed un piccolo magazzino (lu pinnenti). Raramente  un edificio nato come stazzo si eleva oltre il piano  terreno, ed in questo caso viene definito palazzo (lu palazzu) ,. Si può quindi parlare organismi \ strutture a  funzione complementare agricola e pastorale, organizzati in modo da essere autosufficienti, disponendo di coltivi, pascoli, seminativi, nonché di una  o più dimore.
Un insieme di stazzi formavano la cussorgia (la cussogghja), un'entità geografica e sociale unita da
vincoli, particolari ed insoliti, di forti di amicizia e collaborazione soprattutto di ordine prevalentemente morale, specie durante il ciclo agricolo o in occasioni particolari come la trebbiatura, la vendemmia o la costruzione di un recinto, tutti i vicini di un proprietario formano una squadra di lavoro che presta gratuitamente la propria opera.
Un altro esempio di vincolo esistente tra i "cussoghjali" è  quello della punitura. Questa norma di comportamento prevede che chiunque abbia perduto il gregge, per sorte avversa o per furto o per ritorsione, riceva in dono dai vicini un capo bovino o ovino.
Le case erano, prima d'essere abbandonate o “modernizzate”, piccoli capolavori di quella che può  essere definita un'architettura molto semplice e  spontanea. Difficilmente si notano le poche che non hanno subito radicali trasformazioni, spesso pacchiane: il loro impatto ambientale è pari a quello, di quelle poche  che vengono curate, dei muretti a secco, ulteriore e fondamentale elemento della geografia gallurese, segni  dell'uomo integrati nel tessuto agrario. Infatti essi hanno rappresentato in Gallura il fulcro della vita rurale di  migliaia di pastori-agricoltori per centinaia di anni cioè  fino alla fine XIX e inizi del XX secolo, quando la sua  caratteristica viene messa discussione negli anni ‘50
con il fenomeno di migrazione dalle campagne verso i  nuovi centri abitati (il cosiddetto boom economico e  l’avvento del turismo) con l’affermarsi di nuovi sistemi  economici e nuovi modelli di vita, e poi dagli anni '60\80  quando si sono diffusi i fenomeni dell'inurbamento delle  coste e poi la sub-urbanizzazione delle campagne  portano in pratica alla fine della civiltà dello stazzo. Ma  ancora persiste soprattutto nelle località marittime  snaturato nella sua funzione originaria dal fenomeno  delle seconde e terze case e secondo alcuni dalla trasformazione \ riadattamento in agriturismi e B&B
dotati dei migliori comfort.I motivi della scomparsa del modo di vita, della civiltà dello stazzo, sono da ricondurre all'evoluzione del sistema economico.L'economia basata sull'autoconsumo, sull'impiego  intensivo della forza lavoro non può reggere di fronte alla concorrenza delle grandi aziende basate su una spinta meccanizzazione, elevata standardizzazione del prodotto. Il supermercato decreta la fine della  produzione artigianale,parcellizzata. La politica agraria e sociale della regione sarda non ha saputo cogliere  l'importanza dello Stazzo, insieme ad esso sono  scomparse, l'insediamento sparso, la cura del territorio e dell'ambiente rurale, la civiltà ad esso legate, una parte pezzo importante irriproducibile della nostra Isola.





28.6.14

essere,pregare,tessere Chiara Vigo l'ultiuma tessitrice di bisso racconta- i segreti del mare



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La storia di Chiara Vigo la nuova Maria Lai . L'ultima donna in sardegna che tesse  ancora  il bisso ( I  II )   per  contattarla  : chiaravigo@hotmail.it o  bottega.bisso@tiscali.it Tel. 3473302237



Un arte molto  antica  . Infatti

  In Sardegna Fino ai primi decenni del secolo scorso piccole produzioni di bisso si avevano ancora ad Alghero, La Maddalena, Cagliari, Cabras, Bosa e Sant'Antioco. Ci fu anche chi, preso dall'entusiasmo per le particolari proprietà del tessuto marino volle sperimentarne una produzione industriale. Giuseppe Basso Arnoux inviò dalla Sardegna decine di Kg di fibra alle filande del nord-Italia. Il risultato fu però fallimentare : le macchine non solo non riuscivano a filare quei fili ma ne venivano danneggiate.L'isola di S. Antioco è l'ultimo luogo della Sardegna e del Mediterraneo che ci trasmette ancora questo dono marino. Essa ha mantenuto - col favore di fondali bassi e incontaminati e di una importante tradizione tessile - una produzione di rilievo fino a portare ai nostri giorni con tenacia, passione e sacrificio, delle realizzazioni che hanno perduto e superato la loro precedente funzionalità per connotarsi come dei veri e propri lavori artistici (arazzi anziché guanti o cuffie) marcando così l'unicità e la preziosità di un prodotto sempre più raro.A S.Antioco la lavorazione del bisso è attecchita in epoche molto antiche da apporti mediorientali.Ciò si può sostenere senza difficoltà, considerando la sua funzione di crocevia nelle rotte dei popoli del mare. L'apporto di conoscenza e di tecnica che questi contatti determinavano e lo sfruttamento dei due protagonisti marini : la Pinna e il Murice non possono che suffragare questa ipotesi.Dopo i Fenici molto probabilmente furono gli ebrei a continuare la lavorazione dell'antico filato. E' attestata dale scoperte archeologiche la presenza di una consistente comunità ebraica a S.Antioco già dal I sec. a.C.E' certo che l'imperatore Tiberio Nerone nel 19 a.C. inviò un gran numero di ebrei per contrastare il brigantaggio sardo e sfruttarli per il lavoro nelle miniere metallifere, ma in realtà il vero fine dell'imperatore era di punirli per i disordini causati a Roma ed esiliarli in luoghi dove avrebbero con buone probabilità trovato la morte.Ciò che si presuppone invece è che la comunità ebraica non soltanto abbia trovato un luogo dove proliferare tranquilla ma anche di prosperare. Ciò si può dedurre dalle catacombe ebraiche con tombe ad arcosolio rinvenute non distanti dalle catacombe cristiane sul pendio del colle della Basilica. Sul fondo dell'arcosolio di una nicchia appare, scritto in rosso, il nome della defunta : Beronice.Con l'immaginazione questo nome ci fa pensare ad altre Berenice che, tra leggenda e storia, possono essere state protagoniste della tessitura del bisso
Berenice,
sorella di Marco Giulio Agrippa, re vassallo della Palestina. La storia, riportata da Seneca e poi ripresa nei secoli da drammaturghi e poeti, ci dice che A quel tempo Sant'Antioco si chiamava SLK o Solki, con il toponimo arcaico, oppure Insula Plumbea, con la traduzione latina del precedente appellativo greco di Molibodes Nesos -denominazioni che ben definiscono l'interesse di sfruttamento delle risorse metallifere della zona per i conquistatori-. 
l'imperatore Tito la conobbe durante il suo comando nella guerra Giudaica Tutto
per un Vestito
... Raffinato

Scuola Leumann
, se ne innamorò e la portò poi con sé a Roma. Ma lì la loro unione venne aspramente osteggiata, soprattutto dopo che divenne imperatore.
Così Berenice venne fatta ripartire.

Qui finisce la storia ma, facendoci guidare dalla fantasia, può esservi la lontana possibilità che la principessa non sia tornata alla sua patria ma si sia invece fermata nell'isola, ben considerando che avrebbe potuto avere un ruolo di rilievo nella cospicua comunità ebraica e che il porto non l'avrebbe tenuta distante da Roma. Così possiamo immaginarci come il suo atelier possa aver dato vigore alle lavorazioni tessili.
Rientrando nella realtà è certo che a quel tempo a Roma era di gran moda tra le matrone e le donne di rango il "vento tessuto", ma il bisso affascinava indubbiamente tutti se anche un oratore, narratore e filosofo come Apuleio nel suo libro delle Metamorfosi vede la Dea Osiride "con una tunica di bisso leggero e cangiante".

Ma torniamo alla nostra isola.
Per alterni periodi fu spopolata a causa della estrema insicurezza per le frequenti incursioni violente a scopo di razzie. Queste si verificavano puntualmente nei vuoti di potere -e perciò di controllo e difesa- determinati da un cambio di dominio, dopo i Romani, dopo i Vandali, dopo i Bizantini e così via. L'isola così perse per alcuni secoli l'importanza del suo centro urbano.
L'antica Solki che conobbero i Fenici e che per quei tempi fu una vera metropoli, finì per riconoscersi nel VII secolo solamente nella Basilica arroccata sul colle traforato di ipogei.
Fu forse proprio grazie all'autorità religiosa, espressa nella sua Basilica che, nonostante tutto, si poté mantenere quella tradizione di eccellente tessitura (il santuario di S.Antioco -è bene ricordare- aveva pertinenza su terre, selve, vigne, servi e ancelle -predestinate tessitrici-).
E poi il dedalo di ipogei punici, che sono stati sfruttati con funzione abitativa anche fino al pochi decenni fa, ben consentiva ad una piccola comunità di mantenere attività produttive essendo nascosta e potendo viceversa spiare ogni arrivo inopportuno dal mare.
Con il ripopolamento del periodo Sabaudo si riprende a lavorare la terra anche se con le armi vicine pronte all'occorrenza. Le temute, sanguinose, incursioni barbaresche cesseranno infatti solo dopo il 1815, dopo la pace firmata a seguito del bombardamento di Algeri da parte degli Inglesi.
Nel 1914 Vittorio Alinari, fotografo ed editore fiorentino, scrive nel rapporto del suo secondo viaggio in Sardegna che Sant'Antioco gli sembra un paese molto industrioso. Dice dei 200 telai che producono nel paese ogni tipo di tessuto, il più curioso dei quali è quello prodotto dai filamenti setosi della pinna nobilis. Ci parla del bel colore ramato del bisso con il quale si confezionarono sottovesti dal bellissimo effetto. Tra le suggestive fotografie scattate dai fratelli Alinari a S.Antioco vi sono anche quelle che ci mostrano delle ragazze intente alla filatura del bisso : una di esse ha il cestino con i bioccoli pronti e le altre hanno in mano un piccolo fuso e filano la bambagia. La famiglia Diana accompagna i fotografi in questa scoperta del mondo tessile di S.Antioco. Italo Diana, fotografato con mastruca mentre suona le launeddas, sarà uno degli ultimi maestri a tenere una scuola di bisso.
Molte famiglie sapevano filare e tessere la seta di mare ma si preferiva mandare le ragazze a scuola da un maestro quando si voleva far apprendere non solo la tecnica ma una particolare sensibilità artistica e una intelligente visione d'insieme nella realizzazione del prodotto finito.
Alla scuola di Italo Diana lavoravano 10 ragazze, tra loro Maria Maddalena Rosina Mereu. Quest'ultima, a cui la madrina di battesimo aveva dato il nome Leonilde al posto dei tre nomi d'anagrafe, sarà a tutti nota come Leonilde. Nota perché sarà poi lei a fare scuola e perché sarà lei la nonna e maestra di Chiara Vigo .  che   vedete  all'opera sia nel   video  sopra   che   in questo  sotto 













C'è qualcosa di magico nella stanza-museo di Chiara Vigo: lo si avverte subito, appena si entra.Il telaio imponente cattura l’attenzione, i tavoli di ginepro regalano eleganza. Davanti alle finestre una schiera di barattoli, in cui riposa il colore - per tingere il bisso - estratto da fiori e foglie: il laboratorio del Maestro è pieno di segreti. Ed è un mistero anche questa donna dallo sguardo profondo che, se non si fosse chiamata Chiara, sarebbe benissimo potuta essere Penelope, visto il tempo dedicato alla tessitura. Ha 59 anni ed è l’ultimo Maestro di bisso. Al mondo. È lei stessa ad andare a raccogliere la seta del mare. La bava della Pinna nobilis si solidifica al contatto con l’acqua: Chiara si immerge, la taglia, la porta in superficie, la dissala per 25 giorni poi comincia il procedimento di filatura. Canta mentre lavora, ininterrottamente: senza le canzoni, non si possono fare gli intrecci. «L’uomo di Sant’Antioco – spiega - non ha la giacca, ha su seraniccu, il cappotto di seta: la spinatura si fa con le unghie, ma senza la canzone non si hanno i riferimenti per muovere le mani ».Parla a ruota libera, provare a fare delle domande è quasi inutile. Sono troppe le cose da spiegare: le regole del telaio, le centinaia di modi per ricamare, imparati in una vita dedicata alla tessitura. Racconta un’arte antica, mentre mostra le foto di famiglia: la nonna in abiti di seta, la mamma ostetrica, il bisnonno Maestro di sartoria - del quale conserva gelosamente uno specchio, datato 1898. E poi il matrimonio e le sue belle figlie, Maddalena e Marianna, già depositarie della tecnica, ma non ancora pronte a giurare per il passaggio del testimone.
Chiara vive nella piccola Isola da quando era bambina: il mare è la sua seconda casa.
Insieme ad altre quattro donne (una brasiliana, una giapponese, una messicana, una norvegese di Capo Nord) compone il nucleo delleDonne acqua. L’anno venturo, il 2 giugno, si ricongiungeranno in Brasile per onorare il mare del suo Canto.«È un canto molto antico, intraducibile», sul quale Chiara non rivela molto. Cala il silenzio e l'aria si fa solenne.

«Ora però dovete spegnere il registratore», avverte. Il Maestro scioglie i capelli, toglie le scarpe, ci volta le spalle e si allontana. Imita il suono del vento del mare e poi canta e danza. Una sola delle 199 strofe che compongono il Canto: è un regalo, per la nostra visita.
Come ha imparato tutte queste cose?
Mia nonna era un Maestro, e prima di lei sua nonna, e la nonna di sua nonna e così via. Nel Canto dell’Acqua sono 29 i nomi prima del mio.Su Cantu Mannu, si canta solo all’alba e al tramonto: il Maestro, da solo, veste la tunica di preghiera: è un momento totalmente esoterico.
Quando ha iniziato a lavorare al telaio?
Da bambina, ma ci ho pensato bene prima di fare giuramento. Quando mia nonna mi ha trasferito il formulario ho capito cosa ero diventata: l’arazzo più bello che lei avesse mai potuto tessere.
Avevo 23 anni, è stato tanto tempo fa.
Ponente, Levante, Maestro e Grecale, prendete la mia anima e buttatela nel fondale, che sia la mia vita per Essere, Pregare e Tessere, per ogni gente che da me va e da me viene, senza tempo, senza nome, senza colore, senza confini, senza denaro. In nome del Leone dell’Anima mia e dello Spirito Eterno, così è stato, così è e così sarà: io giuro.
Contro questo, zia (Chiara chiama se stessa ‘zia’, ndr) non conosce niente e nessuno: il bisso è dei bambini del mondo, ciò vuol dire che non si vende e non si compra.
Ha una bella responsabilità…
Sì, zia ha queste responsabilità. Questo è il tessuto con cui vestiva Salomone: alla luce si illumina e diventa oro purissimo. Ci vogliono anni di lavoro per fare anche un piccolo quadrato di stoffa, filato con il fuso. Io lo dico sempre: una tessitrice può saper filare, ma non è me.
Sa trasferire un rosso porpora? Sa ricavare una bava, metterla a bagno con il melograno e trasformarla in rosso? Lo sa fare?
No, allora non è me. Io non sono qua per fare la bella statuina, ma non lo hanno ancora capito.
Non ha delle allieve a cui tramandare il suo sapere?
Nessuno vuole imparare davvero. C’è qualcuno che viene qua, ma l’ambizione è quella di diventare tessitrice. Io non sono un artigiano e non voglio insegnare le cose in maniera approssimativa. Sono unu maistru de pannu, la persona che deve tutelare e conservare per chi verrà, senza venderlo, quello che già era.
Ci sono delle ragazze che stanno con me: l’architetto Maria Pasqui, per esempio, ha deciso di trasferirsi a Sant’Antioco per fare la scuola di colore. Ci vuole almeno un anno per capire in quale tempo raccogliere l’erba, con quale luna, come metterla a bagno, quando aggiungere il sale, come farla ossidare, e poi tingere e tessere. Maria è anche perito tessile, ma ha imparato a filare con me. Nonostante le sue qualifiche, l’unica persona al mondo che le può insegnare quello che ha appreso qua sono io.
Mi avevano detto che aveva un caratteraccio, mi sembra, invece, semplicemente una persona schietta
Io non capisco quale sia il problema, con me: mi alzo alle tre del mattino, prego per la pace nel mondo fino alle sette. Ogni giorno dell’anno.
Entro nella mia stanza alle nove, ricevo il mondo, vivo solo di offerte. Quindi: cali esti su problema? Io non lo vedo.
Siamo nel 2014, non si può continuare a ragionare con i piedi: la notorietà non viene dal giocare a pincaro. Le onorificenze che ho ricevuto, non le ho certo avute perché sono carina. Sapete quanto tempo ci vuole per fare questo tanto di bambagia? - Smuove ciuffi di bisso, piccoli batuffoli apparentemente ispidi -
Io scendo sott’acqua, taglio la seta e la porto in superficie. Difendo il nostro patrimonio.
Per tessere una pavoncella* senza disegno ci vuole una vita; per filare una cosa che non si sente, non ha peso … dammi la mano e chiudi gli occhi: hai il bisso sul palmo, anche se non lo senti (è davvero impossibile avvertirlo al tatto, la sensazione è indescrivibile, ndr).
E adesso zia vi fa il filo…
Il filo?
Ogni donna che passa qua si porta via su lacciu, il filo dell’acqua. Va conservato, è un passaporto. Un mese prima delle nozze le donne tornano da me, con un metro di tela di lino bianco e io confeziono il cuscino di nozze, con le due pavoncelle ricamate, sul quale andranno le fedi (su pann’e coiai). Se invece la donna regala il filo al figlio che viene, zia preparerà su pann’e nasci, una vestina per il battesimo con due metri e mezzo di lino bianco.



Tutto parte dal filo, infatti ognuna porta via il proprio filo: senza il vostro filo io non potrei filare. Ogni donna che entra qua dentro è il filo che permette a me di collegarmi con l’acqua, di fare da ponte. Tu Martina devi sposarti?
Chiara mi coglie alla sprovvista, ero convinta di essere io a fare le domande, ma dirigere ’intervista non è facile. Le spiego che non ho progetti di matrimonio, non nell’immediato.
Io non farei così il conto, mi pare che è più immediato di quanto pensi tu. Il filo ha rotto il filo e in genere funziona: o arriva un bambino o si sposa una donna. Una delle due: quando si spezza il filo o devo fare un panno o devo fare un vestito.
È la cosa più bella per una donna, l’amore è una cosa infinita. Io ho sposato un uomo che mi ama da trent’anni. Mi porta il caffè al pomeriggio, cucina per me, mi aspetta quando parto, manda via la gente se sto dormendo. Ecco, guarda: ora il filo è diventato magico, brilla, ma senza la formula giusta non diventa oro.
E questo lo sa fare solo il Maestro…
Sì, ma non siamo più abituati ai Maestri, per questo spesso li confondiamo con gli artigiani.
Il Maestro ha tutto in testa e si occupa solo di trasmissione orale. Per questo leggere di lui non è mai come incontrarlo.
Tu non avevi mai sentito il Canto dell’acqua, fino ad oggi, e sai che cosa vuol dire questo? Che ti hanno tolto la possibilità di conoscere.
Io non andrò mai a insegnare in un corso, con 15 persone. Se un ragazzo viene qua, il segreto passa da me a lui e io sono ben lieta di tramandarlo.
Alla confusione chiudo le porte perché proteggo il sapere, in nome del giuramento.

Nel 2001 mi hanno offerto due miliardi e mezzo per il Leone delle Donne. Ma se è delle donne perché lo devo vendere?
Io l’ho costruito perché nel ’96 ho ricevuto l’"Asfodelo d’oro" per il premio Donna sarda che viene concesso a una donna ogni anno e io l’ho ricevuto dopo Maria Carta.
Però ho pensato che a tutte voi sarebbe spettata una medaglia d’oro per la vostra vita e non ve l’avrebbero data. Quindi ho costruito il Leone, di bisso, per tutte le donne del mondo.
È vostro, non è di zia.

Quanto tempo impiega per confezionare i suoi lavori?
Non si conta il tempo: quando è finito è pronto, non si può pensare al tempo. Quando il Maestro è stanco legge il suo diario di bordo (un quaderno carico di commenti dei visitatori di Chiara, circa 70mila all’anno, ndr) e ricomincia a lavorare.
Finché qua entrerà una donna, piccola o grande che sia, io non posso chiudere quest’affare.


* La pavoncella, antico simbolo ebraico, rappresenta il viaggio delle idee. È inciso sul telaio del Maestro e Chiara lo disegna perfettamente, oltre che sulla tela, anche a mano sulla bustina nella quale conserva il filo di bisso che porge in dono alle donne che le fanno visita, insieme a Tanit, la chiave della vita e al simbolo dell’acqua.


emergenza femminicidi non basta una legge che aumenti le pene ma serve una campaga educativa altrimenti è come svuotare il mare con un secchiello

Apro l'email  e tovo  queste  "lettere "   di  alcuni haters  \odiatori  ,  tralasciando  gli  insulti  e le  solite  litanie ...