Visualizzazione post con etichetta LE STORIE.. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta LE STORIE.. Mostra tutti i post

7.1.16

La scimmia si fa un selfie, guerra legale per i diritti d'autore sulla foto

 L'unico commento  che mi  viene  da  fare    leggendo  la  vicenda  sotto riportata  è    lostesso che  ho fatto  sul gruppo dell'associazione  di cui faccio parte  :



attenzione se le scimmie ( fra cui il sottoscritto Emoticon smile ) vi rubano la macchina e poi ci fanno un selfie poi qualcuno scrive su wikipedia dell'accaduto , poi è un caos per i diritti

 da l'unione  sarda  7\1\2016  12:42



la foto del macato pubblicata su wikipedia
La foto del macato pubblicata su Wikipedia
I macachi non possono rivendicare i diritti d'autore su una fotografia. La notizia arriva dagli Stati Uniti, dove un giudice ha dato ragione al fotografo David Slater in seguito a un contenzioso legale con Wikipedia.Cinque anni fa il sito della più grande enciclopedia online ha pubblicato una curiosa immagine di un macaco che prese la macchina fotografica di Slater e fece alcuni selfie. Una di quello foto è stata pubblicata online e attribuita al macaco.Il fotografo ha rivendicato i diritti, ma un'associazione animalista si è opposta citando in giudizio il fotografo. Il giudice ha però respinto l'istanza sostenendo le leggi sul copyright non vanno riconosciute agli animali.La battaglia legale continua, ma Wikipedia non ha rimosso la foto. E' cambiata la didascalia: "Autoscatto di una femmina di cinopiteco (Macaca nigra) effettuato nel Sulawesi Settentrionale, in Indonesia. Il cinopiteco ha rubato la macchina fotografica dal fotografo David Slater e si è fotografato con essa".

26.11.15

In prigione per 44 anni, esce e scopre come la tecnologia ha cambiato il mondo che conosceva



Lui è Otis Johnson, oggi ha 69 anni, ma quando fu accusato ed incarcerato per aggressione e tentato omicidio ad un ufficiale di polizia ne aveva solo 25. Il suo racconto, offerto in esclusiva alla TV Al Jazeera, sta facendo il giro del web e commuovendo tutti. Scontata la pena, Otis passeggia per New York e, raccontando le sue emozioni, scopre come la tecnologia ha cambiato il mondo che lui aveva visto per l'ultima volta 44 anni fa.

1.10.15

tornare indietro per andare avanti . intervista a Michele santoro di www.saperepopolare.com

Per la serie interviste oggi intervisto Michele Santoro, l'ideatore e fondatore di "Saperepopolare". 
   
Da una veloce visione del sito, ma soprattutto della pagina Facebook omonima, si comprende che si tratta di un «e-commerce che unisce lo spirito imprenditoriale del suo gruppo di lavoro ad una passione trasformatasi nel tempo anche in un obiettivo culturale strategico: descrivere i riti, le feste, le antiche tradizioni delle comunità italiane e delle minoranze linguistiche che vivono in Italia ma anche le idee innovative e "le buone pratiche" di vita». Lo scopo è quello di preservare «la "memoria" raccontando, nel contempo, l'Italia che cambia e di essere una finestra permanente sulla storia locale italiana e sui tanti "patrimoni" - materiali ed immateriali - presenti nelle comunità italiane e nelle culture "altre" che vivono in Italia». Per quanto riguarda invece gli aspetti di natura commerciale, Saperepopolare rivendica una sua originalità, quella di essere una sfida editoriale, «una scommessa affascinante, perché utilizza la rete e punta alle tecnologie del futuro per riportare in scena un passato che appartiene al mondo dell'antica sapienza popolare, prestando grande attenzione al momento in cui essa incontra la vita contemporanea e il pensiero dell'uomo d'oggi. Per questo motivo, accanto al classico libro nuovo e usato, (   www.sito   e la  pagina  fb  )   propone anche un catalogo selezionato di e-book, un grande assortimento di titoli in formato digitale continuamente aggiornato, dedicato a tutti gli argomenti della cultura ma che privilegia i prodotti di case editrici indipendenti». E c'è anche il finale col motto: "il "Sapere" non è mai stato così "Popolare"!  
Si potrebbe continuare a lungo nel descrivere Saperepopolare, ma è meglio dare la parola a Michele Santoro, il quale, tiene da subito a precisare che proviene dal mondo della ricerca, essendo "Cultore della materia" in "Teatro Sociale e di Comunità" all'Università di Torino.

1) Come  mai  questo  termine - Saperepopolare - di lontana memoria, ideologica tipica del XIX e XX secolo, secondo alcuni/e?
MS: In quel motto - "il "Sapere" non è mai stato così "Popolare"! - c'è un gioco di parole che svela un po' i nostri obiettivi: "Popolare" non solo in termini di "sguardo dal basso", ma anche di "diffusione" massima del "Sapere". Il riferimento, da questo punto di vista, è per nulla ideologico e tutto rivolto a capire come, in passato, si affrontavano (e spesso si risolvevano) i problemi, quelli di natura quotidiana, come il cibo, l'abbigliamento, le malattie, il lavoro, ecc. rapportandoli al presente. E non sempre il progresso ci offre soluzioni migliori di quelle che si individuavano nel passato. Insomma, utilizziamo il concetto di "sapere popolare" come una sorta di filtro storico per capire come siamo (mi riferisco alla popolazione italiana) cambiati nel corso del tempo. Con un occhio particolare alle tradizioni ed alle feste popolari, tra sacro e profano, ed anche alle popolazioni di lingua minoritaria che via via sono venute ad integrarsi con le persone nate nel nostro Paese.

2) Saperepopolare è nato da subito con l'intento di salvaguardare ed integrare le tradizioni popolari, come dichiarato al Gruppo AXA "Nati per proteggere" - ( https://natiperproteggere.it/it/storia/254/sapere-popolare.html - ) oppure   lo è diventato via via?
MS: Saperepopolare che, giuridicamente parlando, è un'impresa individuale, origina in effetti da un impegno si salvaguardia «delle identità  territoriali, in un'ottica di integrità nazionale». Ciò è stato mantenuto nel tempo, anzi si è riforzato, perché mettere in rete e tutelare le identità territoriali italiane meno conosciute e far conoscere, rendere visibile con la narrazione «prodotti tipici, ambiente, territorio, usi e costumi locali» ci è sembrata un'impresa entusiasmante. In seguito ci siamo sempre più convinti che la cultura popolare doveva essere intesa non solo come tradizione, ma anche come contenitore di buone pratiche di territorio, di buoni esempi che partono dal basso, dalla gente comune, e che
da  google.it 
possono diventare appunto modelli da imitare. Ma questa seconda strada non rinnega la prima, anzi la ricomprende in un obiettivo più ampio. Inoltre, ci siamo accorti che la ricerca sulla cultura popolare poteva essere un mezzo ottimale per accrescere il dialogo intergenerazionale. La realtà di «ieri» e dell'«altro ieri» poteva cioè essere riletta e consegnata (“tradendo”, nel senso filologico di trasmissione, la tradizione) ai futuri giovani testimoni e «costruttori» di nuove memorie. Di qui l’idea di sviluppare il nostro lavoro, principalmente su due piani pratici: 1- creare e far crescere una sorta di giornale telematico innovativo, aperto alla collaborazione di tutti; 2- editare una collana di libri in formato digitale di immediata e facile fruizione. Ci stiamo impegnando per mettere in pratica questi nostri due percorsi. Ma non ci fermiamo qui. Andremo avanti anche su altre strade, come spiegheremo dopo, rispondendo a un'altra domanda.   3) Come distinguere la vostra missione di recupero e integrazione fra tradizioni e modernità senza scordarsi chi siamo stati e cosa eravamo come folklore? 
MS: Occorre precisare da subito che, né nei nostri scritti del Blog, né come categoria di classificazione nel catalogo libri, usiamo il termine folklore, parola piuttosto ambigua. A parte la connotazione svalutativa che esso ha assunto, finendo per indicare aspetti più che altro "turistici" (si pensi all'opposizione tra gli aggettivi "folklorico" e "folkloristico"), in Italia - a partire dall'opera di Alberto Mario Cirese - l'oggetto di studio di questa disciplina è stato sostituito da "Demologia" e, negli insegnamenti accademici, da "Studio delle tradizioni popolari". Più propriamente si parla, con Cirese, di "Demologia, come lo studio dei "dislivelli interni di cultura", cioè dei comportamenti e delle concezioni degli strati subalterni e periferici di una società rispetto a quelli egemonici. Ora, noi ci siamo posti il problema di come aggiornare gli studi demologici alla contemporaneità.



fiera  del tappeto di Mogoro edizione  2015  foto mia  
Ci ha molto suggestionato l'idea dell'antropologo Pietro Clemente, che nei suo scritti parla della necessità di fondare una "Antropologia dell'Italia". Abbiamo ritenuto la sua una necessità e ci sentiamo in cammino in questo solco di studi. Si tratta di un contesto culturale ampio e ricco, che ci permette di lavorare sull'Italia a tutto campo: da come si sono trasformati i comportamenti e le visioni del mondo delle persone, a come sono cambiati i territori e i loro abitanti dal punto di vista socio-economico, a quella particolarità che l'Italia presenta in ambito museale, rappresentata dai "Musei etnografici", molti dei quali nati per iniziativa privata di singoli cittadini, ma talvolta anche grazie all’impegno degli enti locali e delle pro-loco. La crescita numerica di questi musei, particolarmente negli ultimi due decenni del Novecento, è stata talmente rapida e diffusa che il nostro Paese può, a buon ragione, essere definito come la nazione con più musei etnografici al mondo. 

4) Non c'è il rischio che recuperando le proprie tradizioni si passi - come la lega ed altri - a posizioni d'identità chiuse e di xenofobia ed  pensiero unico dominante? O  peggio come  




MS: Su questo argomento siamo chiari e rigidissimi. Noi studiamo le tradizioni italiane più antiche con obiettivi storico-antropoligici. Non ci sono indicazioni di valore. Siamo convinti che le aree geografiche, chiamamole "territori" per maggior semplicità, abbiano specificità e tipicità (pensiamo al cibo) proprie, ma tenendo sempre conto di questa considerazione: la diversità serve unicamente per confrontarsi, al di là di ogni eccessivo e "talebano" campanilismo. E quanto più si è diversi, per abitudini di vita e di pensiero, più c'è da imparare da chi ci sta di fronte. In un'ottica di curiosità, oltre che di civile convivenza, principio che non va mai messo in discussione.  

5) Quali sono i vostri progetti per il futuro, visto che nell'immagine di copertina della pagina Facebook si legge: "Progetti per lo sviluppo di comunità"?

MS: Già Saperepopolare si manifesta, mediante il Blog, come un osservatorio culturale partecipato per promuovere lo sviluppo di comunità, affinché la specificità dei diversi territori possa diventare sempre più un patrimonio comune da far conoscere, valorizzare e tutelare. Di più, nel corso degli ultimi mesi, abbiamo maturato la decisione di calarci sul territorio, promuovendo progetti concreti da proporre ad Amministrazioni locali ed a Associazioni rappresentative, come ad esempio le Pro Loco. Detto in poche parole - poiché il progetto è molto lungo e articolato - si tratta di coinvolgere (e far partecipare) i cittadini di un determinato centro abitato o borgo nella scrittura di una "nuova storia" dei loro territori, quella che rappresenta la contemporaneità, ovvero l'epoca in cui vede come protagonisti quegli stessi cittadini. Inviteremo i testimoni privilegiati (in genere le persone più anziane, ma non sempre è così) del borgo a raccontare storie legate ai luoghi simbolo dei loro territori e poi utilizzeremo queste narrazioni come materiali fruibili attraverso strumenti della moderna tecnologia come i codici QR. Ma il progetto è ancora "work in progress...". Come si suol dire, "prossimamente su questi schermi..."

5.3.15

Olanda: esaudito il sogno di una 78enne, senza più speranza di vita. vedere la mostra di Rembrandt

Ogni uno di noi   ha un dettermnato desiderio prima di morire  . Ad  esempio   c'è chi  come  Lauren Hill  giocatrice  di basket   doi terza  categoria  sognava   da sempre di poter giocare una partita di campionato di basket professionistico   ma un tumore maligno al cervello allo stadio avanzato e inoperabile. A Lauren restano pochi mesi di vita.una  grave malattia , un tumnore  al cervello gli lo impedisce . Ecco che il   Ncaa, National Collegiate Athletic Association (la lega universitaria americana) c  gli oo realizza.  Qui  maggiuori dettagli 
Ma  la   storia  che mi ha  colpito di più  e  che voglio raccontarvi  è quella  di una donna olandese di 78 anni, malata terminale  che  ha  chesto ed  ottenuto   come  su ultimo desiderio  di vedere  la mostra  di Rembrant  .

L'ultimo desiderio di una donna malata "Vedere Rembrandt prima di morire"                                              La donna malata alla mostra di Rembrandt   


AMSTERDAM – Il suo ultimo desiderio prima di morire era di vedere il suo pittore preferito, il più amato: Rembrandt. Voleva vederlo esposto al RijksMuseum di Amsterdam, dove i pittori fiamminghi sono i protagonisti indiscussi. Ed è riuscita a realizzare il proprio sogno"Prima di morire, vorrei vedere la mostra di Rembrandt". Questo l'ultimo desiderio di una donna olandese di 78 anni, malata terminale. Un sogno che ha potuto realizzare grazie alla Stichting Ambulance Wens, associazione con sede ad Amsterdam, fondata da un ex autista di ambulanze, che si occupa di assistenza ai pazienti ormai incurabili, cercando, per quanto possibile, di rendere più "dolci" e dignitosi i loro ultimi momenti di vita.IL merito dei volontari della Stichting Ambulance Wens (la Fondazione Ambulanza dei Desideri), un’associazione olandese che permette ai malati terminali di andare nei posti che vogliono per realizzare il loro desiderio, trasportati in barella, ben coperti, a bordo di un’ambulanza.
L’associazione ha anche un profilo twitter su cui vengono pubblicati gli aggiornamenti con tanto di foto dei malati portati in giro, e non solo ai musei, ma anche allo stadio, a dei concerti e via dicendo.
E così questi "angeli" hanno prelevato l'anziana dal suo letto, conducendola in barella al Rijksmuseum della capitale olandese, permettendole di ammirare da vicino le opere del suo pittore preferito. Le foto del commovente ultimo desiderio esaudito hanno fatto il giro del mondo. Infatti
l'idea è dell' associazione di Rotterdam: Stichting Ambulance Wens. Che tradotta sta per Fondazione Ambulanza del desiderio  , nata  nel  2007   è quella raccogliere l’ultimo sogno delle persone malate terminale e cercare di esaudirlo. Sono dotate di ambulanze gialle, grazie alle quale i volontari possono portare i malati ovunque. Molti scelgono di vedere il mare, di passare qualche mezz’ora in spiaggia, pur distesi sulle barelle.
Ma  a scorrere il sito si scopre che la varietà dei desideri non conosce perimetri. Ultimamente più persone hanno chiesto di poter vedere l’eccezionale mostra che il Rijksmusem di Amsterdam ha dedicato a Rembrandt. E così le foto dei pazienti in barella davanti ai capolavori del grande maestro olandese hanno iniziato a fare il giro del mondo. Come questa di un’anziana signora che si gode lo stupendo autoritratto con tavolozza e pennello in mano. Non è un quadro scelto a caso, perché con questo autoritratto dipinto nel 1660, oggi conservato a Kenwood. Era  forse la prima volta nella storia che un pittore si rappresentava con gli arnesi stessi del mestiere, per affermare in modo preciso la propria identità. La destra è nell’ombra, la sinistra regge invece tavolozza, pennelli e stecche. In realtà la mano non si vede. Sembra quasi che sia diventata una protesi e che l’identità di quella mano consista negli strumenti usati per dipingere. Insomma guardando questo quadro non si vede solo un capolavoro, in un certo senso si incontra Rembrandt di persona.
Perché una persona prima di morire vuole vedere un’opera come questa? Per assaporare l’emozione, certamente. Ma forse perché la pittura quando raggiunge questa grandezza ci parla anche della vita oltre la vita. Fa vibrare una dimensione della persona che non è più stretta nell’orizzonte temporale ma è proiettata verso un tempo che non passa. Quadri come questi suggeriscono la dimensione di un destino; un destino che c’è, che non è muto, che non ha capolinea. Forse quadri così aiutano ad andare oltre il proprio morire.

24.2.15

ogni tanto la rai tramette dei bei film . Treno di notte per Lisbona (Night Train to Lisbon)

come stravolgere la propria routine quotidiana    Valutazione 4 stelle su cinque
Chi lo dice  che  i  film d'amore  siano   solo pucci  puci  o  peggio qualcosa  di melensi e noiosi  .In un  giornata  di pioggia e vento come quella  d'oggi  anzichè cazzeggiare   a  fb    ho visto tramite  rai  replay    questo  film   :  Treno di notte per Lisbona (Night Train to Lisbon) è un film del 2013 diretto da Bille August e con protagonisti Jeremy Irons, Mélanie Laurent, Jack Huston, Martina Gedeck, Bruno Ganz e Christopher Lee. Il film è basato sull'omonimo romanzo scritto da Pascal Mercier nel 2004.
Se  non fosse   per  una  collega  che  me lo ha consigliato  e  per  rai   replay   me lo sarei perso  . Uno di   quei   film  da  un tuffo nell'anima... perdersi per poi forse ritrova .percorre alcune vicende della resistenza portoghese alla dittatura di Salazar.
Scorro alcune recensioninegative  al limite dela stroncatura   in particolare fra  le tante   questa di http://www.mymovies.it/ e mi dispiaccio del fatto che non pochi lo abbiano trovato "monotono" o di difficile da  seguire , ed il punto per me è proprio questo: non tutti i film sono per tutti, e non tutti i film debbono pertanto essere semplici o eccessivamente scorrevoli. Anzi, sono convinto che sia proprio una scelta dell'autore ( per me perfettamente azzeccata ) di far scorrere lentamente il tutto per potersi concentrare maggiormente sui concetti e sulle profondità del pensiero che ne deriva.  Infattti : << "Lasciamo sempre qualcosa di noi, quando ce ne andiamo da un posto: rimaniamo lì; anche una volta andati via e ci sono cose di noi che possiamo ritrovare solo tornando in quei luoghi. Viaggiamo in noi stessi quando andiamo in posti che hanno fatto da cornice alla nostra vita. Non importa quanto questi siano stati brevi e viaggiando dentro noi stessi, ci dobbiamo confrontare con la nostra solitudine. Ma tutto ciò che facciamo, non lo facciamo forse per paura della solitudine? Non è questo il motivo per cui rinunciamo a tutte le cose che rimpiangeremo alla fine della nostra vita? ..."  >>  Non riesco personalmente a trovare un difetto a questo film . Il fatto che da molti non venga apprezzato a mio parere riflette semplicemente il periodo storico culturale che viviamo...un po' come se facessimo ascoltare a Beethoven coni ritmi  moderni ( tecno ,house, ecc ) . 



Un film   sconsigliato a chi odia i  film lenti . E' vero è lento  a volte  anche troppo  , ma   è compensato dala suspence   della ricerca   della verità . E  poi  non è semplice   riassumere  una  vicenda  \  storia   compelssa  ,  si rischierebbe   di concludere  troppo in fretta un film ottimamente costruito .
Si sente  sente molto il background filosofico  del romanzo    che si  sente  nelle voci fuori campo che a tratti  secondo alcune recensioni   appesantisce un pò la trama  rendendola poco scorrevole, di non semplice lettura , è vero che  esse sono  <<  spiegate ad alta voce (di fronte al treno in partenza o nello studio oculistico)  >>  ma poco  importa  non toglie  niente  al  film  al travaglio interiore  del professore  il  protagonista principale   , davanti  alle  vicende  deglia ltri\e   protagonisti della storia  .  In  essa    c'è una certa suspense che spinge ad andare avanti, anche se il finale potrebbe essere deludente  ma  in realta  non lo  è  perchè ... ,ma  si  ve lo dico    tanto il film   è vecchio  e non è nei cinema  o appena uscito   in dvd ....  colui che ha intrapeso il viaggio   decide  di lasciarsi ale spalle  la sua non vita  . Quando l'amore  viene  prendilo  senza  dubbi  altrimenti poi lo perdi  per  sempre  .  Ottima la musica  , specie qella finale  , che lo accompagna  . Ottimo cast  ed ottimo  la  fotografia  .  Stesse atmosfere , anche se  meno tormentate e  filosofiche  di  : Sostiene  Pereira  e  di Terra e libertà
Bello   ed  intenso  .  Questa  è una delle rare  volte  in cui la Rai   è vera  Rai e non Raimediaset  .  e  tramette   film non  mediasetizzati . 


3.2.15

Dagli archivi della Casa Bianca emerge un telegramma inviato dalla star di Hollywood alla coppia presidenziale. Ma i Regan dissero NO

  fno a che punto  l'amicizia può arrivare ?  , mi chiedo leggendo  questa  storia 

Dagli archivi della Casa Bianca emerge un telegramma inviato dalla star di Hollywood alla coppia presidenziale.

 
Rock Hudson (a sinistra) con Nancy e Ronald Reagan
1985: Rock Hudson sta per morire di Hiv e chiede aiuto al suo amico Ronald Reagan, presidente degli Stati Uniti. Vorrebbe partecipare a una cura sperimentale contro l'Aids, in Francia. La risposta della coppia presidenziale è netta: "No". Ora emerge un telegramma, rintracciato negli archivi della Casa Bianca, che riporta la disperata richiesta di aiuto, e sembra che sia stata proprio Nancy Reagan a decidere di non tendere la mano alla star di Hollywood. La scusa: non si possono chiedere raccomandazioni per i propri amici per qualcosa che non si può garantire a tutti gli americani. Dietro, invece, ci sarebbe l'imbarazzo per l'omosessualità dell'attore.

Freelance: giovani non più giovani professionisti dell'oggi La storia di Eleonora Casula

Anche i frelance sono giornalisti . Soltanto che sono , per esperienza personale i più liberi . Essi sono " una categoria " Dimenticati dal Jobs Act ci sono giovani che non si sono arresi prima e non si arrendono ora. Stay hungry, stay foolish , citando Steve Jobs è il leit motiv della nuova generazione di creativi della rete. Inventarsi un lavoro non è facile occorrono coraggio e perseveranza, una buona dose di formazione e di coaching. Nessun timore per tasse, casse, INPS, ritenute e tutto ciò che comporta avere una Partita Iva. Mettersi in gioco, lanciarsi su un mercato, provare a lavorare in modo indipendente e con i propri strumenti è possibile, ma lo è solo ed esclusivamente se si ha la giusta formazione, il giusto carattere e sopratutto una ottima conoscenza della rete e dei suoi infiniti piccoli e grandi segreti. Tra i giovani c'è chi è in grado di ritagliarsi uno spazio professionale. Un caso, quello di Eleonora, libero professionista e Partita Iva del settore comunicazione. Internet, la rete, la comunicazione, la fantasia, la capacità di scrivere, la conoscenza di più lingue straniere, queste le sue risorse. Ecco la storia di una di loro Eleonora Casula  (  foto  sotto  ) 

Eleonora, , ha iniziato il suo viaggio nel mondo dei freelance, un po' per gioco, un po' per noia ma
sopratutto per amore.
Stanca di inviare curriculum, rispondere a proposte di candidatura e non ricevere mai una richiesta
di colloquio, diversi anni fa Eleonora ha deciso di provare da sola a costruire la propria
professione. Un solido percorso di formazione e piccole collaborazioni, spesso gratuite o
frequentemente non pagate sono stati un ottimo background per tentare.
Provare, provare sempre, mettersi in gioco quotidianamente, la sua ricetta, quella di brava
freelance.
Scrivere per il web non è un gioco da ragazzi ma significa: riuscire ad intercettare al meglio
algoritmi complessi; creare una buona campagna di web marketing. Grazie alla buona conoscenza
del Seo è possibile lavorare bene e sopratutto soddisfare le esigenze del cliente. Oggi con internet
anche la figura dell'addetto stampa cambia, un testo per avere visibilità deve essere realizzato in
chiave Seo e deve soprattutto essere accattivante così tanto da poter stimolare una ipotetica viralità
anche nelle testate o negli spazi che lo rilanceranno.
Eleonora comunica, in tutti i modi possibili e probabili grazie alla rete. Scrive, pubblicizza, crea
contenuti, posiziona al meglio siti aziendali e personali, prodotti e sopratutto soddisfa le necessità
di chi vuole avere la giusta visibilità online.
Dalle campagne stampa tradizionali a quelle più innovative attraverso tutti i media raggiungibili,
dalla carta stampata alla radio, alla televisione e ai blog. Crea e gestisce pagine social, rivestendo il
ruolo di social media manager; genera campagne pubblicitarie di web marketing per privati e
agenzie; cura la comunicazione politica attraverso internet per singoli o partiti.
Eleonora si definisce una creativa della rete, una web writer, content editor, web marketer, digital
PR ,social manager e addetto stampa nel mondo 2.0. Flessibile, una flessibilità intelligente e non
casuale. Eleonora come ogni freelance continua la ricerca di collaborazioni per accrescere le
conoscenze e per scoprire nuove realtà al www.webjournalist.eu

la  trovate   oltre  che  sul suo sito   anche su  facebook   
come  Redazione presso

22.11.14

come si resiste alla crisi e alle prepotenze dello stato ed i suoi apparati come equitalia che pretendono anche un centersimo d'arrettratto

La storia   che  ha  ispirato il post  è questa  : << Equitalia pretende un centesimo dal Comune di Orune >>>
da   Cronaca - la Nuova Sardegna
21 novembre 2014 
 
Il sindaco risponde con ironia: «Provvederemo subito al rimborso, non vorrei che il mio ente acquisisca fama di cattivo pagatore»
 
ORUNE. Leggendo la comunicazione di Equitalia, Michele Deserra, sindaco di Orune, [  foto sotto al centro  ] per un istante avrà pensato a qualche errore di calcolo. Invece no, nessun errore. Peraltro l’importo era riportato sia nella lettera che nel prospetto di pagamento; un centesimo, a «restituzione delle somme anticipate ai sensi dell’art. 26, comma 1 del D.Lgs. 112/99».
 
 
Deserra ha provato, per tutta la mattinata di ieri, a contattare l’agenzia, ma senza successo. «Provvederemo subito al rimborso, anche perché il centesimo ci è stato chiesto con cortese sollecitudine – ha dichiarato con sottile ironia il primo cittadino – e non vorrei che il Comune di Orune acquisisca fama di cattivo pagatore e di ente moroso. Quello che mi lascia stupefatto sono due cose. La prima – ha detto – è che non solo si deve provvedere a saldare il debito celermente, con relativo ordinativo di pagamento; cosa che da sola ha un costo di gran lunga superiore al centesimo. Ma dovremo comunicare per iscritto a Equitalia l’avvenuto adempimento».
«Ho il massimo rispetto per i servizi di riscossione – ha proseguito – ammiro la precisione e la puntualità, e per quanto posso, mi adopero affinchè anche il Comune lo sia nei confronti dei cittadini e delle istituzioni. Sono però una persona pratica e vorrei capire – si chiede Deserra – perché Equitalia non ha trattenuto il centesimo dalle entrate che riscuote a nostro titolo e che provvede a versarci».
In effetti, come ha fatto notare mostrando l’ingiunzione di pagamento, l’incongruenza poteva essere regolarizzata con una semplice compensazione, come prospettato dagli stessi funzionari dell’agenzia. «Avremmo evitato perdite di tempo e iter burocratici che alla fin fine – ha detto – si traducono in costi ben superiori. Anche l’invio di una semplice lettera è sessanta volte l’importo richiestoci». 
Ci sarebbe    da  ridire  in quanto  è una storia   anche se  a  ruoli invertiti   alla peppone  \ don camillo che  facevano ridere   i mie nonni e bisnonni  e  me  da  bambino .  Ma  invece   in tempi come  questi   c'è  da paingere , anzi  peggio da  indignarsi  , ma  preferisco autocensurarmi per  non scadere  nel b ecero  qualunquismo e  volgarità gratuita  abbassandomi al  loro  livello  e  poi  ho come il video sotto 
 
 
 
Ma  fortunatamente mi rasseno  con  queste  altre due storie   .
La prima  sempre    dalla  Nuova  Sardegna 

Emigrare? Meglio allevare lumache

La scommessa di due giovani nuoresi: un terreno a Baddemanna, le prime 10mila chiocciole, e tanta buona volontà

NUORO. «I nostri parenti? All’inizio soprattutto ci hanno detto che eravamo strani, ma noi abbiamo spiegato a tutti che lo stiamo facendo per crearci un posto di lavoro senza chiedere niente a nessuno. E perché non vogliamo essere costretti a emigrare come tanti nostri coetanei. Per questo abbiamo deciso di tornare alla campagna, per noi è il vero futuro».
 Felpa sportiva, mani infilate nelle tasche per liberarsi dall’umido penetrante delle campagne di Baddemanna, Giampiero Salis e Gianni Barroccu, raccontano la loro avventura imprenditoriale con la naturalezza che deriva dalla passione unita a un pizzico di sana incoscienza.

Entrambi sui 36 anni, entrambi nuoresi, entrambi con la voglia di scrollarsi di dosso l’idea di un futuro senza lavoro, o con una occupazione stressante e priva di prospettive, qualche mese fa, i due amici hanno deciso di tentare il tutto per tutto e lanciarsi in un nuovo businness: quello della lumaca.
«È nato tutto per caso – spiegano, mentre sistemano alcune reti nel loro terreno a Baddemanna, a pochi chilometri da Nuoro uscendo dalla zona di Mughina – è nato perché volevamo fare un’attività tutta nostra, senza dover niente a nessuno, e senza lo stress che spesso nasce da un lavoro dipendente, o peggio dalla mancanza di un lavoro. Né volevamo fare come alcuni nostri amici che sono dovuti emigrare per trovare un posto».
E così, un bel giorno di diversi mesi fa, Giampiero Salis, di professione barista, e Gianni Barroccu, ex guardia giurata, dopo aver fatto le dovute ricerche di mercato su internet, capiscono che il business della chiocciola potrebbe fare al caso loro. Giampiero, del resto, ha un terreno di famiglia a Baddemanna, e il pallino di trasformarlo prima o poi in qualcosa di utile. E poi vuoi mettere la campagna con lo stress che nasce dallo stare tutti i giorni dietro il bancone di un bar? Così, i due amici nuoresi, si lanciano a capofitto nella nuova scommessa. Ma lo fanno per bene: seguono corsi di elicicoltura in alta Italia, cominciano a tessere rapporti con chi conosce il settore più di loro, imparano tutto quel che c’è da sapere su lumache, allevamento e dintorni. E partono alla grande. Siamo allo scorso febbraio e ai due amici tocca arare il terreno che hanno scelto per impiantare il loro allevamento di simpatiche chiocciole.

«Lo abbiamo arato – spiegano – e poi ci abbiamo piantato cavoli, bietola e trifoglio. Le lumache ne sono ghiotte. Quando le piantine arrivano ai circa 15 centimetri di altezza, allora sullo stesso terreno mettiamo le lumache-fattrici, quelle che poi figlieranno. Siamo partiti con un quintale di fattrici, corrispondono a circa diecimila lumache, laprima raccolta l’abbiamo fatta ad agosto scorso, poi abbiamo venduto le fattrici a Sassari. Poi abbiamo continuato ad allevare le chiocciole piccole e le abbiamo raccolte qualche settimana fa, a ottobre».
Sono giornate piene, insomma, quelle dei neo-allevatori di lumache. Piene, a volte un po’ faticose, ma per fortuna ricche anche di altrettante soddisfazioni. «Che dire? Gli affari, dopo un inizio “a passo di lumaca” stanno cominciando a ingranare. Le lumache ce le chiedono dalla Francia, qui in Sardegna ovviamente dal Sassarese dove ne consumano tante, e da noi ce le chiedono per tantissime sagre, cortes apertas, spuntini di caccia. La nostra grande soddisfazione è che siamo riusciti a fare tutto da soli, senza dover chiedere favori a nessuno. Certo, avremmo sperato in qualche contributo per i nuovi agricoltori ma in futuro contiamo di avere qualcosa. L’altra grande soddisfazione è stata quella di essere riusciti a “convincere” le lumache ad adattarsi anche a vivere in un terreno in collina come il nostro e in mezzo agli alberi. E per il futuro abbiamo tanti progetti».
  
Scelta  coraggiosa   questta   di        Gianni Barroccu e Giampiero Salis che hanno preferito  resistere   e  non emigrare   cioè  hanno preferito fare  come la  tavola ,  riporta  qui  a  sinistra  ,  di  Sergio Staino tratta  da  Bobo  Novecento  capitolo  sul fasismo 
 
La seconda invece  è  presa  da   http://www.ijobs.it/13487/brunello-cucinelli.htmlun imprenditore  non  neccessariamewnte  capitalista  o  capitalista  democratico   decide  di 

Imprenditore divide con i propri dipendenti 5 milioni di utili dell’azienda

Brunello Cucinelli ha deciso di dividere il proprio utile societario con tutti i dipendenti. Ogni stipendiato riceverà così un bonus da 6 mila euro sulla propria busta paga.
 
brunello-cucinelli1
Brunello Cucinelli è il titolare dell’omonima azienda italiana, eccellenza nazionale nel mondo del cachemire. La notizia di oggi, tuttavia, non è legata alla straordinaria qualità dei suoi prodotti, quanto il fatto che il manager abbia deciso di ripartire il proprio utile aziendale con tutti i suoi dipendenti.
Questo vuole essere un dono di famiglia” – ha precisato Cucinelli a chi gli domandava le ragioni di questo gesto di forte significato, in un contesto di enorme criticità quale quello attuale – “qualcosa che va al di là dell’azienda che è quotata in Borsa, abbiamo voluto dare un premio a chi è cresciuto insieme a noi e l’abbiamo comunicato ai dipendenti
Ma quale sarà il “premio” che ogni dipendente riceverà in busta paga? Il bonus si aggira intorno ai 6 mila euro a testa, per una cifra che farà sicuramente piacere a tutti i 783 stipendiati della società.
I meglio informati ricorderanno che questa non è la prima notizia meritevole per la quale Brunello Cucinelli sale alla ribalta delle cronache. Tra gli anni ’80 e gli anni ’90, la società era stata protagonista dei lavori di restauro e di riqualificazione del Borgo medioevale di Solomeo (città nella quale ha sede la società), mentre tra il 2002 e il 2008 l’azienda è parte integrante delle attività di supporto alla realizzazione del complesso “Foro delle Arti”, con un teatro, un anfiteatro e un giardino pensile, oltre al finanziamento del restauro della casa dell’Accademia, sede della Biblioteca Neoumanistica. Più recentemente, nel 2011, la società ha finanziato i lavori di restauro dell’Arco Etrusco di Perugia.
Nel 2012, la società ha fondato la Fondazione Brunello Cucinelli, finalizzata ad iniziative culturali pertinenti all’ideale etico ed umanistico, con pubblicazione di saggi e studi specialistici, istituzione di borse di studio, corsi di aggiornamento e di formazione culturale.

Uno schiaffo in faccia a quelli che hanno svuotato le aziende, le hanno messe in concordato è lasciato alla fame tantissimi lavoratori !

28.6.14

essere,pregare,tessere Chiara Vigo l'ultiuma tessitrice di bisso racconta- i segreti del mare



ti  potrebbe  interessare  

La storia di Chiara Vigo la nuova Maria Lai . L'ultima donna in sardegna che tesse  ancora  il bisso ( I  II )   per  contattarla  : chiaravigo@hotmail.it o  bottega.bisso@tiscali.it Tel. 3473302237



Un arte molto  antica  . Infatti

  In Sardegna Fino ai primi decenni del secolo scorso piccole produzioni di bisso si avevano ancora ad Alghero, La Maddalena, Cagliari, Cabras, Bosa e Sant'Antioco. Ci fu anche chi, preso dall'entusiasmo per le particolari proprietà del tessuto marino volle sperimentarne una produzione industriale. Giuseppe Basso Arnoux inviò dalla Sardegna decine di Kg di fibra alle filande del nord-Italia. Il risultato fu però fallimentare : le macchine non solo non riuscivano a filare quei fili ma ne venivano danneggiate.L'isola di S. Antioco è l'ultimo luogo della Sardegna e del Mediterraneo che ci trasmette ancora questo dono marino. Essa ha mantenuto - col favore di fondali bassi e incontaminati e di una importante tradizione tessile - una produzione di rilievo fino a portare ai nostri giorni con tenacia, passione e sacrificio, delle realizzazioni che hanno perduto e superato la loro precedente funzionalità per connotarsi come dei veri e propri lavori artistici (arazzi anziché guanti o cuffie) marcando così l'unicità e la preziosità di un prodotto sempre più raro.A S.Antioco la lavorazione del bisso è attecchita in epoche molto antiche da apporti mediorientali.Ciò si può sostenere senza difficoltà, considerando la sua funzione di crocevia nelle rotte dei popoli del mare. L'apporto di conoscenza e di tecnica che questi contatti determinavano e lo sfruttamento dei due protagonisti marini : la Pinna e il Murice non possono che suffragare questa ipotesi.Dopo i Fenici molto probabilmente furono gli ebrei a continuare la lavorazione dell'antico filato. E' attestata dale scoperte archeologiche la presenza di una consistente comunità ebraica a S.Antioco già dal I sec. a.C.E' certo che l'imperatore Tiberio Nerone nel 19 a.C. inviò un gran numero di ebrei per contrastare il brigantaggio sardo e sfruttarli per il lavoro nelle miniere metallifere, ma in realtà il vero fine dell'imperatore era di punirli per i disordini causati a Roma ed esiliarli in luoghi dove avrebbero con buone probabilità trovato la morte.Ciò che si presuppone invece è che la comunità ebraica non soltanto abbia trovato un luogo dove proliferare tranquilla ma anche di prosperare. Ciò si può dedurre dalle catacombe ebraiche con tombe ad arcosolio rinvenute non distanti dalle catacombe cristiane sul pendio del colle della Basilica. Sul fondo dell'arcosolio di una nicchia appare, scritto in rosso, il nome della defunta : Beronice.Con l'immaginazione questo nome ci fa pensare ad altre Berenice che, tra leggenda e storia, possono essere state protagoniste della tessitura del bisso
Berenice,
sorella di Marco Giulio Agrippa, re vassallo della Palestina. La storia, riportata da Seneca e poi ripresa nei secoli da drammaturghi e poeti, ci dice che A quel tempo Sant'Antioco si chiamava SLK o Solki, con il toponimo arcaico, oppure Insula Plumbea, con la traduzione latina del precedente appellativo greco di Molibodes Nesos -denominazioni che ben definiscono l'interesse di sfruttamento delle risorse metallifere della zona per i conquistatori-. 
l'imperatore Tito la conobbe durante il suo comando nella guerra Giudaica Tutto
per un Vestito
... Raffinato

Scuola Leumann
, se ne innamorò e la portò poi con sé a Roma. Ma lì la loro unione venne aspramente osteggiata, soprattutto dopo che divenne imperatore.
Così Berenice venne fatta ripartire.

Qui finisce la storia ma, facendoci guidare dalla fantasia, può esservi la lontana possibilità che la principessa non sia tornata alla sua patria ma si sia invece fermata nell'isola, ben considerando che avrebbe potuto avere un ruolo di rilievo nella cospicua comunità ebraica e che il porto non l'avrebbe tenuta distante da Roma. Così possiamo immaginarci come il suo atelier possa aver dato vigore alle lavorazioni tessili.
Rientrando nella realtà è certo che a quel tempo a Roma era di gran moda tra le matrone e le donne di rango il "vento tessuto", ma il bisso affascinava indubbiamente tutti se anche un oratore, narratore e filosofo come Apuleio nel suo libro delle Metamorfosi vede la Dea Osiride "con una tunica di bisso leggero e cangiante".

Ma torniamo alla nostra isola.
Per alterni periodi fu spopolata a causa della estrema insicurezza per le frequenti incursioni violente a scopo di razzie. Queste si verificavano puntualmente nei vuoti di potere -e perciò di controllo e difesa- determinati da un cambio di dominio, dopo i Romani, dopo i Vandali, dopo i Bizantini e così via. L'isola così perse per alcuni secoli l'importanza del suo centro urbano.
L'antica Solki che conobbero i Fenici e che per quei tempi fu una vera metropoli, finì per riconoscersi nel VII secolo solamente nella Basilica arroccata sul colle traforato di ipogei.
Fu forse proprio grazie all'autorità religiosa, espressa nella sua Basilica che, nonostante tutto, si poté mantenere quella tradizione di eccellente tessitura (il santuario di S.Antioco -è bene ricordare- aveva pertinenza su terre, selve, vigne, servi e ancelle -predestinate tessitrici-).
E poi il dedalo di ipogei punici, che sono stati sfruttati con funzione abitativa anche fino al pochi decenni fa, ben consentiva ad una piccola comunità di mantenere attività produttive essendo nascosta e potendo viceversa spiare ogni arrivo inopportuno dal mare.
Con il ripopolamento del periodo Sabaudo si riprende a lavorare la terra anche se con le armi vicine pronte all'occorrenza. Le temute, sanguinose, incursioni barbaresche cesseranno infatti solo dopo il 1815, dopo la pace firmata a seguito del bombardamento di Algeri da parte degli Inglesi.
Nel 1914 Vittorio Alinari, fotografo ed editore fiorentino, scrive nel rapporto del suo secondo viaggio in Sardegna che Sant'Antioco gli sembra un paese molto industrioso. Dice dei 200 telai che producono nel paese ogni tipo di tessuto, il più curioso dei quali è quello prodotto dai filamenti setosi della pinna nobilis. Ci parla del bel colore ramato del bisso con il quale si confezionarono sottovesti dal bellissimo effetto. Tra le suggestive fotografie scattate dai fratelli Alinari a S.Antioco vi sono anche quelle che ci mostrano delle ragazze intente alla filatura del bisso : una di esse ha il cestino con i bioccoli pronti e le altre hanno in mano un piccolo fuso e filano la bambagia. La famiglia Diana accompagna i fotografi in questa scoperta del mondo tessile di S.Antioco. Italo Diana, fotografato con mastruca mentre suona le launeddas, sarà uno degli ultimi maestri a tenere una scuola di bisso.
Molte famiglie sapevano filare e tessere la seta di mare ma si preferiva mandare le ragazze a scuola da un maestro quando si voleva far apprendere non solo la tecnica ma una particolare sensibilità artistica e una intelligente visione d'insieme nella realizzazione del prodotto finito.
Alla scuola di Italo Diana lavoravano 10 ragazze, tra loro Maria Maddalena Rosina Mereu. Quest'ultima, a cui la madrina di battesimo aveva dato il nome Leonilde al posto dei tre nomi d'anagrafe, sarà a tutti nota come Leonilde. Nota perché sarà poi lei a fare scuola e perché sarà lei la nonna e maestra di Chiara Vigo .  che   vedete  all'opera sia nel   video  sopra   che   in questo  sotto 













C'è qualcosa di magico nella stanza-museo di Chiara Vigo: lo si avverte subito, appena si entra.Il telaio imponente cattura l’attenzione, i tavoli di ginepro regalano eleganza. Davanti alle finestre una schiera di barattoli, in cui riposa il colore - per tingere il bisso - estratto da fiori e foglie: il laboratorio del Maestro è pieno di segreti. Ed è un mistero anche questa donna dallo sguardo profondo che, se non si fosse chiamata Chiara, sarebbe benissimo potuta essere Penelope, visto il tempo dedicato alla tessitura. Ha 59 anni ed è l’ultimo Maestro di bisso. Al mondo. È lei stessa ad andare a raccogliere la seta del mare. La bava della Pinna nobilis si solidifica al contatto con l’acqua: Chiara si immerge, la taglia, la porta in superficie, la dissala per 25 giorni poi comincia il procedimento di filatura. Canta mentre lavora, ininterrottamente: senza le canzoni, non si possono fare gli intrecci. «L’uomo di Sant’Antioco – spiega - non ha la giacca, ha su seraniccu, il cappotto di seta: la spinatura si fa con le unghie, ma senza la canzone non si hanno i riferimenti per muovere le mani ».Parla a ruota libera, provare a fare delle domande è quasi inutile. Sono troppe le cose da spiegare: le regole del telaio, le centinaia di modi per ricamare, imparati in una vita dedicata alla tessitura. Racconta un’arte antica, mentre mostra le foto di famiglia: la nonna in abiti di seta, la mamma ostetrica, il bisnonno Maestro di sartoria - del quale conserva gelosamente uno specchio, datato 1898. E poi il matrimonio e le sue belle figlie, Maddalena e Marianna, già depositarie della tecnica, ma non ancora pronte a giurare per il passaggio del testimone.
Chiara vive nella piccola Isola da quando era bambina: il mare è la sua seconda casa.
Insieme ad altre quattro donne (una brasiliana, una giapponese, una messicana, una norvegese di Capo Nord) compone il nucleo delleDonne acqua. L’anno venturo, il 2 giugno, si ricongiungeranno in Brasile per onorare il mare del suo Canto.«È un canto molto antico, intraducibile», sul quale Chiara non rivela molto. Cala il silenzio e l'aria si fa solenne.

«Ora però dovete spegnere il registratore», avverte. Il Maestro scioglie i capelli, toglie le scarpe, ci volta le spalle e si allontana. Imita il suono del vento del mare e poi canta e danza. Una sola delle 199 strofe che compongono il Canto: è un regalo, per la nostra visita.
Come ha imparato tutte queste cose?
Mia nonna era un Maestro, e prima di lei sua nonna, e la nonna di sua nonna e così via. Nel Canto dell’Acqua sono 29 i nomi prima del mio.Su Cantu Mannu, si canta solo all’alba e al tramonto: il Maestro, da solo, veste la tunica di preghiera: è un momento totalmente esoterico.
Quando ha iniziato a lavorare al telaio?
Da bambina, ma ci ho pensato bene prima di fare giuramento. Quando mia nonna mi ha trasferito il formulario ho capito cosa ero diventata: l’arazzo più bello che lei avesse mai potuto tessere.
Avevo 23 anni, è stato tanto tempo fa.
Ponente, Levante, Maestro e Grecale, prendete la mia anima e buttatela nel fondale, che sia la mia vita per Essere, Pregare e Tessere, per ogni gente che da me va e da me viene, senza tempo, senza nome, senza colore, senza confini, senza denaro. In nome del Leone dell’Anima mia e dello Spirito Eterno, così è stato, così è e così sarà: io giuro.
Contro questo, zia (Chiara chiama se stessa ‘zia’, ndr) non conosce niente e nessuno: il bisso è dei bambini del mondo, ciò vuol dire che non si vende e non si compra.
Ha una bella responsabilità…
Sì, zia ha queste responsabilità. Questo è il tessuto con cui vestiva Salomone: alla luce si illumina e diventa oro purissimo. Ci vogliono anni di lavoro per fare anche un piccolo quadrato di stoffa, filato con il fuso. Io lo dico sempre: una tessitrice può saper filare, ma non è me.
Sa trasferire un rosso porpora? Sa ricavare una bava, metterla a bagno con il melograno e trasformarla in rosso? Lo sa fare?
No, allora non è me. Io non sono qua per fare la bella statuina, ma non lo hanno ancora capito.
Non ha delle allieve a cui tramandare il suo sapere?
Nessuno vuole imparare davvero. C’è qualcuno che viene qua, ma l’ambizione è quella di diventare tessitrice. Io non sono un artigiano e non voglio insegnare le cose in maniera approssimativa. Sono unu maistru de pannu, la persona che deve tutelare e conservare per chi verrà, senza venderlo, quello che già era.
Ci sono delle ragazze che stanno con me: l’architetto Maria Pasqui, per esempio, ha deciso di trasferirsi a Sant’Antioco per fare la scuola di colore. Ci vuole almeno un anno per capire in quale tempo raccogliere l’erba, con quale luna, come metterla a bagno, quando aggiungere il sale, come farla ossidare, e poi tingere e tessere. Maria è anche perito tessile, ma ha imparato a filare con me. Nonostante le sue qualifiche, l’unica persona al mondo che le può insegnare quello che ha appreso qua sono io.
Mi avevano detto che aveva un caratteraccio, mi sembra, invece, semplicemente una persona schietta
Io non capisco quale sia il problema, con me: mi alzo alle tre del mattino, prego per la pace nel mondo fino alle sette. Ogni giorno dell’anno.
Entro nella mia stanza alle nove, ricevo il mondo, vivo solo di offerte. Quindi: cali esti su problema? Io non lo vedo.
Siamo nel 2014, non si può continuare a ragionare con i piedi: la notorietà non viene dal giocare a pincaro. Le onorificenze che ho ricevuto, non le ho certo avute perché sono carina. Sapete quanto tempo ci vuole per fare questo tanto di bambagia? - Smuove ciuffi di bisso, piccoli batuffoli apparentemente ispidi -
Io scendo sott’acqua, taglio la seta e la porto in superficie. Difendo il nostro patrimonio.
Per tessere una pavoncella* senza disegno ci vuole una vita; per filare una cosa che non si sente, non ha peso … dammi la mano e chiudi gli occhi: hai il bisso sul palmo, anche se non lo senti (è davvero impossibile avvertirlo al tatto, la sensazione è indescrivibile, ndr).
E adesso zia vi fa il filo…
Il filo?
Ogni donna che passa qua si porta via su lacciu, il filo dell’acqua. Va conservato, è un passaporto. Un mese prima delle nozze le donne tornano da me, con un metro di tela di lino bianco e io confeziono il cuscino di nozze, con le due pavoncelle ricamate, sul quale andranno le fedi (su pann’e coiai). Se invece la donna regala il filo al figlio che viene, zia preparerà su pann’e nasci, una vestina per il battesimo con due metri e mezzo di lino bianco.



Tutto parte dal filo, infatti ognuna porta via il proprio filo: senza il vostro filo io non potrei filare. Ogni donna che entra qua dentro è il filo che permette a me di collegarmi con l’acqua, di fare da ponte. Tu Martina devi sposarti?
Chiara mi coglie alla sprovvista, ero convinta di essere io a fare le domande, ma dirigere ’intervista non è facile. Le spiego che non ho progetti di matrimonio, non nell’immediato.
Io non farei così il conto, mi pare che è più immediato di quanto pensi tu. Il filo ha rotto il filo e in genere funziona: o arriva un bambino o si sposa una donna. Una delle due: quando si spezza il filo o devo fare un panno o devo fare un vestito.
È la cosa più bella per una donna, l’amore è una cosa infinita. Io ho sposato un uomo che mi ama da trent’anni. Mi porta il caffè al pomeriggio, cucina per me, mi aspetta quando parto, manda via la gente se sto dormendo. Ecco, guarda: ora il filo è diventato magico, brilla, ma senza la formula giusta non diventa oro.
E questo lo sa fare solo il Maestro…
Sì, ma non siamo più abituati ai Maestri, per questo spesso li confondiamo con gli artigiani.
Il Maestro ha tutto in testa e si occupa solo di trasmissione orale. Per questo leggere di lui non è mai come incontrarlo.
Tu non avevi mai sentito il Canto dell’acqua, fino ad oggi, e sai che cosa vuol dire questo? Che ti hanno tolto la possibilità di conoscere.
Io non andrò mai a insegnare in un corso, con 15 persone. Se un ragazzo viene qua, il segreto passa da me a lui e io sono ben lieta di tramandarlo.
Alla confusione chiudo le porte perché proteggo il sapere, in nome del giuramento.

Nel 2001 mi hanno offerto due miliardi e mezzo per il Leone delle Donne. Ma se è delle donne perché lo devo vendere?
Io l’ho costruito perché nel ’96 ho ricevuto l’"Asfodelo d’oro" per il premio Donna sarda che viene concesso a una donna ogni anno e io l’ho ricevuto dopo Maria Carta.
Però ho pensato che a tutte voi sarebbe spettata una medaglia d’oro per la vostra vita e non ve l’avrebbero data. Quindi ho costruito il Leone, di bisso, per tutte le donne del mondo.
È vostro, non è di zia.

Quanto tempo impiega per confezionare i suoi lavori?
Non si conta il tempo: quando è finito è pronto, non si può pensare al tempo. Quando il Maestro è stanco legge il suo diario di bordo (un quaderno carico di commenti dei visitatori di Chiara, circa 70mila all’anno, ndr) e ricomincia a lavorare.
Finché qua entrerà una donna, piccola o grande che sia, io non posso chiudere quest’affare.


* La pavoncella, antico simbolo ebraico, rappresenta il viaggio delle idee. È inciso sul telaio del Maestro e Chiara lo disegna perfettamente, oltre che sulla tela, anche a mano sulla bustina nella quale conserva il filo di bisso che porge in dono alle donne che le fanno visita, insieme a Tanit, la chiave della vita e al simbolo dell’acqua.


12.4.14

altro che la burocrazia italiana la storia di Carlo Coco Lavora per qualche mese in Olanda e 50 anni dopo gli arriva una lettera: “Ecco la sua pensione”



CAGLIARI. Mai se lo sarebbe aspettato, quegli otto mesi di lavoro da operaio in Olanda non erano che un'esperienza lontana e quasi dimenticata della propria vita. Così quando riceve una lettera da Rotterdam lui, ex rappresentante di commercio cagliaritano, pensa a uno scherzo: “Egregio signor Carlo Coco, le comunichiamo che avendo lei compiuto i 65 anni di età ha diritto a ricevere il trattamento pensionistico relativo al periodo di lavoro prestato nei Paesi Bassi nel 1971“. Poi il
conteggio: 48 euro al mese. A seguire, le condizioni per incassarlo.
Superato lo stupore, Coco mostra il documento alla moglie olandese, conosciuta proprio a quei tempi: “Ti sembra possibile che dopo quarantadue anni si siano ricordati di me? Hanno trovato anche il mio indirizzo di Quartu Sant'Elena“. La risposta è glaciale: "Normale, certo". Normale forse nel nord Europa, dove alle leggi corrispondono atti conseguenti, dove il cittadino paga le tasse e in cambio riceve servizi, dove gli uffici sono uffici e non rifugi di burosauri svenuti. Uffici organizzati e precisi, al punto di rintracciare un ragazzo sardo, oggi settantenne, che quasi mezzo secolo prima aveva cercato fortuna in un paese lontano, per poi cedere al mal di Sardegna. La sua terra, dove la nebbia e il freddo non ci sono e non condizionano la vita, perché a quello pensa la burocrazia. Infatti è qui, nel dialogo a distanza Italia-Sardegna-Olanda, che la vicenda si complica. Il pagamento dell'assegno è legato a un banale adempimento: è necessario che l'istituto di previdenza italiano compili un modulo coi dati del pensionato e che lo spedisca all'indirizzo di Rotterdam indicato nella comunicazione. Una formalità semplicissima, ma non per l'Inps. Passano infatti due anni e Coco non riceve alcuna notizia del suo assegno.
Così, più che altro per curiosità, riprende in mano la lettera olandese e si accorge che c'è un numero di telefono, un servizio da interpellare per ottenere informazioni: “Vuoi vedere che la pratica si è arenata? In fondo tutto il mondo è paese“. Coco ci pensa, è diviso tra la speranza di rivalutare gli uffici italiani e l'idea di incassare comunque quel piccolo assegno. Alla fine chiama l'Olanda e rappresenta il problema. L'operatore gli passa all'istante un interprete che lo ascolta, consulta il terminale e in pochi minuti gli fornisce la risposta: “Signor Coco, non abbiamo ricevuto il modulo del suo istituto di previdenza, per questo non abbiamo potuto ancora spedirle quanto le spetta“.
C'era da aspettarselo: l'ufficio olandese s'impegna a rintracciarlo dopo quarantadue anni per versargli una pensione insperata, quello italiano non è in grado di spedire un modulo. Un semplice modulo, rimasto impigliato nella ragnatela dei nostri uffici.
Ma Coco non si arrende, tiene a freno l'ira e facendo voto di pazienza si reca all'Inps: “Ha ragione - gli notifica un imbarazzato ma gentilissimo funzionario - il documento è ancora qui, l'ho trovato, ci siamo dimenticati di trasmetterlo. Ci scusi, rimediamo subito“. Detto e fatto, stavolta lo mandano davvero e dopo qualche giorno da Rotterdam arriva un plico. C'è un assegno circolare da 48 euro più un altro con gli arretrati dei ventiquattro mesi perduti per colpa dell'Inps, con inspiegabili scuse per il ritardo: sette giorni. Una bella sorpresa ma anche uno schiaffo morale affibbiato alla burocrazia italiana.
La storia però non finisce qui, perché mesi dopo la previdenza olandese si fa viva per la seconda volta, una nuova articolatissima lettera: “Egregio signor Coco, in base al provvedimento emanato dal nostro governo lei ha diritto a una rivalutazione del suo trattamento previdenziale pari al trenta per cento“. In allegato un assegno con la cifra maturata a partire dall'entrata in vigore della nuova norma e gli arretrati più le immancabili scuse per il ritardo.
Coco scuote la testa, sorride, sventola la missiva davanti agli occhi disincantati della moglie e decide che forse una storia così è degna di essere raccontata: “Certo 62 euro al mese non mi cambiano la vita - avverte, parlando con il cronista - però insomma, se penso a quello che passiamo noi in Italia quando abbiamo a che fare con questi problemi...“. Poi un dubbio, che racchiude un mondo e rappresenta la sintesi perfetta del rapporto cittadino-Stato in Italia: “Senta, ma non sarà che dopo il suo articolo, Equitalia mi tassa pure questi quattro soldi?“. Speriamo di no signor Coco, speriamo proprio di no.

12.1.14

la storia di Samia Yusuf Omar, quando a morire come un clandestino non è un criminale


canzoni consigliate  Senza catene  di Massimo Bubbola  (  video sotto ) 

Samia Yusuf Omar, somala, partecipa a 17 anni alle Olimpiadi di Pechino 2008. La gara è di velocità, 200 metri da compiere nel più breve tempo possibile. Impiega 32 secondi e 16 primi, record personale, ma ultimo tempo di tutte le batterie. Il pubblico presente allo stadio la applaude, la incoraggia. Samia non è un'atleta professionista ma ha una determinazione da campioni: vuole giungere in Europa e trovare un allenatore per partecipare alle Olimpiadi di Londra 2012. Ma un muro d'acqua, il 2 aprile di quell'anno, la fa annegare a largo di Lampedusa: Samira voleva raggiungere le coste italiane su un barcone di migranti col quale era partita dalla Libia. Le immagini di quella corsa



Ora  lo so  che la storia  di Samia --- foto a  sinistra  --  è vecchia    ma  certe storie non hanno mai tempo   soprattutto  al giorno d'oggi  dove  per  la velocità nelle   informazioni e  e delle news   l'occidente (  ma  anche  no  )  dimentica  in fretta o tende  a generalizzare  ( tutti ladri,spacciatori , assasini,pedofili,fondamentalisti,ecc  ) ma   me ne frego è la racconto lo stesso    soprattutto ora  che  la  sua  vita ( vedere articolo sotto   di repubblica  del 11\1\2014  ) e i suoi sogni sono stati raccolti da Giuseppe Catozzella nel romanzo “Non dirmi che hai paura” appena pubblicato da Feltrinelli  che ne    ripercorre la vicenda dell'atleta somala, dalle strade di Mogadiscio ai Giochi, fino a quell'ultimo fatale viaggio della speranza

Esiste ancora possibilità di romanzo nel nostro tempo? Domanda solita perenne identica che si pronuncia ormai da un secolo. La risposta chiave che annulla la sua ridondanza venne da Goffredo Parise: "Il fatto romanzesco come categoria il romanzo come tecnica - lo ripeto ancor una volta - penso non sia interessante. Quello che è interessante è scrivere un libro che si sente necessario di scrivere".
Non dirmi che hai paura (Feltrinelli, pagg. 240, euro 15) è un libro necessario. Giuseppe Catozzella ha scovato e scritto con l'imperativo della narrazione necessaria questo libro. È una storia che nessuna fantasia avrebbe potuto creare. Una storia che crea vertigine per quanto ci si senta colpevoli a non averla raccontata ovunque fosse possibile. Al tavolo da pranzo, a scuola, in radio, tra amici, a letto prima del sonno o dopo l'amore. È la storia di Samia Yusuf Omar, storia che i giornali di tutto il mondo narrarono ma che poi scomparve nel solito silenzio che segue qualsiasi vicenda consumata tra click e commenti di un'ora. Samia è una ragazza somala nata per correre. Vive a Bondere, quartiere di Mogadiscio, un dedalo di stradine di sabbia e polvere schiacciate fra abitazioni in muratura, lame di acacie, svettare rado di eucalipti. In mezzo alla polvere di quelle straduzze fra piccoli mercati, scuole coraniche, corrono i ragazzini. Anche Samia Yusuf Omar ha cominciato a correre lì. Samia appare nel romanzo quando il talento della corsa la sta rivelando a se stessa e le sue gambe secche e forti le chiedono consapevolezza, leggerezza, ritmo. L'amico Alì ne cronometra il tempo, ne registra i progressi, con strumenti non perfetti, ma con una sensibilità degna del più acuto degli allenatori. La famiglia non ha paura di capire quel talento e la sostiene. Tanto basta perché in Samia metta radici l'ambizione di redimere la fatica, la povertà, l'ostilità, il volto severo del suo paese, il silenzio in cui sono nascoste le donne, la minaccia che quelle stesse gambe secche possano fermarsi. Per niente al mondo si fermerà, la piccola Samia. 


Catozzella dinanzi a questa storia non riesce solo a riportarne traccia. Non vuole solo mettere i piedi nelle orme già pestate. Prende Samia e la accende dentro la sua storia di ragazzina prima e poi di giovane donna. Lo fa dandole voce, immaginandosi la voce che può avere una ragazza che non ha paura di trovarsi da sola con il suo talento e con la sua anima. Non è trucco, non è gioco di prestigio. A volte succede che la realtà sappia dirsi con la semplicità dei pensieri di una fanciulla. Catozzella sembra accordare la voce di Samia alle sfumature di Anna Frank, dei diari di Etty Hillesum. La Samia di Giuseppe Catozzella va a cercare quella trasparenza, quella tonalità cilestrina, quella malinconica tolleranza che solo l'adolescenza visitata dalla speranza e dalla tentazione del futuro sa trovare con naturalezza, con gentilezza. Samia è protetta da una famiglia che riesce a costruire uno spazio di affetto miracoloso intorno a lei mentre la Somalia cede all'integralismo, si insanguina di repressione, e viene lacerata dal terrorismo. Samia non è cieca né ottusamente ottimista: perde il suo più caro amico, vede morire il padre, e lascia partire la sorella per l'Europa ma tutto ciò non sembra spezzare la possibilità di raggiungere una forma di felicità. È il lascito più prezioso della sua famiglia. Che cosa può fare una piccola atleta contro tutto questo? "Tutti si chiedevano come fosse possibile che una ragazzina magra come un'acacia appena piantata e con due gambine che sembravano ramoscelli di ulivo potesse vincere. Il fatto era che vincevo e basta. Ero più veloce degli altri. Almeno, di quelli che mi era capitato di incontrare. Con i mesi, ho capito che la mia specialità erano i duecento metri". Eccola Samia. Concentrata su se stessa. Concentrata sul corpo. Fuori c'è il silenzio, il sole a picco, la morsa del caldo. Dentro il giovane corpo dell'atleta macina il futuro. Un futuro che si alimenta di preghiera, una preghiera laica che si celebra alzando gli occhi sulla foto che tiene sopra il letto. Mo Farah somalo, campione olimpionico e tre volte campione del mondo di mezzo fondo. È lui il dio benigno che accompagna Samia. E riesce da sola senza sponsor, senza allenatori professionisti, senza medici e massaggiatori a qualificarsi alle Olimpiadi di Pechino. Il miracolo di Samia ha inizio. 
A  Pechino si fa appena notare ma conosce l'arena, il campo, il luogo dove ci si batte. Sa che il vero traguardo è Londra, perché è là che Samia avrà gli occhi sereni e appagati. Per averli si allena di notte, si affoga nel burqa, testimone della sua corsa solo il cielo stellato, e quando nascondersi non basta più, quando il suo paese non le offre il vessillo di una identità, quando le donne somale alle quali volentieri avrebbe offerto le sue vittorie sembrano entrate nella notte della loro storia, è allora che Samia entra nella favola epica del suo destino. Il corpo che l'integralismo vorrebbe coperto. Il corpo che non esprime più talento ma solo resistenza, e si asciuga, si consuma, si infiacchisce, si rattrappisce, si lascia violentare, svuotare, sfinire. Samia sa che per vivere deve correre, per correre deve allenarsi, per allenarsi dev'essere libera per riuscire a vivere deve provare ad allenarsi in Europa deve raggiungere l'Europa altrimenti tutto finisce. Sono pagine fra le più potenti quelle in cui si narra il "Viaggio", lo spaventoso viaggio che porta Samia e tutti i migranti del Corno d'Africa su per le vie dei deserti da Addis Abeba verso il Sudan e la Libia, per arrivare infine al mare. Per viaggiare, 72 ore nel cassone di un fuoristrada, i trafficanti chiedono di alleggerire il bagaglio. Nessuno vuole lasciare le proprie cose ma l'alternativa è restare ad Addis Abeba. "Davvero volevo restare ad Addis Abeba? Per quanto tempo? Tutta la vita? Ho aperto la borsa e ho preso la fascia di aabe, la foto di Mo Farah, un qamar e un garbasar, e ho lasciato il resto nell'angolo". Samia si spoglia e si prepara al grande duello. In quei momenti sembra un'eroina omerica. Ma ogni tentativo della mente di trovare dimensioni note per capire quei momenti è destinato a fallire. 
Da quel momento in poi, la spoliazione è una spoliazione che arriva fino alla pelle dell'anima, eppure proprio da quel momento la voce di Samia ci dice che il corpo indebolito esiste appena, anzi che quanto più si infragilisce tanto più forte è il sogno di arrivare, di varcare il mare, di vincere. "Ho trattenuto le lacrime, mordendomi forte le labbra. Ho chiuso gli occhi in mezzo a tutte quelle braccia, spalle, gomiti, e ho pregato aabe e Allah. Che mi facessero trovare la via. La mia via". La via di Samia. Dopo un viaggio come quello non c'è più cerbiatto, non c'è più farfalla, e bisogna ancora attraversare il mare. Cosa sia quel mare, lo sappiamo sin troppo bene - è il mare dei migranti, il mare fatale, ma quando Samia sale sul gommone è ancora il mare del sogno. Com'è finito il viaggio di Samia lo si apprende dalle parole del primo grande atleta somalo Abdi Bile campione del mondo dei 1500 metri a Roma nell'87. Bile celebra il trionfo di Mo Farah alle Olimpiadi di Londra e in quel momento ricorda Samia, morta nelle acque di Lampedusa mentre cercava di raggiungere l'Europa per qualificarsi alle Olimpiadi. 
La storia della giovanissima atleta ha cominciato a girare il mondo e a lasciare tracce. Giuseppe Catozzella è riuscito ad affacciarsi sull'abisso della cronaca senza cedere alla tentazione del patetico. Catozzella ha ascoltato (in Finlandia è riuscito a contattare la sorella di Samia, ad averne la confidenza). Quanto più è vivo il sogno di Samia, quanto più soave è la voce che lo canta, tanto più, come in una visione dall'alto, il destino è visibile, l'ingiustizia incide, il dolore strazia. "Presto nel Viaggio si imparano il silenzio e la preghiera. Presto nel Viaggio si impara a dimenticare il motivo per cui sei lì, e a praticare silenzio e preghiera". Così dice Samia, ma infine il "motivo" torna. Ricominciare a correre, ad allenarsi. A vincere. Ma qui, dopo questo romanzo, la vittoria è il sentimento che non ci riconcilia, che ci lascia stupefatti davanti alla bellezza perduta, al futuro che non arriva.


  



emergenza femminicidi non basta una legge che aumenti le pene ma serve una campaga educativa altrimenti è come svuotare il mare con un secchiello

Apro l'email  e tovo  queste  "lettere "   di  alcuni haters  \odiatori  ,  tralasciando  gli  insulti  e le  solite  litanie ...