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24.10.24

«Bullizzato perché obeso, il prof mi chiamava "polpetta". Ora corro una mezza maratona ogni giorno: ho perso 30 chili»

Da questo individuo dovremmo tutti imparare, lui non si è arreso ed anzi ha dimostrato a tutti di che pasta era fatto. Ci vorrebbe più gente così, gente che prende le critiche, ed invece di farsi abbattere da esse, ne ottiene uno stimolo in più per migliorare. Tra i professori si annidano spesso dei bulli senza empatia e sensibilità


 «Bullizzato perché obeso, il prof mi chiamava "polpetta". Ora corro una mezza maratona ogni giorno: ho perso 30 chili» corriere adriatico • 9 ora/e • tramite msn.it 




 Un passato di bullismo a causa del suo peso, ma ha reagito e usa il suo presente per ispirare gli altri a fare altrettanto, per diventare gli artefici dei propri successi e urlare che «i limiti esistono solo nella nostra testa». Per questo, il 24enne Marco Matteazzi ha sfidato se stesso: corre ogni giorno una mezza maratona, per un totale di 100 giorni. Ha già alle spalle 2.300 chilometri, dal suo paese d'origine, Altavilla Vicentina, fino a Lisbona (Portogallo). Da una parte c'è il riscatto del bambino che era, dall'altra il desiderio di dimostrare che la forza di volontà permette di raggiungere i traguardi che ci poniamo. 
La sfida di Marco
«Quando ho iniziato, non ero un runner. In tutta la mia vita avevo corso 21 km solo una volta, e ora mi ritrovo qui, con delle ultramaratone alle spalle e ogni giorno messo alla prova come non mai. Ogni passo è stato una sfida, ma è proprio nelle difficoltà che ho trovato la forza di continuare. La verità è che ognuno di noi può superare i propri limiti, basta avere il coraggio di affrontarli», scrive Marco Mattazzi sul suo profilo Instagram, chiamando a raccolta tutti coloro che desiderano correre con lui gli ultimi 3 chilometri del suo viaggio

Passare quel traguardo avrà il sapore di vittoria, sia per se stesso che per ciò che ha passato quando era un bambino. In un'intervista al Corriere della Sera, Marco parla delle difficoltà avute a scuola a causa della sua forma fisica: «Un insegnante mi chiamò, una volta, “polpetta”. Da allora sono diventato lo zimbello della scuola». E senza neppure potersi affidare ai professori, la vita accademica è stata difficile e ha reagito chiudendosi ancor più in se stesso.Il rendimento di Marco ne ha risentito, e dop la seconda bocciatura ha passato un periodo in una scuola privata. Quando è stato il momento di tornare al liceo per l'ultimo anno, «avevo paura a tornarci, l'ansia di rivivere quello che avevo già vissuto mi logorava. Ma volevo superarla. Nell'estate tra la quarta e la quinta superiore ho deciso di dimagrire. Ho perso 30 chili. Ho ricominciato la scuola e quell'anno è andata bene».
Poi ha iniziato a leggere libri sulla crescita personale, ed è stato ispirato. Così è nato il progetto attuale, la volontà di correre 21 chilometri ogni giorno, per 100 giorni, e dimostrare che è possibile raggiungere i propri obiettivi. Il sogno di Marco, però, non finisce al traguardo: «Sogno di avviare una mia azienda. Vorrei comprare una pizzeria e chiamarla con il nome della pizzeria che avevano i miei nonni a Vicenza: Pizzeria California».

10.10.24

Manuale di autodifesa I consigli dell’esperto anti aggressione Antonio Bianco dal settimanale giallo 3 puntata

puntate  precedenti   
https://ulisse-compagnidistrada.blogspot.com/2024/09/manuale-di-autodifesa-i-consigli.html


 Ho  ricevuto molte  critiche    e    smail  sorridenti      al post  in  cui   avevo  riportato  le  prime  due  putate  di un corso  di  auto  difesa  .  Purtroppo  l'unica  risposta    è andare  avanti e continuare  .  Infatti   in mancanza   di  una politica  seria   che   combatte  tale  fenomeno  ormai divenuto emergenza , siamo purtroppo   al 3  femminicidio  in due setttmane ,  le elzioni  di autodifesa   proposte dal settmanale  gialllo   e    da me  riportate   sono  l'unico  mezzo  per  contrastare o  ridurre    tale  problematica  .

Ma  ora  basta  polemiche  veniamo  alla terza  puntata 

 LA VIOLENZA DI CHI VIVE VICINO  A NOI È QUELLA PIÙ DANNOSA 

Come vi abbiamo spiegato, i confini rappresentano i limiti che poniamo a noi stessi e agli altri. Non èsempre facile difenderli, soprattutto quando, per il rapporto che ci lega a una persona, abbiamo paura di offenderla. Potremmo sperimentare paura del rifiuto, timore del confronto con l’altro, che potrebbe  sfociare in un conflitto. Finiamo così per accettare situazioni che non ci fanno sentire a nostro agio. Ecco perché è importante porsi domande cruciali: vi capita di rispondere alle emergenze altrui come se fossero le vostre? Dite dei sì che non vorreste veramente dire? Condividete informazioni e fatti personali, senza riuscire a gestire l’invadenza, oppure rinunciate a priori a esprimere i vostri bisogni e a essere ascoltati? Se le vostre risposte sono affermative, è arrivato il momento di mettere a fuoco il vostro con!ne personale per cominciare a difenderlo. Prima di tutto ricordate che stabilire un confine non è “da maleducati”, perché può essere fatto in  modo rispettso. I vantaggi sono grandi: si  guadagna in sicurezza e benessere, si coltiva la sensazione di integrità personale e una più solida consapevolezza del proprio valore, che non va mai persa di vista. Migliora anche la qualità del rapporto, inoltre. Assecondando e  accontentando sempre l’altro, pensiamo erroneamente di non creare problemi e quindi  di rafforzare un’amicizia. Eppure non può far stare bene il fatto di sacri!care sistematicamente i propri bisogni personali per soddisfare quelli altrui. Ci si sente in balia degli altri e ci porta a provare rabbia, finendo alla lunga per logorare un rapporto invece di salvaguardarlo. Esplicitare i propri bisogni e i propri limiti favorisce invece l’instaurarsi di un rapporto franco, autentico, alla pari e basato sul rispetto reciproco. Fate caso a come vi sentite. Le emozioni negative sono sempre il campanello d’allarme di qualcosa che non va per il verso giusto. Rabbia, frustrazione, paura, abbattimento: se ci sono, vanno accolte per cercare di capire da cosa derivano. Ascoltate voi stessi, prima di qualunque altra cosa. 

 le  Le storie che trovate   su  Giallo  Cronaca  vera      oltre  sulle    cronache    dei giornali   e  telegiornali ,   e  sulle  trasmissioni  apposite     dedicate     ai  fatti  di cronaca  lo insegnano: non si 
reagisce a una rapina. Mai. Perché il rapinatore è al  95%  più abile e ancora più nervoso di voi. Quindi se vi fermano per chiedervi il portafogli o un gioiello, fate quello che vi chiedono e basta.E' quello che dic e  anche   Manuel Spadaccini maestroi di KMA  scuola  di  tecniche di difesa personale    ( un’eccellenza italiana per i corsi di Difesa Personale ed è stata scelta per integrare la formazione alla difesa personale nell’Arma dei Carabinieri, nella Polizia di Stato e in molte Polizie Locali.
E’ attiva inoltre nel training del personale impiegato nella protezione di diplomatici dell’ONU, Agenzie di Sicurezza private, Compagnie Aeree ed ovviamente forma anche civili. professionale  )  



È frustrante, sì, ma meglio arrabbiati che morti. La settimana scorsa ( ne ho parlato anch'io sul blog ) un
ragazzo ha difeso una giovane donna ed è morto. Non ne vale la pena: i soldi tornano, la vita no.

19.10.21

Da Assunta Legnante a Vincenzo Boni, da Angela Procida a Gianni Sasso, capitano della nazionale di calcio per amputati: sono i portavoce di 2000 atleti disabili e chiedono che non si spenga l'eco delle Paralimpiadi di Tokyo: "Perché qui in gioco c'è la vita"

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Oltre la disabilità: i campioni e le storie dello sport campano senza barriere

Angela Procida 

Sono storie di passione e di coraggio. Storie straordinariamente normali. Perché loro rispondono tutti allo stesso modo, più o meno: "Non chiamateci eroi, semplicemente ci mettiamo gioco, come se i limiti non esistessero". Eppure i limiti ci sono, o meglio: ci sarebbero. Un arto mancante, la sedia a rotelle, la vista che non c'è più, o quasi. Quanto basta per smettere di giocare? Per nulla. Perché l'esercito silenzioso degli atleti paralimpici campani suona la carica per chi vorrebbe desistere, dopo una diagnosi o dopo un incidente. O non vorrebbe neanche iniziare, in caso di una malattia congenita.

 La nazionale di calcio 
E se va spegnendosi l'eco delle ultime Paralimpiadi di Tokyo, dove l'Italia ha conquistato 69 medaglie (secondo risultato di sempre ai Giochi dopo le 80 di Roma 1960), l'obiettivo - oggi più che mai - è continuare a far crescere il movimento.  Dice Rossana Pasquino, classe 1982, beneventana, paraplegica dall'età di 9 anni,schermitrice: "Sappiamo che tanta gente, guardandoci giocare su una carrozzina, superare i limiti, ha pensato: forse è il momento giusto per iniziare, forse è tutto possibile. Ecco, per me Tokyo è stato soprattutto questo: il fascino di un villaggio olimpico condiviso con 4000 atleti, miriadi di diverse disabilità eppure la stessa voglia di esserci, di fare sport, di provare a scalare il nostro personale Everest". Chapeau. Non ha vinto la medaglia, lei, ma ha fatto centro.

Noi, esempio per tanti ragazzi


Vincenzo Boni, napoletano, classe 1988, è invece affetto dalla sindrome di Charcot MarieTooth, una sindrome neurologica ereditaria a carico del sistema nervoso periferico, da quando aveva 6 anni. Ma ha iniziato lo stesso a nuotare.
"Quando ci sono avvenimenti come le Paralimpiadi, diventiamo all'improvviso celebri. La Rai ci ha aiutato, mostrando gratuitamente le nostre gare e noi ci siamo sentiti ciascuno nel suo piccolo icone di resilienza. Ora però bisogna assecondare questa scia. Tanti ragazzini con disabilità si sono detti: 'Chissà, forse allora posso farcela anche io'. Se mi sento un ambasciatore dello sport per disabili? In fondo lo sono, perché giro nelle scuole per testimoniare quanto possa essere importante fare attività sportiva. Ecco, le Paralimpiadi sono state una piccola rivoluzione culturale. Lo sport è soprattutto la chiave per accettare se stessi. E io al nuoto devo tantissimo".
Classe 1978, originaria di Frattamaggiore, Assunta Legnante ha iniziato a lanciare il peso da adolescente. Disegnava il cerchio della pedana con il gesso, in uno spiazzo alle spalle del cimitero comunale: da piccoli, la fantasia è l'alleato migliore per arrivare ovunque. E lei è arrivata per davvero ovunque: campionessa europea indoor del getto del peso a Birmingham 2007, primatista nazionale indoor con la misura di 19,20 m, volte campionessa paralimpica e detentrice del record mondiale di categoria con la misura di 17,32 m.

Assunta Legnante 

Perché la sua vita è fatta di due vite, come quella di tanti atleti paralimpici: colpa di un glaucoma congenito. "Lo avevo sempre gestito con i medicinali - racconta - ma poi dal 2009 i miei occhi hanno iniziato ad abbandonarmi, finché nel 2012 ho perso completamente la vista". Ed è lì, quando tutto si fa buio, che il carattere fa la differenza. "Mi chiamò la Fispes, che ami corteggiava insieme al Comitato Italiano Paralimpico per propormi le Paralimpiadi. Io risposi proprio così: 'Ma siete matti? Come fa un cieco a lanciare un peso?'. Decisi di provare". Il resto è storia recente, in parte recentissima: a Tokyo Assunta Legnante ha vinto la medaglia d'argento.


Il movimento in Campania: un esercito di 2000 atleti


In Campania esistono circa 220 società iscritte al registro paralimpico, che abbracciano naturalmente diverse discipline, per un totale di circa 2000 atleti disabili praticanti. Per molte associazioni, la sopravvivenza è spesso appesa a un filo. Lo scorso agosto il Comitato italiano paralimpico (Cip) ha stanziato 5 milioni di euro per le società sportive paralimpiche. L'obiettivo? Sostenere la ripresa delle attività dopo la pandemia. La Campania si è vista assegnare, quali contributi a fondo perduto, la somma di circa 170 mila euro già ripartita ed erogata a 92 società sportive, in misura proporzionata all'attività e ai risultati raggiunti. "Soldi utilissimi, una boccata d'ossigeno - l'unica pubblica - per non morire", spiega Carmine Mellone, presidente del Cip Campania.
"I riflettori si spegneranno dopo le Paralimpiadi? Inevitabile. - prosegue - Mi rammarica che l'attenzione mediatica, di cui siamo grati alla stampa e alle televisioni, non si traduca in un'attenzione concreta nella politica regionale. Il presidente De Luca non ha ancora assegnato la delega allo Sport, né è stato costituito il comitato tecnico sportivo con undici rappresentanti, previsto già dieci anni fa dalla legge regionale sullo sport. Lo sport è una Cenerentola, quello per disabili ancor di più. In Puglia, per dire, sono stati destinati all'attività paralimpica 500 mila euro in tre anni per le scuole. Da noi, zero. Con queste premesse, aver portato otto atleti paralimpici campani alle Paralimpiadi è stato un piccolo miracolo per il quale ringraziamo i tanti, atleti e tecnici in primis, che hanno fatto tanti sacrifici, in particolare durante il lockdown. Questo è un movimento che, per ora, si regge sull'appassionato impegno delle singole società, cuore pulsante di un movimento che noi abbiamo il privilegio di coordinare".

"Se puoi sognarlo puoi farlo"


Qui De Coubertin impera. Perché c'è competizione e agonismo (sono, del resto, il "sale" dello sport), ma tornare da Tokyo senza una medaglia al collo non è stato, per nessuno, fonte di amarezza. C'è chi ci riproverà a Parigi nel 2024, c'è chi è contento così e basta. "Sono andato in Giappone con la voglia di divertirmi, di mettermi alle spalle la pandemia e di gareggiare in un impianto stupendo. - dice Alessio Boni - Certo, mi sarebbe piaciuto vincere una medaglia, ma ho stretto volentieri una mano a chi è stato più bravo di me e, senza retorica, sono tornato a Napoli arricchito dall'esperienza e confortato dalla percezione che il movimento paralimpico natatorio, in particolare quello italiano, sia in grande crescita. Lo attestano, del resto, i tanti ragazzini che si avvicinano allo sport e le strutture che si affiliano alle federazioni paralimpiche".

Angela Procida 

Quinta, nella finale dei 50 dorso S2, è invece arrivata Angela Procida, appena 21 anni, volto genuino e sorridente di Castellammare di Stabia. Il suo motto è semplice: "Se puoi sognarlo, puoi farlo". Lei ha iniziato a sognarlo dopo la tragedia. Accade sempre così, in queste storie spesso tremende e senza sconti. Aveva 5 anni quando in un incidente stradale persero la vita il padre e la sorellina di sei anni. "Io subii un danno permanente alle gambe, che mi ha costretto sulla sedia a rotelle. L'incidente ha cambiato la mia vita. In peggio? No, in alcune cose in meglio". Dice proprio così, Angela. E aggiunge: "Bisogna guardare il lato positivo di ogni cosa. Oggi, a 21 anni, sento di essere in grado di affrontare qualsiasi ostacolo. Ognuno di noi può contribuire a modificare i destini del mondo". E sullo Sport, quello con la 's' maiuscola: "Aiuta a riabilitarsi, in tutti i sensi. Nel senso fisico e meccanico, naturalmente, ma anche e soprattutto in senso psicologico. Ti aiuta a superare i limiti, ti dà tranquillità".

Angela Procida  

Alessandra, Emanuele e Matilde: storie straordinarie


Alle Paralimpiadi di Tokyo la Campania ha calato anche altri assi: Alessandra Vitale, capitana della Nazionale italiana di "sitting volley" e giocatrice della società Nola Città dei Gigli, è ambasciatrice del Comitato Italiano Paralimpico. "Quando parlo della mia esperienza - dice -  voglio far capire che tutto si può superare, che è necessario riuscire a vedere lo stesso problema da un altro punto di vista o, per dirla in altro modo, cercare più punti di vista a un problema". E dopo il Giappone (dove la Nazionale italiana di sitting volley è finita sesta), la "mission" di Alessandra non si ferma: "Continueremo a essere presenti nelle scuole e nei centri di riabilitazione, dove porterò la mia esperienza e cercherò di far capire come lo sport possa essere in questi casi un'ancora di salvezza fondamentale. Io non sono nata con la mia disabilità: non avevo assolutamente idea di quello che poteva significare. Lo sport per me è stato un appiglio importante: voglio trasmettere questo messaggio a tutte le persone che incontro".

Alessandra Vitale 

E ancora: napoletano doc è Emmanuele Marigliano, classe 1995, già oro ai campionati europei di nuoto di Madeira, in Portogallo: il ragazzo di Barra, periferia est di Napoli, ha scelto il nuoto per scopi terapeutici, a causa di una disabilità causata da un'asfissia neonatale. Ha subito, nel corso della sua vita, 14 interventi chirurgici. "In Giappone non è arrivata la medaglia, ma esserci è stato già un grande risultato. Ringraziamo i tanti che ci hanno seguito, i media che hanno fatto da cassa da risonanza. Partecipare a un evento del genere, per me che sono partito da zero, è motivo d'orgoglio: spero che in tanti, con storie simili alla mia, possano arrivare a tagliare un traguardo del genere".

Alessandro Brancato, canottiere del Reale Yacht Club Canottieri Savoia, è arrivato invece quinto ai Giochi Paralimpici di Tokyo a bordo del "quattro con PR3Mix". A Parigi 2024 l'obiettivo sarà il podio.


Altro sport, altra storia. Neanche a dirlo, eccezionale. Matilde Lauria è una judoka sordocieca: ipovedente all'età di tre anni a causa di una miopia maligna che, negli anni, è peggiorata. Dopo la vista ha iniziato a perdere anche l'udito.
Vive a Montesanto, tesserata con l'associazione polisportiva Partenope, è iscritta alla Fispic (Federazione Italiana Sport Paralimpici per Ipovedenti e Ciechi) frequenta la Lega del Filo d'oro. A 54 anni ha coronato il sogno di una Paralimpiade. "Ho gareggiato per tanti ragazzi e ragazze ciechi, sordi o con altre disabilità, a cui nessuno ha mai detto che possono essere bravi in uno sport", dice. Touché.

L'ischitano Gianni Sasso con la maglia della nazionale di calcio per amputati 

Tutti insieme, senza differenze


Uscita agli ottavi di finale e ai quarti, anche Pasquino sfoglia con piacere l'album dei ricordi. "Tokyo resta un'esperienza indimenticabile, fino a tre anni fa non immaginavo di potermi giocare le mie chance in una Paralimpiade. - dice - Certo, l'appetito vien mangiando e una volta in Giappone confesso che avrei voluto toccare con mano qualcosa che non c'è stato. E soprattutto nella sciabola contavo di conquistare una medaglia. Ma va bene così. E poi la vera conquista, anche grazie al numero significativo di medaglie complessive, è aver fatto rumore, tutti insieme". Rumore, già.
Come quello che fa chi partecipa a "Più Scherma meno schermi", il progetto di integrazione e inclusione realizzato spontaneamente in una palestra di Napoli, complice l'impegno di Sandro Cuomo, ct della Nazionale italiana di Spada. L'obiettivo è far allenare e combattere insieme - per la prima volta - soggetti con diverse disabilità unitamente ai normodotati, mettendoli ad armi pari in pedana. Perché l'ultima sfida è proprio questo: abbattere anche le differenze. Accade per esempio nel "baskin", la nuova attività sportiva che si ispira al basket e che in Campania sta trovando terreno fertile: è stato pensato per permettere a giovani normodotati e giovani disabili di giocare nella stessa squadra (composta sia da ragazzi che da ragazze, altro dettaglio di non poco conto). In campo scendono dunque giocatori con qualsiasi tipo di disabilità (fisica e/o mentale) che consenta il tiro in un canestro. "Si mette così in discussione la rigida struttura degli sport ufficiali e questa proposta, effettuata nella scuola, diventa un laboratorio di società", spiegano gli ideatori della disciplina.


Un calcio alle barriere


Lo Sport con la 'S' maiuscola, dunque. Dove il risultato finale non è assillo, assolutamente. Non è arrivata sul podio, ai recentissimi Europei in Polonia, la Nazionale italiana di calcio per amputati: è finita sesta sulle quattordici partecipanti, staccando comunque il pass per i Mondiali, in programma nel 2022 in Turchia. Tra i veterani, uno straordinario ultracinquantenne di IschiaGianni Sasso. Aveva 16 anni quando fu travolto da un'auto - lui era in vespa - su una strada della sua isola. Sognava di diventare Maradona, non si è dato per vinto. "Vidi la mia gamba staccarsi e rotolare via, sembrava la fine di tutto. E invece non mi sono mai fermato - racconta oggi a Repubblica - e con il triathlon sono arrivato alle Paralimpiadi a Rio de Janeiro. Ma il mio grande amore resta il calcio, senza dubbio. Bomber del Vicenza e colonna della nazionale, oggi racconta: "Il movimento calcistico italiano sta facendo grandi passi in avanti, ma ci sono paesi come la Turchia, che ha appena vinto gli Europei, dove la popolarità della nazionale di calcio per amputati è quasi vicina a quella dei cosiddetti normodotati. Al ritorno in patria, Instabul ha celebrato la sua nazionale campione d'Europa. A Cracovia, in ventimila hanno seguito la partita inaugurale del torneo. Noi stiamo crescendo, qualche anno fa sembrava inimmaginabile anche solo un campionato per squadre nazionale: quest'anno avremo anche la Coppa Italia. E credo in generale - continua Sasso, che ha anche un passato da podista (con record del mondo annesso) - che l'attenzione per gli sport paralimpici non scemerà: abbiamo finalmente raggiunto una popolarità e una simpatia nel grande pubblico tali da garantirci una certa continuità nel tempo".Il dubbio, semmai, è nella vita quotidiana, dove - nei meandri di città piene di insidie, Napoli in primis - gli ostacoli - che siano pregiudizi o marciapiedi insormontabili - continuano a sopravvivere. "C'è ancora tanto da fare. - spiega Sasso - E lo dico dopo aver toccato con mano realtà come l'Australia e gli Stati Uniti, dove anche chi vive in carrozzella riesce autonomamente a fare la spesa o andare al museo. Ma sono ottimista: la sensibilità di chi amministra sta crescendo e aiuterà a risolvere difficoltà anche strutturali. Penso ai nostri edifici, alle barriere architettoniche, ai centri storici. Io faccio attività di coaching e parlo nelle scuole. Con i bambini, è bellissimo. Loro non hanno filtri: ti chiedono che fine abbia fatto l'altra gamba, vogliono palleggiare con te. Stabiliscono una forte empatia e comprendono il valore della diversità. Quel che dico a tutti è che non importa arrivare alle Olimpiadi, o alle Paralimpiadi: l'importante è misurarsi con sé stessi, e lo sport può essere decisivo". E queste storie lo dimostrano.

30.9.21

l'amore vince sulla malattia , . PER CHI VIVE UN MOMENTO PARTICOLARE DELLA PROPRIA VITA, E HA SMESSO DI CREDERE NELL'AMORE, la vita è tutta un film , dopo uno shock anafilattico ha ripreso in mano la sua vita CHI LAVORA CON PASSIONE, A OGNI ETÀ,

da    https://storiedeglialtri.it/  di Carmelo  Abate (  carmeloabbate@storiedeglialtri.it  oppure   https://www.facebook.com/carmeloabbate1971 )    : <<   persone semplici, pure, nel cuore e nei sentimenti. Mi fanno pensare a mia madre e a mio padre, che purtroppo non c’è più. A tutte quelle persone umili che ogni giorno, nel loro piccolo, hanno tenuto la barra dritta e hanno contribuito a rendere grande il paese in cui viviamo >> Ogni storia racconta un pezzo di vita degli altri, ma finisce per toccare corde sensibili dentro ognuno di noi. Emozioni che ci fanno sentire meno soli, e più vicini a persone che non conosciamo.


. PER CHI  VIVE UN MOMENTO PARTICOLARE DELLA PROPRIA VITA, E HA SMESSO DI CREDERE NELL'AMORE
Lei è Maria. Nasce a Napoli nel 1951. Cresce in una famiglia umile, ha nove fratelli che cura come figli, appena può lascia la scuola e trova lavoro in fabbrica. Ha 16 anni, cammina per strada, incrocia gli occhi di un ragazzo che la fissa con insistenza. Piacere, mi chiamo Salvatore, scusami, ma non riuscivo a smettere di
guardarti. Maria sorride, gli stringe la mano, non la lascia più. Si sposano, in pochi anni nascono Luisa e Giuseppe. Maria si occupa dei figli e della casa, Salvatore è tutto il suo mondo. Si punzecchiano, bisticciano, poi fanno pace a passo di valzer. Maria cammina per strada vestita di tutto punto, gli uomini la guardano, Salvatore digrigna i denti, lei gli schiocca un bel bacio. Passa il tempo, i figli crescono, Maria e Salvatore riscoprono la gioia di stare insieme, viaggiano spesso, loro due, soli, mano nella mano sulle note di Celentano. È il 2009, Maria ha 58 anni, è in vacanza con la famiglia, d’improvviso si mette a urlare, dalla bocca le escono improperi e insulti. Salvatore è attonito. Amore calmati, che succede? Maria non sa, non riesce a spiegarsi, ha paura. Lui la stringe a sé. Stai tranquilla, va tutto bene. I giorni passano, Maria ha continui sbalzi d’umore, i medici fanno tante ipotesi, l’ultima è la più brutta. Alzheimer in fase avanzata. Maria si aggrappa al marito. Adesso cosa succede, che cosa ne sarà di me, di noi? Salvatore la tiene tra le sue braccia finché non si calma. Passano gli anni, Maria non riconosce più i figli, neanche i nipoti, vuole solo il marito, lo chiama, lo cerca, sempre, ovunque. Salvatore cucina i suoi piatti preferiti, impara a metterle lo smalto, fa venire il parrucchiere ogni settimana, e quando Maria ha lo sguardo lontano, le sussurra all’orecchio. Amore mio, ricordi quanto ci piaceva ballare? Maria gli fa una carezza. Come sei bello! La sua vita è tutta in quegli istanti, nei sorrisi, negli sguardi, nel ti amo sussurrato fino all’ultimo giorno della sua vita. Sono passati due anni, Salvatore ancora le parla. Ogni notte, prima di addormentarsi, la vede, corre tra le sue braccia, digrigna i denti. Maria lo guarda, gli fa il verso, e ride, ride.

guardarti. Maria sorride, gli stringe la mano, non la lascia più. Si sposano, in pochi anni nascono Luisa e Giuseppe. Maria si occupa dei figli e della casa, Salvatore è tutto il suo mondo. Si punzecchiano, bisticciano, poi fanno pace a passo di valzer. Maria cammina per strada vestita di tutto punto, gli uomini la guardano, Salvatore digrigna i denti, lei gli schiocca un bel bacio. Passa il tempo, i figli crescono, Maria e Salvatore riscoprono la gioia di stare insieme, viaggiano spesso, loro due, soli, mano nella mano sulle note di Celentano. È il 2009, Maria ha 58 anni, è in vacanza con la famiglia, d’improvviso si mette a urlare, dalla bocca le escono improperi e insulti. Salvatore è attonito. Amore calmati, che succede? Maria non sa, non riesce a spiegarsi, ha paura. Lui la stringe a sé. Stai tranquilla, va tutto bene. I giorni passano, Maria ha continui sbalzi d’umore, i medici fanno tante ipotesi, l’ultima è la più brutta. Alzheimer in fase avanzata. Maria si aggrappa al marito. Adesso cosa succede, che cosa ne sarà di me, di noi? Salvatore la tiene tra le sue braccia finché non si calma. Passano gli anni, Maria non riconosce più i figli, neanche i nipoti, vuole solo il marito, lo chiama, lo cerca, sempre, ovunque. Salvatore cucina i suoi piatti preferiti, impara a metterle lo smalto, fa venire il parrucchiere ogni settimana, e quando Maria ha lo sguardo lontano, le sussurra all’orecchio. Amore mio, ricordi quanto ci piaceva ballare? Maria gli fa una carezza. Come sei bello! La sua vita è tutta in quegli istanti, nei sorrisi, negli sguardi, nel ti amo sussurrato fino all’ultimo giorno della sua vita. Sono passati due anni, Salvatore ancora le parla. Ogni notte, prima di addormentarsi, la vede, corre tra le sue braccia, digrigna i denti. Maria lo guarda, gli fa il verso, e ride, ride.
PER CHI NON SMETTE MAI DI CREDERE NEI SOGNI
Loro sono Robin e Judith. Vivono a Francoforte, in Germania. Robin lavora come ingegnere, Judith in una radio. Sono appassionati di cinema, divorano film e serie tv. È il 2014. Robin e Judith si concedono una vacanza a Praga, camminano per la città finché trovano il punto esatto in cui è stata girata una scena di Mission Impossible. Robin fa per scattare una foto, poi si blocca. Tesoro, e se ti facessi una proposta indecente? Judith sgrana gli occhi, Robin scoppia a ridere. Tranquilla, intendevo che sarebbe divertente ritrarci nello stesso posto e nella stessa posa degli-------------
 
PER CHI CREDE CHE UN PICCOLO GESTO PUÒ CAMBIARE IL MONDO

Leah stringe i pungi, è arrabbiata da morire. Corre a casa, prende un foglio, scrive una frase a caratteri cubitali. Si piazza lungo la strada. I passanti la osservano. Ragazzina, che cosa stai facendo? Leah indica il foglio. Non si vede? Sto scioperando per il clima e l'ambiente
Leah. Vive a Kampala, in Uganda. È una bambina intelligente, curiosa. Mano nella mano con il nonno, passeggia nei boschi, ammira gli alberi, si diverte ad abbracciare i tronchi per annusarne la corteccia. Sono belli, forti, indistruttibili. Cresce, ha 14 anni, esce di casa per andare a scuola. Vede un automobilista gettare qualcosa dal finestrino. Leah gli urla dietro, poi si guarda intorno. La strada è piena zeppa di rifiuti. Come ha fatto a non accorgersene prima? Raccoglie le cartacce, le butta, ma al ritorno da scuola ne trova altre. Leah stringe i pungi, è arrabbiata da morire. Corre a casa, prende un foglio, scrive una frase a caratteri cubitali e torna indietro. Si piazza lungo la strada, in piedi, immobile. I passanti la osservano. Ragazzina, che cosa stai facendo? Leah indica il foglio. Non si vede? Sto scioperando per il clima e l’ambiente. Tutti i giorni Leah salta la scuola, gira la città, sosta agli angoli delle vie, mostra a tutti il suo cartello, parla, spiega le sue ragioni a chiunque voglia ascoltare. I genitori provano a farla ragionare. Tesoro, è molto bello quello che stai facendo, ma come la metti con lo studio? Vuoi farti bocciare? Leah li guarda indignata. Cos’è più importante, salvare il pianeta o andare a scuola? Mamma e papà sono spiazzati. I mesi passano, che piova o ci sia il sole, Leah continua a camminare con il suo cartello giallo e il suo messaggio bene in vista. Un giorno si trova a ripercorrere i vecchi sentieri che faceva con il nonno. Si guarda intorno, e ha una stretta al cuore. Che fine hanno fatto i miei bellissimi alberi? Leah piange dalla rabbia, grida, urla, poi corre in un negozio, compra dei semi e comincia a scavare. Quanti erano? Cento, duecento, mille? Costi quel che costi li ripianterà tutti. Scava come una pazza, ce l’ha a morte con il mondo intero. Dei rumori la riportano alla realtà. Leah alza gli occhi. Davanti a lei c’è un gruppetto di persone. Leah riconosce qualcuno dei volti incrociati per strada. Le sorridono. Siamo qui per darti una mano.
Scopri le altre donne che hanno superato limiti e barriere.
PER CHI SA CHE UN SORRISO VALE PIÙ DI TANTE MEDICINE

Lui è Salvatore. Nasce nel 1993 a Massa Lubrense, in Campania, tra il profumo di limoni e di salsedine. Trascorre un’infanzia spensierata, resa unica dall’amore di una famiglia verace. Ha 15 anni, conosce Alessia, un angelo dagli occhi verdi che gli ruba il cuore. Salvatore stringe la sua mano e va incontro alla vita. Si diverte a cucinare torte e paste fresche con la nonna, si iscrive alla scuola alberghiera, vuole diventare chef
È il 2014. Salvatore ha 21 anni, non si sente bene. Fa tanti esami, soffre di un grave deficit del sistema immunitario. Il medico è chiaro. Dimenticati di stare dietro ai fornelli, è troppo rischioso. Salvatore ascolta incredulo, poi crolla, si disfa in mille pezzi. Lacrime, paura, serate intere a piangere sulle panchine di fronte a Capri. Alessia lo abbraccia, lo stringe forte. Amore, tu puoi farcela, puoi cambiare vita, io sono con te, non ti lascio. Salvatore non scommetterebbe un soldo bucato su se stesso, ma si fida del suo angelo. Si iscrive a Economia, sgobba, suda, sputa sangue. Alessia è al suo fianco, sempre. Salvatore si laurea, prende un master, trova lavoro per piccole aziende locali, ottieni i primi risultati, ma la sua maledetta salute lo riporta giù. Soffre, non molla. Alessia lo sorregge nei momenti di difficoltà. Forza amore, andiamo, cambiamo vita, ricominciamo, noi due, insieme possiamo farcela. Si trasferiscono a Milano, una città grande che mette paura, soggezione. Salvatore e Alessia diventano grandi all’improvviso, stretti l’uno nelle braccia
dell’altra. Passano giorni interi a piangere in una umile cameretta, a cercare calore negli sguardi degli sconosciuti. Si sorreggono, non mollano, vanno avanti. Dopo sei anni di incertezze, arrivano le prime gioie. Firmano il mutuo, comprano la macchina, trovano un lavoro stabile e tanti amici. Oggi sono ancora lì, con gli occhi pieni di sogni, determinati e pronti a lottare. Se c’è una cosa che Salvatore ha imparato, è che l’amore è la medicina più forte. Devo tutto a te angelo mio, cuore mio, prego che il signore ti ripaghi per tutto il bene che mi hai fatto, e per la forza che continui a darmi.

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PER CHI VUOLE VIVERE LA MAGIA DEL CINEMA


attori. Judith è entusiasta. Se proprio dobbiamo, allora facciamo le cose per bene. Girano per negozi, recuperano un abito da sera, due cappotti neri, si vestono, si truccano, poi tornano sul ponte e scattano la foto. Robin è soddisfatto. Sono identico a Tom Cruise! Tornati dalla vacanza appendono la foto in salotto, la ammirano in silenzio, poi si guardano negli occhi. Stai pensando anche tu la stessa cosa? Fanno una lista dei loro film preferiti, scovano le location, pianificano le vacanze e, ciack, si gira! Volano negli Stati Uniti. Cappellino, barbetta, sguardo
crucciato, e Robin si trasforma in Forrest Gump. Raggiungono la Nuova Zelanda armati di bastoni e mantelli, solo per scoprire che la montagna di Lo Hobbit è stata ricreata al computer. Ballano a mille gradi sottozero come in La La Land, aspettano delle ore per sedersi sulla stessa panchina di Colpa delle stelle, passeggiano per il lago di Como con l’armatura ricavata da vecchie pentole. E Games of Thrones? Judith è irremovibile. Dobbiamo farlo, per forza! Impiegano giorni per realizzare l’abito di Khaleesy, una volta sul posto, si dannano per trovare la giusta angolazione, e quando finalmente è tutto pronto, ecco l’immancabile passante che sbuca dal nulla. Tutto da rifare, e risate a non finire. Ogni anno le vacanze di Robin e Judith si trasformano in una maratona cinematografica. Una volta a casa, si siedono sul divano con bibita e popcorn, riguardano le scene, sognano, ridono. È meglio di un film. Strano, folle, ma in fondo, perché no?

ambiente


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PER CHI HA IL CORAGGIO DI ALZARSI IN PIEDI E DIRE BASTA

Lei è Eunice. Nasce a Tryon, negli Stati Uniti, nel 1933. Il padre si barcamena tra mille lavori, la madre è una predicatrice religiosa. Eunice ha 6 anni, va in chiesa, ascolta il suono dell’organo, rimane stregata. Mamma, posso provare a suonarlo? Muove le mani, riproduce la canzone appena sentita. La madre è sbalordita. Figlia
mia, tutto questo da dove salta fuori? Eunice prende lezioni di pianoforte, suona Mozart, Bach, Beethoven, sogna grandi palcoscenici. Ha 10 anni, sta per esibirsi davanti alle persone più importanti della città. Ha il cuore a mille, cerca mamma e papà tra il pubblico, li saluta, poi assiste a una scena strana. I suoi genitori sono costretti a cedere il posto a una coppia di bianchi. Eunice salta in piedi, punta il dito. Non suonerò più una nota se la mia mamma e il mio papà non restano dove sono. Cala il silenzio, e l’imbarazzo. Eunice non si piega, viene accontentata. Il concerto è un grande successo, ma lei non è felice. Si sente umiliata. Giura a se stessa che diventerà la prima pianista nera di musica classica. Cresce, tenta l’ammissione in una scuola prestigiosa, gli insegnanti si congratulano. Hai talento, ma questo non è il tuo posto. Eunice piange di rabbia. Odia la sua pelle scura, è stanca di ricevere oltraggi, si fa chiamare Nina Simone e si esibisce nei nightclub. Un discografico le offre un contratto, Nina non ha niente da perdere. Suona con musicisti famosi, diventa una pianista e cantante di successo. Ma dentro di lei c’è sempre quel senso di vuoto. È il 1963. Nina ascolta una notizia sconvolgente. Quattro bambine nere sono state uccise in un attentato mentre erano a catechismo. Nina stringe il pugno, forte, fino a sanguinare. Prova rabbia, dolore, ma anche qualcosa di nuovo. Pesta le dita sul pianoforte, urla. Poi si guarda allo specchio, e sorride. Compone canzoni di protesta, canta contro il razzismo, inneggia all’uguaglianza. Riceve critiche, insulti e minacce. I suoi dischi tornano indietro spezzati in due, la carriera di Nina Simone cola a picco. Ma la piccola Eunice resta in piedi, con il dito puntato.


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Dopo lo shock anafilattico, Silvia si è affidata a un nutrizionista, e ha intrapreso un percorso psicologico che l’ha aiutata a riprendere in mano la sua vita.


Lei è Silvia. Vive a Firenze. Ha 20 anni. Si sveglia, fa per alzarsi, ma il corpo è rigido, non risponde ai comandi. Silvia si spaventa, urla. Mamma, papà, aiuto! La portano in ospedale, il medico non ci gira intorno. Signorina, lei ha la sclerosi multipla, tra dieci anni sarà in sedia a rotelle. Silvia ingoia lacrime amare, la sua vita viene sopraffatta dalle terapie e dal dolore. Nasconde a tutti la verità, ne parla solo con Roberto, il fidanzato, ma non pronuncia mai il nome della malattia. La Signora, così la chiama. Rinuncia agli amici, al lavoro, si sente un peso per tutti. Un solo desiderio la tiene in piedi, diventare madre. I medici la sconsigliano, lei tira dritto. Si aggrappa a Roberto e dopo anni di tentativi nasce la piccola Chiara. Negli occhi della sua bambina, Silvia cerca la forza di reagire, non la trova. Passano tre anni. È sera, Silvia fa la solita iniezione prima di andare a dormire, il suo corpo ha una reazione violenta, sussulta, si muove a scatti, poi d’improvviso tutto diventa buio. Silvia riapre gli occhi e si trova davanti a una scena assurda, impossibile. Il suo corpo è steso a terra, e lei lo sta osservando dall’esterno. Non prova nulla, anzi, finalmente il dolore è sparito, si sente libera, in pace. Silvia cerca la Signora. Portami via con te, basta, sono stanca. Si sente sempre più leggera, finché un pensiero le attraversa la mente. Tra qualche ora Chiara si sveglierà, cercherà la sua mamma, e piangerà tanto. Silvia si agita, gira gli occhi nella stanza. Bambina mia, figlia mia, dove sei? Qualcosa la tira verso l’alto, ma lei si oppone con tutta se stessa. Deve andare dalla sua piccola, adesso, subito. C’è una luce accecante, poi i suoi polmoni si riempiono d’aria. Silvia apre gli occhi, si guarda intorno. È tornata, è viva. Oggi Silvia ha 53 anni, da quel giorno la sua mente e il suo corpo si sono ripuliti. Ha smesso di piangersi addosso e ha ricominciato a vivere. Ha capito che il vero nemico era dentro di lei, e nel momento in cui l’ha affrontato, è tornata libera. Non è guarita, ma non è più una malata.

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. PER CHI LAVORA CON PASSIONE, A OGNI ETÀ

Linda, la figlia di Margaret, ha scritto un libro in cui racconta la storia della sua instancabile mamma.
Lei è Margaret. Nasce a Monaghan, in Irlanda del Nord. Perde la mamma quando è molto piccola, cresce con le sorelle e il papà in una casa dal tetto di paglia. Ha 5 anni, si ferma Home
Lei è Margaret. Nasce a Monaghan, in Irlanda del Nord. Perde la mamma quando è molto piccola, cresce con le sorelle e il papà in una casa dal tetto di paglia. Ha 5 anni, si ferma davanti allo specchio, guarda i suoi capelli, prende le forbici e zac, li taglia tutti. Le sorelle inorridiscono, lei sorride soddisfatta. Voglio fare la parrucchiera. Cresce, fa chilometri in bicicletta per raggiungere il salone della città. Lava i pavimenti, intanto guarda, osserva ogni gesto, impara. È il 1952. Margaret si trasferisce a Chorley, in Inghilterra. Vuole aprire il primo negozio tutto suo, ma il paese ne ha già uno, e non cercano personale. Margaret si morde le labbra, lavora come infermiera, taglia i capelli gratis alle pazienti. Durante un ballo conosce Frank, è amore a prima vista. Si sposano, poco dopo arriva la prima figlia. È il 1956. Margaret mette la sua bambina nella culla, poi sente dei rumori, guarda dalla finestra, urla. Quel benedetto salone sta finalmente chiudendo i battenti. Margaret corre in soggiorno, sistema il tavolo, uno specchio, tira fuori gli attrezzi del mestiere e appende un cartello in giardino. Capelli da Margaret. Aspetta per ore, finché dalla porta fa capolino la prima cliente. Margaret estrae le forbici. È il momento più bello della sua davanti allo specchio, guarda i suoi capelli, prende le forbici e zac, li taglia tutti. Le sorelle inorridiscono, lei sorride soddisfatta. Voglio fare la parrucchiera. Cresce, fa chilometri in bicicletta per raggiungere il salone della città. Lava i pavimenti, intanto guarda, osserva ogni gesto, impara. È il 1952. Margaret si trasferisce a Chorley, in Inghilterra. Vuole aprire il primo negozio tutto suo, ma il paese ne ha già uno, e non cercano personale. Margaret si morde le labbra, lavora come infermiera, taglia i capelli gratis alle pazienti. Durante un ballo conosce Frank, è amore a prima vista. Si sposano, poco dopo arriva la prima figlia. È il 1956. Margaret mette la sua bambina nella culla, poi sente dei rumori, guarda dalla finestra, urla. Quel benedetto salone sta finalmente chiudendo i battenti. Margaret corre in soggiorno, sistema il tavolo, uno specchio, tira fuori gli attrezzi del mestiere e appende un cartello in giardino. Capelli da Margaret. Aspetta per ore, finché dalla porta fa capolino la prima cliente. Margaret estrae le forbici. È il momento più bello della sua vita. I giorni passano, il salotto di casa è un via vai di persone, il marito si lamenta. Mica si può vivere così! Margaret promette che smetterà appena la figlia inizierà la scuola. Il primo giorno di Elementari, il marito le ricorda la promessa. Margaret annuisce. Lo so, lo so, oggi stesso annuncio la chiusura. Frank la guarda storto. Non ci provare, sei troppo brava, piuttosto concedimi di farti da assistente. Tra una piega e uno shampoo, il tempo scorre in fretta. È il 2021. Margaret annuncia con orgoglio di aver raggiunto i 65 anni di attività. Le clienti scoppiano in lacrime, sono disperate. Maggie cara, non avrai intenzione di andare in pensione, vero? Margaret sgrana gli occhi. In pensione? Ma non scherziamo! Ho 91 anni, non sono mica morta.

27.6.21

silenzio opportunistico e utopia della perfezione

un silenzio interesato che dimostra come ormai anche la scienza si pieghi allo show business la prima stpria visto che : << [....] se divulghi troppo dopo non ti chiamano più [...]  >>   (  vedere     screenshot   a   dell'articolo   di republoica  del  27\6\2021    riportatoi a  sinistra   ) . 
La  seconda  è  di    la  storia  di un utopia    ,  un otta  quotidiana   per raggiungere    una  cosa  che   non lo  sarà mai   al 100   %    e     che  spesso  ( almeno per    me  era  cosi   )    si diventa  frustrati      quando non si raggiunge, almeno  che      come   sembra    aver  dichiarato Bolle  in questa   intervista  sempre  a republica  del  27\6\2021  ,  non  s'accetti  i propri limiti  come  suggerisce    anche la  canzone   la  libertà  di Guccini    scelta  come  colonna  sonora  del post  d'oggi  . 

                 Bolle “Il mio corpo un dono prigioniero della perfezione”
                                di Dario Cresto-Dina


Una vita a rincorrere l’impossibile della vita. Roberto Bolle ha 46 anni, è alto un metro e 82 centimetri, pesa ottanta chili. Tre numeri che rappresentano il recinto della sua professione. Il corpo è la sua salute e la sua malattia sin dall’infanzia passata tra Casale Monferrato e Trino Vercellese. Famiglia molto unita: padre piccolo imprenditore, madre casalinga, quattro figli. La danza, dice Bolle, vive del corpo e allo stesso tempo lo tiene prigioniero: «Lo plasma, lo forza a movimenti innaturali, a posizioni disumane.
Gli impone sacrificio e dolore. È un’arte che cerca la perfezione che tuttavia non è di questo mondo. La perfezione del gesto, delle proporzioni, delle pose».
Il paradosso di Achille e la tartaruga nelle versione di Borges.
Rincorrete la perfezione senza mai raggiungerla per un difetto infinitesimale. Nella biologia spesso è raccolto il destino. È stato così per lei?
«Credo di sì. Il fisico poteva condurmi verso lo sport oppure verso il cinema, ma la passione per la danza si è manifestata precocemente. Già verso i tre anni mi incantavo davanti alla televisione a guardare i balletti e provavo a rifarli. A cinque anni chiesi a mia madre di iscrivermi a danza, mi rispose di continuare a fare nuoto e se l’anno successivo lo avessi voluto ancora, mi avrebbe accontentato. L’anno dopo facevo danza».
Qual è il primo ricordo che afferisce al suo corpo?
«Sono stato un ragazzino disciplinato, ma dalle grandi energie. Ho sempre avuto un corpo molto reattivo, flessibile, portato per le discipline sportive, e una consapevolezza innata del fisico che adesso ho imparato a chiamare propriocentrismo. È un dono che va allenato, altrimenti si disperde, ma è un dono».
Il dono, una vocazione. Qualcosa di divino che dunque va oltre il talento?
«Alla scuola di danza si sono accorti subito che possedevo un non so che di speciale. Il talento sta forse un gradino più sotto. Che avrei fatto della danza una professione, la mia professione, sono arrivato a pensarlo intorno ai quattordici anni, dopo la terza media. Ho capito che lì con la danza classica sarebbe cominciata e finita la mia vita».
In una professione si inseguono anche simboli, leggende, figure da emulare. Le sue quali sono state?
«Ho avuto buoni maestri sin dall’inizio. Ho diverse fonti di ispirazione, prime fra tutte Nureyev e Carla Fracci non solo perché hanno guidato intere generazioni di ballerini, ma perché hanno avuto una visione: portare la danza a tutti, fuori dai teatri. Molto di ciò che ho fatto per la danza non avrei potuto farlo se loro non mi avessero preceduto».
Lei parla di sacrifici, io di allenamento. Mi racconti dell’uno e degli altri.
«Mi alleno dalle sei alle sette ore ogni giorno tra lezioni e prove in sala, stretching e a volte anche palestra. Non seguo una dieta particolare, ma sono molto attento a quello che mangio. Non è una questione di calorie, chiaramente, perché noi ballerini consumiamo molto, ma di qualità. Ho praticamente eliminato la carne, in particolare quella rossa. Mangio pesce, verdure, frutta e, anche se Pif mi prende pubblicamente in giro per questo, molti semi e frutta secca. Non ho mai fumato e bevo vino solo per brindare. Amo molto il cioccolato fondente che mi accompagna anche in sala ballo. Mi nutro con piccoli snack tra una prova e l’altra e bevo almeno sette litri di acqua al giorno».
I 50 anni si avvicinano e il tempo ha unghie affilate. Si è posto un limite oltre il quale non andrà?
«Sento l’usura, come qualsiasi lavoratore. Negli ultimi anni ascolto molto di più il mio corpo e devo confessare che il periodo del lockdown è stata davvero una esperienza difficile e angosciante, come mai prima ho avvertito la fragilità della mia esistenza. Andrò avanti fino a quando riuscirò a farlo ad un livello che mi soddisfa, che mi fa stare bene e sentire nel posto giusto. Quello che mi piace di questa fase del mio percorso artistico è un’accresciuta maturità scenica che va di pari passo con la crescita personale, umana. Ci sono ruoli e personaggi, come quello del cattivo in Madina, che solo adesso posso affrontare, scoprendo lati e sfumature artistiche prima impensabili per me. Mi viene naturale credere che quello che sono e penso adesso sia frutto del passare del tempo, di quello che sono stato, che ho fatto».
La ricerca della perfezione può essere sintomo di una dipendenza accompagnata dalla frustrazione, di una vita separata dalla realtà?
«Sì. Tutti noi ballerini siamo dediti alla ricerca della perfezione. Abbiamo lo specchio come alleato, a volte amato, più spesso odiato quando non ci restituisce l’immagine di noi che avevamo in mente. È un continuo tentativo di afferrare quello che non si può afferrare. La perfezione. Ma questo desiderio è talmente insito in noi che diventa una forma mentale, con risvolti anche etici. Non accontentarsi, imparare a inseguire un ideale di sé migliore, ti mantiene umile. Che il fisico cambia, noi ballerini lo capiamo già a vent’anni. Impariamo molto presto a fare i conti con uno strumento che non è mai lo stesso, ma mutevole. Per l’età, gli infortuni, i dolori che ci accompagnano ogni giorno e ogni notte e che sono le nostre cicatrici».
Ha mai dovuto fare i conti con la depressione o con momenti in cui ha pensato di smettere?
«Certo che ci sono stati. Ne ricordo due in particolare: il primo dopo tre anni che stavo a Milano e la nostalgia di casa si faceva sentire in maniera prepotente. Pregai allora mia madre di iscrivermi anche alla prima liceo a Vercelli, così da avere tempo di valutare bene che cosa sentivo di voler fare. Alla fine per fortuna vinse la danza. Il secondo è stato qualche anno fa, dopo un brutto infortunio alla schiena. Il rischio che non riuscissi a riprendermi era molto alto. Ce la misi tutta e rientrai prima di ogni aspettativa. I critici, che non sapevano ciò che mi era accaduto, scrissero che avevo raggiunto un nuovo livello di maturità. Era vero».
Lei tiene nascosti amori, felicità, affetti, dolori. Perché questa chiusura ermetica?
«Molti trovano sollievo nell’aprirsi, io sono abituato a vivere le mie emozioni più profonde in maniera personale, riservata, intima appunto. Abituato alla solitudine fin da ragazzo, mi ci sono affezionato. Sono uno di quegli uomini che piange dentro e, le assicuro, il rumore è ancora più forte».
Qualcuno ha detto che in questo mondo la bellezza è l’unica consolazione. Il suo corpo è anche un oggetto di desiderio. Come vive questa condizione?
«Le sembrerà strano ma non ci penso mai. Il mio corpo è per me uno strumento d’arte, come lo è il pennello per il pittore o il violino per un musicista. E poi, credo lo abbia detto Mandela, siamo tutti nati per risplendere come fanno i bambini».
Chi è Roberto Bolle quando esce di scena?
«Un uomo come tanti, incredibilmente pigro, amante delle cose semplici: una cena con amici, una giornata in famiglia, il mare appena si può. Leggo molto, leggo di tutto, i giornali prima di tutto, di tutto il mondo».
Lei ha lottato per ripartire subito, dopo la lunga stagione della pandemia e sta per cominciare un tour estivo di spettacoli. Dal 13 al 15 luglio sarà a Roma con una prima assoluta nella cornice del Circo Massimo, il 17 luglio a Firenze in piazza Santissima Annunziata e il 3 agosto all’Arena di Verona. Che cosa ci ha insegnato il flagello luttuoso del Covid?
«Guardi, credo nulla. Lascia ferite profonde nel tessuto sociale, economico, culturale, umano. Io non sono tra quelli che hanno inneggiato alla splendida opportunità del lockdown, per carità, è stata una tragedia per troppi e ancora lo è. Credo che ora sia estremamente importante restare uniti, non lasciare indietro nessuno. Da una caduta così grave ci si rialza solo insieme, cercando di porre le basi per un sistema più solido, più giusto e più solidale. Mi auguro che questa consapevolezza, se ci sarà, non si trasformi in paura».
E lei, giunto fin qui, può ritenersi un uomo fortunato?
«Sì, ma credo di avere onorato la fortuna con l’intelligenza».

  colonna   sonora
  • La tua Libertà - Francesco Guccini
  • Nella Mia Ora Di Libertà - Fabrizio de  Andrè 


Il 29 dicembre 2020 veniva uccisa Agitu Ideo Gudeta, la regina delle capre felici.

Il 29 dicembre 2020 veniva uccisa la regina delle capre felici.È stata ferocemente uccisa Agitu, la regina delle capre felici, con un colpo...