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3.10.13

L'ultimo viaggio sulla Terni-Carpinone un giorno sulla Transiberiana d'Italia

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da repubblica online del 3\10\2013
L'ultimo viaggio sulla Terni-Carpinone un giorno sulla Transiberiana d'Italia 
Otto ore dal mattino fino alla sera sugli Appennini. Dall'Umbria fino al Molise. Raggiunge gli spazi più freddi e le vette più alte che le ferrovie in Italia abbiano mai raggiunto. Ma ora non la si può più fare. Un estratto dell'ultimo viaggio sulla Terni Carpinone tratto dal libro Giro in Italia del Touring Club Italiano

 


 FEDERICO PACE
Prima scorrono le irregolari forme degli orli urbani. Le pareti assolate degli edifici, i cortili premuti tra le strade e la solitudine verticale dei pali della luce. Poi è già tempo di campi coltivati. Il treno è partito dalla stazione di Terni quando sono passate da poco le nove e trenta del mattino. E' un'automotrice diesel. Un convoglio della Ferrovia Centrale Umbra capace di muoversi da sé nella cui sigla, ALn 776, stanno celate le segrete caratteristiche. Il tipo di rotabile, la trazione e persino il numero di passeggeri. Con questa arriverò fino a L'Aquila. E' uno di quei veicoli che, con la sua moderata velocità, fanno pensare alla ferrovia come a un organismo che può essere trattato ancora con cura e attenzione. Anche lì, dove si è lontani dalle traiettorie privilegiate degli affari e a risaltare sono le persone e la natura.
Questa è la vena ferroviaria che passa dentro il corpo centrale dell'Italia. Un itinerario che comincia al mattino e si conclude al tramonto. Otto ore per percorrere il dorso degli Appennini da Terni a Carpinone. Dall'Umbria fino al Molise. Anche questa ferrovia, desiderata a lungo, divenne realtà, come molte altre in Italia, solo alla fine dell'Ottocento. Il treno, che ha un motore a sei cilindri e duecentottanta cavalli, comincia a salire. Nel breve volgere di venti minuti si passerà dai cento metri di altitudine di Terni ai quasi cinquecento di Contigliano. La ferrovia va verso sud, gira quasi intorno a Terni, passa Stroncone e poi risale verso nord e arriva dove il Nera si incontra con il corso del Velino e dà vita alla precipitosa Cascata delle Marmore. Un balzo di quasi centosettanta metri. Poi, a sinistra, il lago di Piediluco.
La linea ora passa nell'agro reatino lungo l'alveo del fiume Velino e sfila tra i Monti Sabini e i Monti Reatini. Si direbbero luoghi immutabili. Eppure, anche i paesaggi, segretamente, mutano le loro forme seguendo però una cadenza che oltrepassa le nostre vite. E il nostro sguardo. Un tempo qui c'era un grande lago: il Lacus Velinus. Ora restano solo esigue acque a rammentarne l'esistenza. Cosa ci sarà in questo stesso spazio tra trecento anni? E tra mille, cosa vedrà chi si inoltrerà fino a qui?
Quasi in ogni punto di questa linea ci si ritrova sulla cresta di un monte, nell'alveo di un fiume e tra una vegetazione esemplare. Si è condotti, incessantemente, in un "a tu per tu" con una natura denudata e fragilissima. Poi, d'improvviso, in un finestrino balugina la figura luminosa di una mucca bianchissima che appare e scompare. Arriviamo a Contigliano. Dal finestrino si vedono filari di alberi e foglie di rame. L'andare piega ancora più decisamente verso est. Alla Stazione di Rieti, il macchinista della littorina si affaccia a guardare di fuori. Dopo essere ripartiti, il treno sale di nuovo. Dieci minuti e si arriva a Cittaducale. Due ciclisti scendono dal treno. Sono già pronti per pedalare. Ai fianchi della ferrovia, le vette sono presenze costanti, insistenti, protettive. Il monte Paterno è tra quelli più vicini. In lontananza svetta il monte Terminillo. A destra la valle del Salto. Poi Castel Sant'Angelo e Borgo Velino. Da Antrodoco il treno torna a inerpicarsi. E' in questo tratto che la ferrovia raggiunge la pendenza massima.
Quando ci si infila nelle gole, quando il treno si ritrova a passare tra le trincee, in quei muri di controripa, il punto di vista laterale, privilegio particolare del viaggiatore ferroviario, diventa una sorta di costrizione. Quando infine vengo ammesso nella cabina con il banco di guida, provo una vertigine. In questo punto, proprio tra Antrodoco e Sella di Corno, è stupefacente avere, per la prima volta, davanti a sé l'orizzonte. La traccia della ferrovia, i binari, le traversine in legno, la lucente massicciata di ghiaia e pietrisco sembrano comporre un varco segreto che passa fra i monti. Il treno si infila, e pare chinare la testa quando lo fa, sotto le volte in pietra della gallerie. E' in questo tratto che la linea compie un mezzo giro e si arrampica verso il valico, il punto acuminato, in cui la valle dell'Aterno si dà il cambio con quella del Velino. Si passa il confine tra il Lazio e l'Abruzzo. Proprio qui avvenivano le scene di doloroso distacco tra le madri e i figli di quelle famiglie che, alla fine dell'Ottocento, andavano a lavorare nell'agro romano e nel Grossetano. Andavano a fare gli spaventapasseri per poche lire.
Gli ultimi colori dell'anno crepitano sui fianchi delle montagne. Piccoli punti colorati. Verdi luminosi, gialli, aranci e rosa. Se è vero che ciascun viaggio, ciascun percorso, sembra avere un momento in cui ne viene svelata l'essenza, questo sembra averne più d'uno. Ogni volta che esci da una galleria, solo tra Terni e Sulmona ce ne sono almeno trenta, il mondo si ripresenta sempre, eppure cogliendo di sorpresa. Il treno va verso L'Aquila. Lì, quando si arriva verso le undici e trenta, si cambia automotrice. Si riparte dopo un quarto d'ora. Si va ancora verso est-sudest. Si passano Paganica e San Demetrio nè Vestini. A sinistra, i Monti della Laga. A destra, il Gruppo del Sirente-Velino. Tra le rocche calcaree si trovano nascosti valloni isolati ricoperti di boschi e altipiani verdi di pascoli. Sui versanti più alti, ci sono le faggete della Val di Teve. Lassù c'è anche qualche betulla. Poi dal finestrino, per un attimo, pare di intravedere il brillare di uno specchio d'acqua. E' solo un'illusione. Una rifrazione.

Passiamo Castelvecchio Subequo. A sinistra la Riserva naturale delle Gole di S. Venanzio con la roverella, il biancospino, il terebinto e le orchidee. La linea scende fino a Raiano per almeno cento metri di altitudine e prosegue la sua traiettoria longitudinale attraverso tutto l'Abruzzo. E' il treno è il mezzo ideale per venire tra gli abruzzesi. Loro lo conoscono bene questo marchingegno ferrato. Si potrebbe quasi dire che lo loro storia è intessuta con quella dei treni. Nelle foto d'epoca si vedono i volti delle persone che dall'altopiano delle Rocche andarono a costruire ferrovie in tutto il mondo. Erano talmente bravi, tenaci e ostinati, e bisognosi di un impiego, che molti si ritrovarono a mettere insieme, nei gelidi inverni della Russia, il tratto più difficile della Transiberiana: quello che costeggia il lago Bajkal. Si scende ancora un poco fino ai circa trecento metri d'altezza di Pratola Peligna. Quando mancano una ventina di minuti all'una, si arriva a Sulmona.
Da qui, il primo trenino per Carpinone parte quando manca un quarto d'ora alle quattro. La littorina è una di quelle un po' più datate. Il treno comincia ora una vertiginosa salita. Si va verso sud. Sulla sinistra il parco nazionale della Maiella. A destra si vedono, appollaiate alle basi del Monte Genzana, le case di Pettorano sul Gizio. Difficile non venire attratti da questo paese, dall'apparizione della schiera di case che si sporge e sembra intonare un muto richiamo. Poi la linea gira per ascendere la Cresta di Pietramaggiore. Una sequenza di gallerie prima di Cansano. Il giorno comincia già a piegare il suo capo. La luce diventa radente e si intravedono persino singoli raggi solcare lo spazio delle valli. Sembra di stare più in alto di quanto siamo in realtà. Di avvicinarsi al cielo. La ferrovia passa su viadotti che si insinuano nelle creste di pietra dei monti. Alla stazione di Campo di Giove, a quasi novecento metri di altezza, una vecchina dai capelli argentei, avvolta in cappotto nero, scende portando dietro di sé un trolley blu. Il treno prosegue la sua marcia.
La Majella mostra tutta la grandezza mentre andiamo ancora verso sud. Le stazioni sono approdi desolati. Nessuno, o pochissimi, stanno ad aspettare. Qualche antenna satellitare. Il treno continua a salire come preso da un anelito. Stiamo per arrivare a una delle stazioni ferroviarie più alte d'Italia. Andiamo verso il Monte Calvario e arriviamo a Rivisondoli e Pescocostanzo. Siamo a oltre mille e duecento metri di altezza. Un padre aiuta la sua bimba, intabarrata in un giubbettino, cappelino e calzoni imbottiti di colore viola, ad attraversare il binario. Poi Roccaraso. Da qui il treno comincia a scendere di nuovo. Alfedena-Scontrone. Il mondo sembra farsi meno teso e acuto. Lasciare la montagna, ad ogni modo, restituisce una sorta di tranquillità. E' come se le maglie dello spazio e del tempo stiano tornando ad allentarsi dopo essersi strette fittamente.
Ad un passaggio a livello una macchina aspetta. Anche le persone a bordo stanno andando verso una meta, una casa. Alla stazione di Castel di Sangro, tre persone sono gli unici segni di vita in questa terra che pare relegata a un silenzio assoluto. La ferrovia torna di nuovo a salire. Poi lasciamo l'Abruzzo ed entriamo in Molise. Arriviamo alla stazione di S. Pietro Avellana, passiamo la riserva naturale di Montedimezzo con le faggete, la festuca dei boschi, gli scoiattoli e le vipere. Poi il Monte Pizzi. L'automotrice trova sollievo in una nuova discesa. Una giovane cinese sta da sola e guarda fuori dal finestrino. Anche lei sembra sorpresa da come la giornata sia riuscita, nonostante tutto, a consumare inesorabilmente la sua brillantezza. In questo spazio così recondito, così lasciato a se stesso, tutto appare più acuto, anche la presenza di un uomo o di una donna. Anche i pensieri e le emozioni.
Ora il mondo, anche quello che sta aggrappato alla schiena dell'appennino, è quasi buio. Si vedono le scie dei fari delle vetture agli incroci. Le ombre delle persone che si affrettano verso casa. Siamo a Carovilli. Due donne, illuminate dal freddo di una luce a neon, agitano la mano per salutare qualche caro che è appena partito. E' facile intuire la solitudine inumidita che proveranno quando rientreranno, sole, nella loro cucina. Senza luce il percorso ferroviario diventa un discorso le cui uniche parole, la cui unica punteggiatura, è formata dai chiarori delle stazioni ferroviarie. Il resto comincia a sparire. A sinistra c'è, celata nella semi-oscurità, l'abetina di Collemeluccio con il suo bosco relitto di abete bianco. Dopo tutti quei colori, dopo tutte quelle valli e queste vette, tutto sembra essersi dissolto con lo svanire del giorno. Quando si intravedono le luci della stazione di Carpinone, ultime boe luminose di questo mare, approdiamo al nostro porto finale mentre l'oscurità della notte ha ormai rimarginato la ferita del giorno.


"Quel trenino che non c'è più"
L'Italia delle ferrovie perdute

Soppresso un sempre maggior numero di ferrovie locali. Dalla Sulmona-Carpinone alla Alba-Asti. Un'aggressione alla storia, alle piccole economie locali e alle speranze delle aree emarginate


Sono fragili e preziose e stanno scomparendo. Le ferrovie minori sono sempre meno, eppure sono quelle che uniscono i piccoli centri e si avvicinano all'anima più segreta dell'Italia. Ai suoi paesaggi e alle persone. Sulmona-Castel di Sangro-Carpinone o Alba-Asti. Sono nomi che evocano paesaggi e storie. Gli Appennini o i luoghi di Beppe Fenoglio. Sono solo tra le più recenti a essere state fatte fuori. Tante sono però quelle che vengono dismesse e abbandonate. Troppi costi per pochi passeggeri, si dice. Così, se si digitano i loro nomi sul sito delle Ferrovie Italiane, se si cerca di comprare un biglietto, al più ci si ritrova davanti agli occhi l'orario di un autobus sostitutivo. A oggi le ferrovie in abbandono ammontano a oltre 6mila chilometri in tutta Italia e il numero tende a aumentare di anno in anno.

Del destino del patrimonio infrastrutturale storico italiano si parla il 3 e il 4 ottobre a Rimini al convegno di CoMoDo, la Confederazione per la mobilità dolce che raccoglie venti associazioni che si occupano di tutela dell'ambiente e del paesaggio legati al recupero delle ferrovie in abbandono. Albano Marcarini, urbanista e presidente di CoModo, sostiene che se si sopprime un treno locale "si cancella la memoria e l'identità di un territorio, il suo presidio viene sganciato dal palinsesto della nazione. Ciò significa accentuare isolamento e perdita di relazioni. E questo accade spesso in aree già emarginate dallo sviluppo. Per questo è necessaria la realizzazione di una rete nazionale di mobilità dolce, basata sul recupero delle infrastrutture dismesse o male utilizzate: ex-ferrovie, strade, argini di fiumi e canali".
Le linee regionali del Piemonte o la Avellino-Rocchetta S. Antonio in Campania sono altri esempi di linee abbandonate nonostante lo straordinario interesse ingegneristico e paesaggistico. La chiusura della Sulmona-Carpinone, che cavalca gli Appennini tra Abruzzo e Molise rende ormai impossibile quel viaggio-impresa che era la Terni-Carpinone, un itinerario che comincia al mattino e si conclude sul ciglio del tramonto. Otto ore per percorrere il dorso degli Appennini.
La difesa di un treno locale, di una ferrovia abbandonata, è tutt'altro che un atto nostalgico. E' come bloccare un pezzo di un apparato circolatorio. "Le vicende che, fra la fine dell'800 e primi del Novecento, hanno condotto alla realizzazione in tutta la nostra penisola di migliaia di chilometri di ferrovie 'minori' - dice Marcarini  -  svelano il significato della loro presenza come capisaldi del territorio, identificazione delle comunità locali e investimento in capitale fisso sociale. E fanno capire tutti i benefici che potrebbero ancora arrecare sia sotto il profilo turistico, se recuperate come ferrovie, sia sotto quello del tempo libero e della mobilità dolce se trasformate in greenways aperte a una pluralità di fruitori: pedoni, ciclisti, portatori di handicap."
Molte di queste ferrovie minori, quelle dismesse e quelle che sono ancora in vita, possiedono un potenziale turistico immenso. Basti pensare alla ferrovia, vero miracolo ingegneristico, che sulla Siracusa-Ragusa attraversa tutto il Val di Noto tra digradare di terrazze, gallerie, la pietra bianca e i miracoli  barocchi di Modica, Scicli e Noto. Certo, non sempre è così. Ma non per questo però, devono essere lasciate a se stesse. Per Marcarini bisogna essere chiari su questo punto: "Non tutte le vecchie ferrovie possono essere una risorsa per il turismo. Molte però sì, ma per tutte comunque è possibile un destino migliore dell'abbandono che significa soltanto degrado e incuria del territorio, fenomeni non degni di un Paese che si considera avanzato".
Da fare ci sarebbe molto. In Europa si stanno già dando da fare per tutelare questo patrimonio. E alcuni modelli andrebbero osservati con attenzione. "Per quanto riguarda la valorizzazione turistica delle linee secondarie -  racconta Marcarini - la Svizzera fa da modello, ma ora anche in Italia con il successo della linea Merano-Malles. Per quanto riguarda il recupero, direi la Spagna, con il progetto 'Viàs Verdes', che ha portato in pochi anni alla trasformazione in piste ciclopedonali di oltre 1000 km di ex-ferrovie".
Ma è possibile un futuro programmabile per queste linee regionali italiane. Albano Marcarini che è un viaggiatore, soprattuto a piedi e in bici, e autore di numerose guide di viaggio e che l'Italia la conosce quasi palmo a palmo confessa che proprio in questo momento di crisi generale "sarebbe un lusso troppo grande disperdere e buttare al vento questo patrimonio" e lancia una proposta: "noi di CoMoDo proponiamo la sua conservazione immediata e la sua futura valorizzazione nelle migliori forme possibili anche attraverso l'istituzione di una Fondazione... o, mi si passi la battuta, di un'Opera Pia per la salvezza delle vecchie ferrovie"
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