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8.10.22

Figli di guerra e di madre ucraina: Emma ed Elia intrappolati a Tblisi . APOLIDI I GEMELLINI DELLA MATERNITA' SURROGATA NON HANNO DIRITTI IN GEORGIA

 


Premetto  che  pur  essendo   contro la matrernità  surrogata  ( utero  in affitto  come  la  chamano   molti dettratori   ed  oppositori di tale pratica  ) soprattutto  quando  essa sconfina   nel lucro e nella mercificazione  \  sfruttamento  ,  sono del parere  che  vada   , parlo soprattutto del nostro paese,regolamentata  come  lo  è stato per  l'aborto negli anni   70 , per  evitare     d'aggiungere  sofferenza   a  sofferenza   ed  si abbiano dei  casi dolorosi   come  quello  riportato  sotto  . Ma soprattutto   rendere   chiaro  cosa è permesso   e cosa  no in quanto  c'è  una ella  differenza tra  gravidanza  per altri   e maternità  surrogata \  utero  in affitto  , 


soprattutto  quando  essa sconfina   nel lucro e nella mercificazione  \  sfruttamento 
,  sono del parere  che  vada   , parlo soprattutto del nostro paese,regolamentata  come  lo  è stato per  l'aborto negli anni   70 , per  evitare     d'aggiungere  sofferenza   a  sofferenza   ed  si abbiano dei  casi dolorosi   come  quello  riportato  sotto  . Ma soprattutto   rendere   chiaro  cosa è permesso   e cosa  no in quanto  c'è  una ella  differenza tra  gravidanza  per altri   e maternità  surrogata \  utero  in affitto  , 

N.b
  Pongo sotto  questo post  dei link per tutti /e coloro  volessero farsi un idea o volessero ( o almeno provarci ) indiscussione la propria idea su tale argomento etico /morale


Figli di guerra e di madre ucraina: Emma ed Elia intrappolati a Tblisi

Elia ed Emma sono due gemellini nati a Tblisi, in Georgia, da una madre surrogata ucraina nel maggio scorso: oggi sono apolidi, senza diritti e “senza genitori”. Per una ragnatela di cavilli giudiziari, il tribunale georgiano si rifiuta di riconoscere la potestà dei due genitori italiani, Laura Z. ed Edoardo S., e
di rilasciare loro l’atto di nascita dei gemellini per farli rientrare in Italia. “Da maggio non sappiamo come lasciare questo Paese, ci sentiamo completamente abbandonati dalle autorità”. Quando racconta la sua storia – e la sua guerra – Laura, 35 anni, non cede mai alla disperazione: di battaglie ne ha combattute, fino a qui, già tante. Come in una matrioska dentro l’altra, si porta sulle spalle anni di lotte per diventare madre, a causa di una malattia invalidante. Per la procreazione assistita, le hanno detto che non c’era speranza. Per l’adozione, anche: per le sue condizioni di salute, “ha un’aspettativa di vita troppo bassa”. Invalida al 70%, insieme al marito Edoardo, 32 anni, decidono di ricorrere alla maternità surrogata in Ucraina. Nel 2020, durante la pandemia, si rivolgono alla società Gestlife – sede amministrativa in Spagna – che individua la madre naturale e la mette in contatto con loro. Costo: 80 mila euro. Circa un anno dopo, Marina, la ragazza ucraina, è incinta, ma quando scoppia la guerra è costretta a nascondersi nei bunker di Dnipro col suo figlio di 6 anni. “Per tutelarli abbiamo pagato per il loro trasferimento a Tblisi, l’agenzia ci aveva assicurato che la legislazione era identica a quella di Kiev”, racconta Laura. Ma non era vero: nell’approdo georgiano, i gemelli sono rimasti ingabbiati in un kafkiano processo che non riconosce ai minori di 4 mesi né patria, né genitori. “Kafkiano è pure l’atteggiamento delle autorità georgiane che non riconoscono il rapporto biologico tra i gemelli ed Edoardo, confermato dal test del Dna”, spiega l’avvocato della coppia, Giorgio Muccio. La maternità surrogata “è stata effettuata dai coniugi nel rispetto della legge ucraina, che prevede che la coppia sia sposata, che uno dei due fornisca materiale biologico, e che si faccia per ragioni sanitarie: la legge georgiana è identica, ma prevede che chi dona gli ovociti non sia anonimo, come invece accade in Ucraina”, continua Muccio.

Per colpa quindi di un codice – quello con cui è registrata la donatrice a Kiev, che invece per la Georgia deve essere identificata con nome e cognome – e per colpa della discrepanza tra sistemi legislativi, Tblisi non rilascia l’atto di nascita dei bambini. L’ambasciata italiana in Georgia “non ha potere sulle autorità georgiane” continua Muccio. I neonati, figli biologici di Edoardo, “per ius saguinis hanno diritto di rientrare in Italia. La Georgia sta violando la Convenzione europea dei diritti dell’uomo” conclude l’avvocato.

Dal 23 maggio scorso, quando i gemelli sono venuti al mondo prematuri, l’unica prova della loro esistenza è il documento provvisorio rilasciato dall’ospedale di Tblisi. Quindi non hanno cittadinanza né ufficialmente dei genitori, ma i servizi sociali georgiani gli hanno dato – nonostante non esistano certificati – il cognome di Edoardo. A Laura poi sono stati affidati “sulla fiducia”. Da quel giorno le lancette sono state sospese e la partenza verso l’italia è stata rinviata in un perenne presente di sacrifici in un Paese straniero. Durante l’ultima udienza, il giudice è stato pilatesco: “Ha analizzato il caso solo per riferire che lui non è la figura giusta per occualtro parsene. E quindi, ora?” racconta sbigottito Edoardo. Il loro avvocato ha proposto ai due ragazzi di rientrare in Italia “per far riconoscere la paternità dagli ufficiali italiani, nell’interesse superiore del minore, come prevede l’articolo 3 della Convezione dei diritti del fanciullo”.

In uno dei faldoni di uno degli uffici dell’anagrafe georgiana rimane il destino di Elia ed Emma, ma anche quello dei genitori. Dentro la voce di Laura rimangono invece mesi di giochi a nascondino a cui l’hanno sottoposta i tribunali georgiani e la Gestlife. Presto si troverà davanti a un bivio crudele: “Scegliere tra abbandonare i miei figli qui e tornare a casa per curarmi”. In Italia, dove hanno lasciato le loro vite sospese, hanno entrambi un lavoro: lei in aspettativa, lui invece a rischio licenziamento perché è in Georgia. Relegati nel cono d’ombra come tutti gli apolidi, intanto i gemelli non hanno diritti. Una sera Elia ha avuto difficoltà respiratorie, ma l’ospedale di Tblisi ha blindato i suoi reparti. “Ci hanno detto che senza atto di nascita o un documento che certifichi che noi siamo genitori i dottori nemmeno potevano guardarlo”.

A Lodi, nella stanza dei gemelli, culle e seggioloni sono già pronti per accoglierli. Da perniciosa, la situazione potrebbe diventare irreparabile. Rimane poco tempo: “Tra due mesi i bambini verranno considerati georgiani, potranno portarceli via”, dice Edoardo. A Tblisi, racconta, il cielo è sempre più grigio ed è già arrivato il freddo, quello che spirerà presto fino a quaggiù, nella patria lontana di Emma ed Elia.


approfondimenti 

  • invitra.it Gestazione surrogata o Utero in affitto: Definizione, Tipi ed indicazioni 
  • GPA: cos‘è e come funziona davvero - Elzevirus
  • Utero in affitto o Maternità Surrogata? L´importanza delle parole 
  • https://www.vanityfair.it/news/italia/16/02/27/cosa-e-utero-in-affitto



  • 16.2.22

    sul fine vita ha trionfato l'ipocrisia di stato

    Lo so che  «Il tema è complesso e forse bisognerebbe attendere le motivazioni integrali della Consulta prima di parlare »  come dice la mia amica Federica Raimondi . Ma  a   caldo  mi  è venuto    questo  commento  beati gli ignavi che hanno deciso di non concedere a chi soffre di morire con dignità loro si che hanno i soldi per poterlo fare ed andare in svizzera .  Quindi   non riuscendo  a trovare   altra  risposta   una  risposta   , e    volendo  sentire  altri  pareri  ho condiviso   da un  gruppo di facebook   quella  slide  


    e mentre    aspettavo  le  vostre  risposte    ho letto questo interessante  articolo  di  MARTA PETTOLINO   su    https://www.thesocialpost.it/  del 16 FEBBRAIO 2022, 10:24

    Cosa vuol dire “vita” quando nasconde la violazione del diritto all’autodeterminazione e alla dignità

    C’è da chiedersi cos'è la vita per la Corte costituzionale. E soprattutto perché perpetuare nella sofferenza
    irreversibile significa tutelare una persona togliendole anche la dignità di se stesso
    Ti sei mai chiesto come ti sentiresti chiuso in gabbia? O peggio ancora incatenato e chiuso in gabbia? Senza avere nessuna possibilità di cambiare la situazione se non convivere ora dopo ora, giorno dopo giorno, con il tuo aguzzino nell’impossibilità di abbandonare una sofferenza insopportabile?
    Mi auguro di no. Pensaci adesso: cosa proveresti ad essere totalmente paralizzato e a poter muovere solo gli occhi? Oppure poco altro. Cosa proveresti a pensare che domani mattina, all’improvviso, ti svegliassi in un corpo che non è più il tuo. Cosa proveresti a non avere una via d’uscita.
    Eutanasia legale: quando non si ha via d’uscita
    Eppure alla via d’uscita siamo stati molto vicini, ma la Corte Costituzionale ha sentenziato che dare agli italiani la possibilità di scegliere la legge sul proprio fine vita è inammissibile.
    La Corte ritiene che il referendum non preserverebbe la tutela minima della vita “in particolare delle persone deboli e vulnerabili”.
    Oltre 1 M I L I O N E 200 e 40 persone si sono recate ai banchetti per la strada per informarsi e firmare la petizione al referendum. Più di milione di persone che vengono ignorate, a cui viene negato il diritto di votare per il proprio futuro.
    L’autodeterminazione che ci rende unici come specie viene sepolta da falsi bigottismi e i diritti ancora calpestati.
    Referendum eutanasia: cosa prevedeva
    La richiesta era quella di abrogare l’art. 579 del codice penale e quindi abolire il reato di omicidio, punito da 6 a 15 anni, per chi aiuta a morire una persona, con il consenso della stessa, in condizioni di sofferenza insopportabile e irreversibilità della patologia. Mantenendo però le disposizioni relative all’omicidio, contenute nell’articolo originario come aggravanti, se il fatto è commesso:
    Contro una persona minorenne;
    Contro una persona inferma di mente, o che si trova in condizioni di deficienza psichica, per un’altra infermità o per l’abuso di sostanze alcooliche o stupefacenti;
    Contro una persona il cui consenso sia stato dal colpevole estorto con violenza, minaccia o suggestione, ovvero carpito con inganno.
    L’eutanasia non è un suicidio, ma è la libertà di non soffrire più in determinate condizioni
    Per rientrare in un caso di eutanasia ci sono delle regole, non è, come spesso sento dire da non informati e sostenitori della libertà di espressione ad ogni costo, una legalizzazione del suicidio, parola inserita anche dal nostro codice penale, che andrebbe riformato anche sul linguaggio.
    La società cambia, il linguaggio pure, il codice penale a quanto pare no.
    Le regole che ci dice Marco Cappato, politico italiano e tesoriere dell’associazione Luca Coscioni, promotrice della raccolta firme per il referendum sono:
    quella della sofferenza insopportabile
    quella della malattia irreversibile
    e quella della volontà esplicita della persona
    E non vada invece inclusa la quarta condizione che è quella di essere tenuti in vita da trattamenti di sostegno vitali. Io penso che non debba essere necessario essere tenuti in vita da trattamenti di sostegno vitale per ottenere il diritto a morire.
    Ma la Corte ritiene che il referendum non preserverebbe la tutela minima della vita “in particolare delle persone deboli e vulnerabili”. C’è da chiedersi fino a che punto bisogna tutelare non la vita ma le funzioni vitali, non più autonome, ma garantite da apparecchiature mediche, nelle condizioni in ci non esiste la speranza di un miglioramento e l’unica certezza è la sofferenza insopportabile. C’è da chiedersi allora cosa significa la vita per la Corte. E soprattutto perché si pensa che perpetuare nella sofferenza significhi tutelare una persona togliendole la dignità della sua volontà.
    Ho visto da vicino che cosa è capace di fare la strada e invito i membri della Corte a farsi un giro negli ospedali, dove ci sono i pazienti con gravi traumi cranici acquisiti con danni irreversibili, li invito ad andare a trovare le persone che hanno chiesto l’eutanasia e li invito ad accompagnarle in altri Paesi per porre fine alle loro sofferenze. Paesi che sono capaci di ascoltare e di tutelare la vita senza aggrapparsi a false ideologie, che non dovrebbero essere parte di uno stato laico e democratico. Valori che ci hanno raccontato essere importanti anche per il nostro di Paese, stesso Paese che poi impedisce a noi, ormai sudditi, di votare per la nostra vita.

    22.2.20

    ecco perchè anche se sono contro l'esibizionismo e un po' freddo sui gay pride non riesco ad essere omofobo




    da  https://www.ilmattino.it/caserta/ sabato 22 Febbraio 2020 
    «Io, gay non dichiarato, vittima della gang: ma non denuncio per paura, ho una moglie»

                                    di Mary Liguori
    Risultato immagini per gay non dichiarato«Da anni frequento le chat di incontri, ho un nickname, ogni volta che vado a un incontro temo di trovarmi di fronte qualcuno che conosco, ma poi ci penso: non corro alcun pericolo, in fondo abbiamo lo stesso segreto. Siamo omosessuali non dichiarati, con moglie e figli e una vita apparente da etero. È un segreto in comune, nessuno lo svelerebbe a rischio di essere a sua volta scoperto, ma dopo l’aggressione ho temuto che il mio castello di sabbia crollasse di colpo. Per questo ho preferito non denunciare. Mi avrebbero chiesto cosa ci facevo all’incontro, perché avevo un appuntamento con quel ragazzo che neanche sapevo che fosse minorenne, ovviamente. Mi avrebbero fatto delle domande alle quali avrei dovuto rispondere, poi ci sarebbe stato un processo e io avrei dovuto dire a tutti, alla mia famiglia, chi sono veramente». Giuseppe potrebbe essere una delle vittime della babygang sgominata ieri, lo hanno sequestrato e picchiato un anno fa, dopo che aveva preso un appuntamento in chat con un ragazzo che credeva essere gay. Ci ha contattati dopo che la notizia dell’arresto dei tre aggressori minorenni è stata divulgata ieri dai siti di informazione on line. 

    Cosa le fa pensare che i ragazzini arrestati ieri a Caserta siano gli stessi che hanno aggredito lei?
    «Quelle persone sono state adescate e assalite con le stesse modalità usate nei miei confronti. Avevo preso appuntamento con un uomo che diceva in chat di avere la mia stessa età. Ci accordammo per incontrarci in una zona isolata di Marcianise. Quando arrivai lì, inizialmente vidi solo un ragazzo. Solo dopo mi accorsi che erano in tre, ma era già troppo tardi. Fu un attimo: mi presero a schiaffi e pugni, mi chiusero in macchina e mi costrinsero a tirare il portafogli. Avevo solo 80 euro e nessuna carta di credito. Presero il denaro e fuggirono». 

    Perché non li ha mai denunciati? Avrebbe potuto fermarli prima...
    «Fa rabbia trovarsi in balia di tre ragazzini che sembrano bestie, fa rabbia non poter reagire, ma la paura più grande è quella che da sempre accompagna la mia vita. Sono un omosessuale non dichiarato con famiglia. Ho moglie e figli. Nessuno, neanche i miei più cari amici, conoscono la mia vera natura. Se tutto ciò saltasse fuori, la mia vita sarebbe distrutta. So che se fossero gli stessi ragazzini avrei potuto fermarli prima, se sono gli stessi mi sento responsabile per quanto è accaduto a quelle persone. Ma se anche tornassi indietro, farei la stessa scelta. Ho cinquant’anni, figli adolescenti, una moglie alla quale voglio bene. Ho scelto di non complicarmi la vita: trent’anni fa dire a tutti di essere gay, in un paese piccolo come quello in cui vivo, era ancora una condanna. Su questo sì, però, ho dei rimpianti: avrei dovuto tirar tutto fuori sin da subito, invece adesso la mia vita è un castello di bugie»

    12.2.15

    Viene stuprata e dà la bimba in adozione Madre e figlia si incontrano dopo 35 anni

    Questa  è l'ultima storia  per  oggi . Lo so che molti  (  soprattutto le  ragazze  ) mi dicono ma non è  che stai diventando    romantico  come noi  ?  . No sto diventando vecchio . E poiessendo cresciuto  con le nonne   e prozie    che  leggevano  e guardavano le telenovele .certe cose   mi appassionano  , se ben raccontante  .

    Ma  qui  non si tratta  solo  dis torie  da  romanzo rosa  , ma  storie  di sofferenza  e  magari sìdi sensi di colpa  .




    Viene stuprata e dà la bimba in adozione
    Madre e figlia si incontrano dopo 35 anni

                                  le  due protagoniste  


    La storia di Kathy Anderson commuove gli Stati Uniti.
    Quando aveva solo 15 anni era stata stuprata da un amico di famiglia. Una violenza in seguito alla quale era rimasta incinta. Non volendo abortire, decise dunque di dare in adozione la bimba che portava in grembo. Dopo 35 anni, ha potuto riabbracciarla. Commuove gli Stati Uniti la storia di Kathy Anderson, che oggi ha 50 anni e si è rifatta una vita in Texas, sposandosi e mettendo al mondo altre due figlie. "Per anni mi sono domandata che fine avesse fatto quella bimba, che avevo deciso di chiamare come me e che avevo dato alla luce in segreto, anche all'insaputa dei miei genitori, cui non ero riuscita a confessare la violenza che avevo subito". E piano piano la curiosità si è trasformata in una sorta di bisogno, di rincontrare quella piccola creatura da cui era stata costretta a separarsi. Finché un giorno, Kathy si è imbattuta in un sito web, specializzato proprio nel riunire amici e congiunti che la vita ha allontanato. E dopo alcune ricerche i "cacciatori di parenti" sono riusciti a risalire a Kathy junior, residente in Arizona e anch'essa desiderosa da sempre di conoscere chi l'avesse messa al mondo. Mamma e figlia hanno così potuto ritrovarsi. "Abbiamo legato immediatamente – hanno raccontato dopo l'incontro - ed è come se non ci fossimo mai separate. Adesso viviamo assieme e vedo le mie sorelle spesso. È bellissimo. Stiamo cercando di costruire ricordi, di recuperare il tempo perduto".

    10.12.13

    Giuseppe Vinci l'ex ostaggio libero fra 10 anni più precisamente nel 2013



    unione sarda del 9\12\2013


    Davanti a quel furgone fermo al centro della carreggiata, l'automobilista pensa a un incidente stradale. Schiaccia disperatamente il pedale dei freni, ma l'Audi 80 rossa finisce contro l'ostacolo improvviso. Una Golf bianca arriva alle spalle a chiudere ogni via di fuga. Dal camioncino tamponato sbucano due figuri in tuta mimetica, mascherati e armati. Altri tre complici si materializzano nel buio: la reazione si riduce a un pugno che però riceve come risposta un colpo in piena faccia sfrerrato con il calcio di un fucile. Inizia così, la sera di un venerdì maledetto, alle 20 del 9 dicembre 1994, il rapimento più lungo nella storia sarda. Giuseppe Vinci, 31 anni, è uno dei 14 nipoti di Daniele Vinci, maestro casaro che, trasferitosi a Macomer intorno al 1930, è partito da un negozietto di frutta e verdura per diventare nel giro di qualche decennio titolare di un gruppo leader nella distribuzione alimentare. Giuseppe (figlio di Lucio Vinci che con Venerando e gli eredi di altri due fratelli morti porta avanti la società), si occupa del supermarket di Santa Giusta, in provincia di Oristano, da dove sta rientrando il giorno del rapimento. Diplomato al Conservatorio e appassionato di musica classica, ricomparirà il 16 ottobre 1995



    gruppo leader nella distribuzione alimentare. Giuseppe (figlio di Lucio Vinci che con Venerando e gli eredi di altri due fratelli morti porta avanti la società), si occupa del supermarket di Santa Giusta, in provincia di Oristano, da dove sta rientrando il giorno del rapimento. Diplomato al Conservatorio e appassionato di musica classica, ricomparirà il 16 ottobre 1995, dopo dieci mesi trascorsi con le cuffie alle orecchie e la musica di un mangianastri trasformata in rumore ad alto volume per impedire di captare gli altri suoni. Quasi 450 mila minuti da contare e ricordare uno per uno. Vissuti al buio, con quel cappuccio calato in testa, sorretto solo dalla speranza di riabbracciare il figlioletto di pochi mesi e la moglie Sharon Poletti, coraggiosissima, che tra l'altro fa commuovere tutta la Sardegna quando da Radio Barbagia apre la non stop di 24 ore contro i sequestri dedicando al marito la loro canzone, Margherita , di Riccardo Cocciante. Ricompare a Tortolì. Lo lasciano andare nei monti di Talana e lui sale su un pullman di linea: rilasciato ma non libero. Perché Giuseppe, come ha detto tante volte, oggi è ancora prigioniero: sarà libero e liberato solo nel 2023, quando i Vinci pagheranno le ultime rate dei due mutui concessi dalle banche per limitare gli effetti del tracollo commerciale conseguente all'esborso, in un unica soluzione di quattro miliardi e 250 milioni di lire, oltre due milioni e 200 mila euro di oggi. Una montagna di banconote, contenute in due sacchi di juta e un borsone, lasciati cadere da Lucio Vinci, il 9 ottobre del 1995 da un terrapieno al centro di Nuoro. Operazione-thrilling perché il padre dell'ostaggio teme soprattutto polizia e carabinieri: lo stesso Stato che tratta (e paga) per liberare i rapiti nelle zone di guerra, dal 1991 impone per legge il blocco dei beni dei sequestrati e dei loro familiari. I Vinci riescono a aggirare il divieto con gli incassi dei supermercati (un miliardo di lire), tremila milioni arrivano dal Consorzio di acquisto che anticipa i premi di produzione, il rimanente viene anticipato da amici. Ma i banditi, per evitare fatica e spese per il riciclaggio, ottengono l'impegno (che se non onorato sarebbe stato pagato con la vita da alcuni garanti), a non comunicare agli inquirenti i numeri di serie delle banconote: per essere sicuri di sfuggire ai controlli, oltre dodici milioni e mezzo di bigliettoni da centomila lire sarebbero stati cambiati almeno tre volte. «Il dopo del dopo è peggio del dopo», si legge nel libro Il prezzo de riscatto: storia di una famiglia, dal purgatorio all'inferno , scritto da Lucio Vinci per ricostruire la drammatica vicenda. E denunciare altri pessimi dopo: lo Stato pretende il pagamento di 718.549,07 euro perché i riscatti non si possono detrarre dagli utili, mentre oltre un milione e mezzo di euro vanno in interessi passivi alle banche. Alla fine il sequestro, sommando proprio dopo a dopo , è venuto a costare ai Vinci almeno quattro milioni e mezzo di euro. Nel 2004, a dimostrare che non è la povertà a provocare i rapimenti ma i rapimenti a generare povertà, il salvataggio a caro prezzo si conclude con la cessione a una catena nazionale di un Gruppo (11 supermarket e il grandecentro di distribuzione di Macomer) che dal 1991 nella grande distribuzione - conteggi di Lucio Vinci - aveva liquidato oltre 100 miliardi di lire in stipendi, contributi previdenziali, tasse e interessi bancari. Oggi Giuseppe Vinci gestisce un ristorante di successo, Sa Piola , nel quartiere di Stampace a Cagliari. Vorrebbe essere dimenticato, ma è prigioniero dei suoi ricordi. Almeno fino al 2023.




    Michele Tatti.




    Il sequestro di persona già angosciante di per se , ha delle conseguenze anche dopo , soprattutto a causa della legge del 1991 un intermediario diventa fiancheggiatore . Infatti
    (...)
    Giuseppe Vinci, ex sequestrato, non uno tra tanti, ma l’ex sequestrato, racconta : «È stato troppo, un massacro per il mio cervello, ne sono uscito a pezzi. Ero infuriato con i miei per averlo permesso. Sono stato in analisi, ma non mi è servito: due volte la settimana mi sdraiavo su un lettino e non riuscivo a dire a niente. Qualche volta ho avuto a che fare con gli psichiatri. Per due anni non ho dormito. Purtroppo sono un ex sequestrato e lo rimarrò per sempre». Vinci è il sequestro più lungo della storia dell’anonima e di certo uno dei più sofferti.
    Non parla spesso Giuseppe, ma nella sua ultima intervista racconta un particolare scioccante: a Macomer, il liceo dove studia il figlio ha invitato ad un’assemblea un bandito, uno dei principi dell’Anomima Sequestri: Graziano Mesina. E’ stato troppo per il figlio di Giuseppe che se ne è andato dall’aula magna. (,,,)
    da http://mediterranews.org/2012/01/lanonima-sequestri-ha-distrutto-i-vinci-che-ancora-estinguono-i-debiti-del-sequestro/

    emergenza femminicidi non basta una legge che aumenti le pene ma serve una campaga educativa altrimenti è come svuotare il mare con un secchiello

    Apro l'email  e tovo  queste  "lettere "   di  alcuni haters  \odiatori  ,  tralasciando  gli  insulti  e le  solite  litanie ...