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25.10.16

Razzismo, la redenzione di Derek Black dopo l'odio Il figlio dell'ex capo del Kkk ha voltato pagina.e vota per H.Clinton

come  una  persona   può cambiare  con la  conoscenza  dell'altro  e il  dialogo \  confronto . La  storia  di  Derek Black


figlio di  Stephen Donald Black più noto come Don Black (Athens, 28 luglio 1953) è un politico statunitense, tra gli esponenti di spicco del nazionalismo e suprematismo bianco
Ex-leader del Ku Klux Klan ed ex-membro del Partito Nazista Americano, nel 1981 è stato condannato per aver pianificato un colpo di stato in Dominica in violazione del Neutrality Act statunitense. È noto per essere il fondatore del sito internet a sfondo razzista Stormfront, definito il più grande sito d'odio presente in internet[7] e finito anche sotto inchiesta da parte della magistratura italiana.(  continua  qui  su wikipedia  ulteriori nees  sul padre  e su  di  lui  le  trovate  nel  secondo   articolo a  cura   di Mario Calabresi   sull' inserto domenicale  di repubblica  del   23\10\21016   )
Mi ricorda me   quando  ero adolescente   vicio   al becero nazionalismo   e  alla becera destra ovviamente senza generalizzare perchè : 1) il razzismo , l'antisemitismo , la xenofobia - vedere questi commenti sul mio fb a favore delle barricate del ferrarese contro i profughi  - l'omo e la trans fobia non hanno soprattutto dal 1989\92 colore ideologico \ culturale., 2  )  per esperienza   ho conosciuto   e    conosco  tutt'ora  a  destra  , anche  se  si contano  purtroppo  sulle  punte  delle mani  ,   gente  aperta  ed  intelligente  pronta  all'autocritica  come   la  storia      che mi  accingo a riportare


  Sempre  dallo  stesso  inserto  

                    di     Eli saslow
.
IL  loro  convegno  era  stato interrotto da una marcia di protesta e da un allarme bomba, perciò avevano deciso di riunirsi in segreto. All’insaputa di poliziotti e manifestanti, i nazionalisti bianchi si incontrarono in un albergo del centro di Memphis. Pochi giorni prima il Paese aveva eletto per la prima volta un presidente nero e ora, nel novembre del 2008, decine tra i razzisti più noti a livello



mondiale erano decisi a elaborare una strategia per gli anni a venire. “La battaglia per ripristinare un’America bianca comincia ora”, recitava il loro programma. La stanza era gremita da ex capi del Ku Klux Klan e neonazisti di primo piano, ma uno degli interventi di apertura era stato riservato a un ragazzo della Florida, uno studente universitario che aveva appena compiuto diciannove anni. Derek Black aveva già un suo programma radiofonico, gestiva un sito per bambini dedicato al nazionalismo bianco e aveva vinto un’elezione locale. L’organizzatore lo presentò come «la stella del nostro movimento», poi Derek si avvicinò al leggìo. «La strada da percorrere è la politica», disse. «Possiamo infiltrarci. Possiamo riprenderci il Paese».
"Anni  prima  che  Donald  Trump  lanciasse una campagna presidenziale basata, fra le altre cose, sulla politica della razza, un gruppo di nazionalisti bianchi dichiarati lavorava per rendere possibile la sua ascesa allontanando la propria ideologia dal settarismo radicale e avvicinandola sempre più all’estrema destra dello schieramento conservatore. Molti dei presenti in quell’albergo di Memphis si
 All’inizio all’università non sapevano nulla di lui, e Derek cercava di fare in modo che continuasse a essere così. Andò a un incontro introduttivo sul tema delle diversità organizzato dall’ateneo e ne concluse che il modo più sicuro per farsi ostracizzare là dentro era dichiararsi un razzista. Decise di non menzionare il nazionalismo bianco nel campus, almeno finché non si fosse fatto qualche amico. Le cose che prima lo facevano passare per uno strambo — i capelli
Alcuni  membri del gruppo che  si  riuniva  per lo Shabbat iniziarono a chiedere a Derek le sue opinioni e lui le chiarì a voce o per email. Disse che nei confronti dell’aborto era favorevole all’autonomia di scelta delle donne, era contro la pena di morte, non credeva nella violenza o nel KKK o nel nazismo e nemmeno nella supremazia bianca che era un concetto diverso dal nazionalismo bianco. In una email scrisse che la sua unica preoccupazione era che “l’immigrazione di massa e l’integrazione forzata” potessero sfociare in un genocidio bianco. Disse di credere nei diritti di tutte le razze, pur ritenendo che ciascuna razza avrebbe vissuto meglio nella sua terra d’origine. Poi all’inizio del suo ultimo anno al New College decise, una volta per tutte, di rispondere sul forum. Si sedette a un bar e iniziò a scrivere il suo post. «Mi è stato fatto notare che la gente potrebbe sentirsi impaurita a causa di ciò che è stato detto su di me. Vorrei cercare di dare una risposta ufficiale a queste preoccupazioni, in quanto non hanno motivo d’essere. Io non sono favorevole all’oppressione di nessuno per questioni legate alla sua razza, i suoi principi, la sua religione, il suo genere, il suo ceto socio-economico o altre cose di questo tipo». Il post sul forum, che avrebbe dovuto restare all’interno del college, fu fatto arrivare al Southern Poverty Law Center (Splc), che su Derek e altri leader razzisti teneva un file pubblico e che reagì scrivendo direttamente a Derek, chiedendogli spiegazioni. Stava forse sconfessando il nazionalismo bianco? «Le tue opinioni adesso divergono parecchio da quello che pensavano molte persone» diceva la mail. Derek ricevette il messaggio mentre si trovava in Europa per le vacanze invernali. Alloggiava da Duke, che aveva iniziato a mandare in onda il suo show radiofonico da una regione europea nella quale c’erano leggi particolarmente indulgenti nei confronti della libertà di espressione. Derek rispose al Splc dal divano a casa di Duke: «Tutto ciò che ho detto (sul forum) è vero» scrisse. «Credo anche nel nazionalismo bianco. Il mio post e la mia ideologia razziale non sono concetti che si escludono a vicenda».
erano trasformati da incappucciati del Klan a suprematisti bianchi e poi a “realisti razziali”, come si autodefinivano, e Derek Black rappresentava un altro passo in quell’evoluzione. Non usava mai epiteti razziali offensivi. Non propugnava atti di violenza o violazioni della legge. Aveva conquistato un seggio nel comitato locale del Partito repubblicano della contea di Palm Beach, Florida, dove Trump stesso aveva una casa, senza mai menzionare il nazionalismo bianco e parlando invece dei disastri prodotti dall’ideologia del politicamente corretto, dalle politiche di discriminazione positiva e dall’immigrazione incontrollata di Latinos . Black non era solo un leader del razzismo politico, era anche un suo prodotto. Il padre, Don Black, aveva creato stormfront primo e principale sito del nazionalismo bianco, con oltre trecentomila utenti. Sua madre, Chloe, era stata sposata con David Duke, uno dei più famigerati fanatici razziali statunitensi, e Duke era stato il padrino di Derek, tanto che alcuni nazionalisti bianchi avevano preso a chiamarlo “l’erede”. Ora Derek parlava a Memphis del futuro della loro ideologia. «Quello che voglio è che i Repubblicani si approprino del ruolo di Partito bianco». Qualcuno cominciò a battere le mani, e dopo non molto tutti applaudirono. Erano convinti che il nazionalismo bianco stesse per mettere in moto una rivoluzione. Erano convinti che Derek avrebbe contribuito a guidarla. «Tra alcuni anni ripenseremo a questo giorno», disse. «La grande battaglia intellettuale per salvare il popolo bianco è cominciata oggi». * Otto anni dopo, con le presidenziali del 2016, quel futuro immaginato a Memphis si stava infine concretizzando: Donald Trump ritwittava i messaggi dei suprematisti, Hillary Clinton teneva discorsi sull’ascesa dell’odio bianco menzionando David Duke, che aveva lanciato la sua campagna per un seggio in Senato. Il nazionalismo bianco era riuscito a occupare il centro della politica, ma una delle persone che meglio conoscevano quell’ideologia ora era lontanissima da quel centro. Derek aveva appena compiuto ventisette anni e invece di guidare il movimento stava cercando di tirarsi fuori non solo da quello, ma anche da una vita che non riusciva più a capire. Fin dall’inizio gli avevano insegnato che l’America era un luogo riservato agli europei bianchi e che tutti gli altri prima o poi avrebbero dovuto andarsene. Gli avevano detto di diffidare delle altre razze, del Governo federale, dell’acqua di rubinetto e della cultura pop. I suoi genitori lo avevano ritirato dalla scuola pubblica alla fine della terza elementare, quando avevano sentito il suo insegnante nero dire BJO U (forma negativa generica usata nel gergo afroamericano, OES). Derek era uno dei pochi studenti bianchi in una classe prevalentemente di ispanici e haitiani e i suoi genitori decisero che era meglio farlo studiare a casa. «Ora non subisco più aggressioni da bande di altre razze», scrisse poco tempo dopo, sulla versione per bambini del sito di , che aveva realizzato a dieci anni. «Sto imparando a essere fiero di me stesso, della mia famiglia e del mio popolo». Adesso che studiava a casa, era anche libero di cominciare a viaggiare con suo padre, che per diverse settimane all’anno andava nel profondo Sud per partecipare a convegni di nazionalisti bianchi. Don Black era cresciuto in Alabama e negli anni Settanta si era unito a un gruppo locale chiamato White Youth Alliance, guidato da David Duke, all’epoca sposato con Chloe. Il matrimonio finì e qualche anno dopo Don e Chloe si rincontrarono, si sposarono e nel 1989 ebbero Derek. Si trasferirono nella casa dove Chloe era cresciuta a a West Palm Beach. C’erano degli immigrati guatemaltechi che vivevano in fondo all’isolato e dei pensionati ebrei che si erano trasferiti in un condominio lì vicino. «Usurpatori», li definiva a volte Don. Durante i loro viaggi Don e Derek dormivano sempre da amici del movimento, e Derek ascoltava le loro storie. Di quella volta che a suo padre, all’epoca sedicenne, avevano sparato nel petto mentre lavorava per una campagna segregazionista in Georgia. Di quel giorno in cui lui e altri otto volevano salire su una nave carichi di dinamite, armi automatiche e una bandiera nazista: il loro piano, chiamato “Operazione Cane Rosso”, era impadronirsi del minuscolo Stato caraibico di Dominica, ma Don era stato scoperto, arrestato e condannato a tre anni di carcere. In prigione aveva imparato un po’ di computer e alla fine, nel 1995, aveva lanciato il  stormfront con il motto: “White Pride World Wide” . Negli anni, il sito cominciò ad attirare estremisti di ogni genere: skinhead, miliziani, terroristi e negazionisti. Secondo il Southern Poverty Law Center, organizzazione che monitora i gruppi estremisti, alcuni di quelli che scrivevano post su stormfront  erano passati all’azione commettendo reati, anche omicidi. Nel 2008 Don mise al bando epiteti offensivi, simboli nazisti e minacce di violenza, e Derek rafforzò il rapporto con suo padre diventando il suo più grande alleato ideologico. Cominciò a essere intervistato sull’incitamento all’odio, dalla tv per bambini Nickeloden da talk show di fascia diurna, dalla  e Hbo  e Usa  Today . «Il bambino diabolico», lo definiva a volte Don, con orgoglio e affetto. Cominciava a vedere qualcosa di diverso quando guardava suo figlio: non semplicemente un bambino nato all’interno del movimento, ma un leader emergente. Don aspettava da quarant’anni un risveglio razziale dei bianchi americani e ora cominciava a pensare che quell’adolescente che viveva in casa sua avrebbe potuto fare da catalizzatore. «Aveva tutte le mie qualità senza nessuno dei miei difetti», disse in seguito. Derek lanciò un programma radiofonico quotidiano. Attraverso la radio, contribuì a diffondere l’idea che era in atto un genocidio bianco, che i bianchi stavano perdendo la loro cultura e le loro tradizioni di fronte all’immigrazione di massa di individui di altre razze. Poi finì le superiori, si iscrisse a un community college e si candidò per un seggio nel comitato del Partito repubblicano della contea, battendo il consigliere uscente con il sessanta per cento dei voti. Quindi decise che voleva studiare storia europea medievale e fece domanda per il New College of Florida, una prestigiosa università con un corso di storia rinomato. «Noi vogliamo che tu faccia la storia, non che ti limiti a studiarla», gli ricordavano ogni tanto Don e Chloe. Il New College era una delle università più a sinistra di tutto lo Stato — «piena di canne e di omosessuali», spiegava Don in radio — e nel movimento c’era chi guardava con perplessità a quella scelta. Una volta, in trasmissione, un amico chiese a Don se non fosse preoccupato all’idea di mandare suo figlio in un «focolaio del multiculturalismo», e Don cominciò a ridere. «Se ci sarà qualcuno che verrà influenzato, saranno loro», disse. «Presto tutto il corpo docente e gli studenti sapranno chi c’è in mezzo a loro».

rossi lunghi fino alle spalle, il cappello da cowboy che portava sempre, la passione per le rievocazioni medievali — si incastravano perfettamente con il New College, dove le stramberie erano moneta corrente fra gli ottocento studenti. Forse erano “usurpatori”, come diceva suo padre, ma Derek li trovava anche piuttosto simpatici, e pian piano passò dal non parlare delle sue convinzioni all’impegnarsi attivamente per nasconderle. Quando un altro studente disse che aveva letto un articolo sulle implicazioni razziste del il  signore  degli anelli   J in un sito chiamato stormfrnmt .
 Derek fece finta di non averne mai sentito parlare. Nel frattempo, quasi tutte le mattine dei giorni feriali usciva dal campus e teneva via telefono il suo show alla radio. Diceva agli amici che erano telefonate che regolarmente faceva ai genitori. Dopo un semestre andò a studiare all’estero, in Germania, perché voleva imparare la lingua. Rimase in contatto con il New College anche attraverso un forum online riservato agli studenti. Una sera di aprile del 2011, notò un messaggio che era stato inviato a tutti gli studenti all’1.56. Era stato scritto da uno studente dell’ultimo anno che, facendo una ricerca sui gruppi terroristici, era incappato in un volto noto. «Avete visto quest’uomo?», recitava il messaggio, e sotto quelle parole c’era una foto inconfondibile. I capelli rossi. Il cappello da cowboy. «Derek Black: suprematista bianco, conduttore radiofonico… studente del New College???», c’era scritto nel messaggio. «Come deve reagire la nostra comunità?». Quando Derek fece ritorno al campus per il nuovo semestre, quel post aveva ricevuto più di mille risposte. Chiese il permesso di vivere al di fuori dello studentato e affittò una stanza a qualche chilometro di distanza. Alcuni dei suoi amici dell’anno precedente gli scrissero via email per dirgli che si sentivano traditi ma, per la maggior parte, gli altri studenti lo fissavano o lo ignoravano, anche se sul forum si continuava a parlare di lui. «Forse sta cercando di tirarsi fuori da una vita che non ha scelto». «Lui sceglie di essere un personaggio pubblico razzista. Noi scegliamo di chiamarlo razzista in pubblico». «Vorrei solamente che questo tizio morisse di una morte dolorosa, insieme a tutta la sua famiglia. È chiedere troppo?». Invece di rispondere, Derek leggeva il forum e lo usava come motivazione per organizzare un convegno di nazionalisti bianchi nell’est del Tennessee. «Vincere argomentando: tattiche verbali per chiunque sia bianco e normale», aveva scritto nell’invito. Un altro studente del New College era venuto a sapere del convegno e ne pubblicò i particolari sul forum, dove pian piano stava emergendo un nuovo approccio. «Ostracizzare Derek non servirà a niente», scriveva uno studente. «Abbiamo l’occasione di influenzare uno dei leader del suprematismo bianco in America». «Chi è abbastanza intelligente da pensare a qualcosa che potremmo fare per far cambiare idea a questo tizio?». Una delle persone che Derek aveva frequentato nel primo trimestre ebbe un’idea. Cominciò a leggere stormfront e ad ascoltare lo show radiofonico di Derek. Poi, alla fine di settembre, gli inviò un sms. «Sei libero venerdì sera?».Matthew Stevenson aveva cominciato a organizzare ogni settimana cene per lo Shabbat nel suo appartamento all’interno del campus. Era l’unico ebreo ortodosso in un ateneo dove le infrastrutture per ebrei scarseggiavano, perciò cominciò a cucinare per un gruppetto di studenti nel suo appartamento tutti i venerdì sera. I suoi ospiti erano per lo più cristiani, atei, neri, ispanici, chiunque fosse abbastanza aperto di mente da non avere problemi ad ascoltare qualche benedizione in ebraico. Ora, nell’autunno del 2011, aveva invitato Derek a unirsi a loro. Matthew, che portava quasi sempre la kippah, aveva una lunga frequentazione con l’antisemitismo, abbastanza da conoscere bene il KKK, David Duke e stormfront . Si rimise a leggere alcuni dei messaggi pubblicati da Derek sul sito dal 2007 al 2008: «Gli ebrei NON sono bianchi»; «Gli ebrei si insinuano furtivamente nelle posizioni di potere per controllare la nostra società»; «Se ne devono andare». Matthew decise che il modo migliore per provare a influenzare le idee di Derek non era ignorarlo o affrontarlo, ma semplicemente coinvolgerlo. «Forse non ha mai passato del tempo con un ebreo prima d’ora», ricorda di aver pensato. Era la prima volta che Derek riceveva un invito da quando era tornato nel campus, perciò accettò. Alle cene per lo Shabbat di Matthew in certi casi c’erano otto o anche dieci studenti, ma questa volta furono in pochi a presentarsi. «Trattiamolo come chiunque altro», raccomandò Matthew agli altri invitati. Derek si presentò con una bottiglia di vino. Per riguardo nei confronti di Matthew, nessuno fece allusioni al nazionalismo bianco o al forum. Derek era tranquillo e cordiale. Tornò la settimana dopo e quella dopo ancora fino a quando, dopo alcuni mesi, nessuno si sentì più minacciato. Nelle rare occasioni durante le quali era Derek a guidare la conversazione, si parlava di grammatica araba, o di sport acquatici, o delle radici del cristianesimo in epoca medievale. Derek dava l’immagine di persona brillante e desiderosa di sapere. Chiese a Matthew che cosa ne pensasse di Israele e della Palestina. Entrambi diffidavano ancora l’uno dell’altro: Derek si chiedeva se Matthew non stesse cercando di farlo ubriacare per spingerlo a dire qualcosa di offensivo che sarebbe stato riportato sul forum, e Matthew si chiedeva se Derek non stesse cercando di coltivare l’amicizia di un ebreo per mettersi al riparo da eventuali accuse di antisemitismo. In ogni caso, i due si presero in simpatia e iniziarono a giocare a biliardo in un bar nei pressi del campus. "

In verità, Derek era sempre più confuso in relazione a ciò in cui credeva. Smise di postare interventi su stormfront  Iniziò a inventare scuse per non curare più la sua trasmissione radiofonica: si stava preparando per un esame; stava facendo passare le pene dell’inferno ai suoi professori liberal. Aveva sempre basato le proprie opinioni sui fatti, ma negli ultimi tempi la sua logica era stata smantellata dalle email dei suoi amici del gruppo dello Shabbat. Riceveva da loro link a studi secondo i quali le disparità di quoziente intellettivo tra le razze potevano essere spiegate da circostanze attenuanti, come l’alimentazione prenatale e le opportunità di studio. Lesse articoli sul privilegio bianco e sulla sleale rappresentazione delle minoranze nei telegiornali. Un amico gli scrisse per email: «Il genocidio contro i bianchi è un concetto ingiurioso e umiliante nei confronti dei veri genocidi contro gli ebrei, i ruandesi, gli armeni». «Non odio nessuno per la sua razza o la sua religione» chiarì Derek sul forum. «Non sono un suprematista bianco. Credo che nessun popolo di nessuna razza, religione o altro avrebbe dovuto abbandonare la propria terra o essere segregato o perdere le sue libertà». «Derek», gli rispose un amico, «mi sembra che tu sia il rappresentante di un movimento nel quale tu stesso non credi più di tanto». Durante il suo ultimo anno al New College, Derek frequentò corsi sui testi sacri dell’ebraismo e sul multiculturalismo tedesco, ma per lo più le sue ricerche si concentrarono sull’Europa medievale. È così che imparò che l’Europa occidentale si era costituita non come una società di popoli geneticamente superiori, ma come un territorio tecnologicamente arretrato, che arrancava dietro la cultura islamica. Studiò storia dall’ottavo al dodicesimo secolo, cercando di rintracciare le origini dei concetti moderni di razza e di whitenees senza trovarli da nessuna parte. E quindi giunse alla seguente conclusione: «In pratica, ce li siamo inventati di sana pianta». Dopo la laurea, Derek iniziò a prendere in considerazione l’idea di fare una dichiarazione pubblica. Sapeva di non credere più nel nazionalismo bianco, e pensava di poter prendere le distanze dal suo passato modificando parte del suo nome e andando dalla parte opposta del paese per frequentare il master. Il suo istinto gli suggeriva di allontanarsi in punta di piedi, ma aveva sempre propugnato pubblicamente le sue idee, senza contare che lasciava dietro di sé trasmissioni radiofoniche, post su internet, apparizioni televisive. Quella stessa estate, stava ancora prendendo in considerazione il da farsi quando tornò a casa a trovare i suoi genitori. Suo padre stava seguendo l’ascesa del nazionalismo bianco sulla tv via cavo. Ormai, però, tutto ciò suonava ridicolo alle orecchie di Derek. Quella sera uscì di casa e andò in un bar portandosi dietro il computer, dove iniziò a scrivere una dichiarazione: «Una grande fetta della comunità nella quale sono cresciuto crede nel nazionalismo bianco, e i membri della mia famiglia che io rispetto moltissimo, in particolare mio padre, sostengono tale causa con fermezza. Non mi sentivo pronto a rischiare di provocare screzi in questi miei rapporti. Ma dopo avervi meditato a lungo, ho capito che essere sincero nei confronti della mia lenta ma progressiva disaffiliazione dal nazionalismo bianco è nell’interesse di tutte le persone coinvolte. Non posso essere favorevole a un movimento per il quale non mi è concesso stringere amicizia con chi desidero o per il quale la razza del mio prossimo mi impone di considerarlo in un dato modo, o di nutrire sospetto e diffidenza nei confronti dei suoi successi. Le cose che ho detto e le mie azioni hanno danneggiato persone di colore, di discendenza ebraica, attivisti che si adoperano affinché tutti siano trattati equamente. Mi scuso per il male che ho fatto». Proseguì con questo tono per altri paragrafi prima di spedire la mail all’Splc, proprio il gruppo che suo padre aveva considerato nemico per quarant’anni, aggiungendo: «Pubblicate pure tutto» . Quindi premette il tasto “invio”.
Il pomeriggio seguente, Don era al computer a fare ricerche su Google e il nome di Derek gli apparve nel titolo di un articolo. Da dieci anni, digitava “Stormfront” e “Derek Black” nella barra delle ricerche più volte a settimana, per monitorare l’ascesa del figlio nel nazionalismo bianco. Il titolo dell’articolo era “Figlio attivista di un importante leader razzista sconfessa il nazionalismo bianco”. Quando riuscì a telefonare a Derek, ricorda di avergli detto: «Gli hacker ti hanno rubato l’identità». «No, la lettera è mia» rispose Derek. E subito sentì suo padre chiudere la telefonata. Per alcune ore, Don rimase incredulo. Forse Derek gli stava giocando un brutto scherzo. Forse Derek credeva ancora nel nazionalismo bianco ma voleva aver vita facile. Quella sera, Don si collegò alla bacheca dei messaggi di stormfront . «Sono sicuro che questa notizia starà circolando ovunque in Rete, quindi inizio da qui» scrisse, postando un link alla lettera di Derek. «Non voglio parlare con lui. Derek dice di non capire perché ci sentiamo traditi da lui perché ha annunciato i “principi personali” in cui crede ai nostri peggiori nemici». Per giorni, Don non riuscì a postare nient’altro. «È stato l’evento peggiore nella mia vita di adulto».
Alcune settimane dopo Derek tornò a casa per il compleanno del padre, anche se sua madre e la sua sorellastra gli avevano chiesto di non farsi vedere. «Penso che potrebbero arrivare a ripudiarmi» scrisse a un amico. Tuttavia, essendo in partenza per la Florida per il master, voleva salutare i suoi. Arrivato a casa della nonna per la festa di compleanno del padre, Derek in seguito avrebbe ricordato la strana sensazione di essere considerato a malapena dalle sue sorellastre. Sua madre era stata cortese, ma gelida. Don aveva cercato di farlo entrare in casa, ma il resto della famiglia voleva che se ne andasse. Padre e figlio erano saliti in macchina e si erano allontanati, dirigendosi prima verso la spiaggia e poi al ristorante. Dopo qualche ora Don concluse che «era sempre il vecchio Derek» e la cosa lo sorprese. Il suo dolore era stato così immenso che si era aspettato di vedere in lui una specie di manifestazione fisica della perdita subìta. Chiese al figlio se stava fingendo di essere cambiato per avere una carriera più facile. Era il suo modo di ribellarsi? Quando Derek smentì, Don citò la teoria nella quale ormai era arrivato a credere, la stessa che David Duke aveva postato dopo la pubblicazione della lettera: Sindrome di Stoccolma. Derek sarebbe diventato ostaggio dello schieramento liberal e avrebbe poi provato empatia per i suoi rapitori. «Molto rassicurante come teoria», ricorda di aver detto al padre. «Come posso dimostrarvi che questo è ciò in cui oggi credo davvero?». Al ristorante Derek cercò di convincere Don per alcune ore. Gli raccontò del privilegio bianco e dei ripetuti studi scientifici sul razzismo istituzionalizzato. Citò le grandi società islamiche che svilupparono l’algebra e avevano preannunciato un’eclissi lunare. Ricorda anche di aver detto: «Non solo avevo torto, ma ho anche contribuito ad arrecare danni reali». A sua volta Don ricorda di aver risposto: «Non riesco a credere che sto discutendo proprio con te, tra tutte le persone possibili, di realtà razziali». Il ristorante ormai stava per chiudere, e i due non avevano compiuto nessun passo avanti per comprendersi meglio. Derek andò a dormire a casa di sua nonna, si alzò di primo mattino e lasciò il paese in macchina da solo. 
Da allora Derek continuò ogni giorno a fare il possibile per prendere le distanze dal suo passato. Dopo aver completato gli studi e conseguito il master, iniziò a studiare l’arabo per capire la storia dell’Islam delle origini. Dal giorno della sua defezione non ha più parlato di nazionalismo bianco. Si è invece dedicato con tutto se stesso a recuperare il tempo perduto e a cercare di conoscere meglio aspetti della cultura pop che un tempo gli era stato imposto di diffamare: gli articoli dei giornali liberal, la musica rap, i film di Hollywood. È arrivato ad ammirare il presidente Obama. Ha deciso di fidarsi del governo degli Stati Uniti. Ha iniziato a bere l’acqua del rubinetto. Ha fatto vari viaggi a Barcellona, Parigi, Dublino, in Nicaragua e in Marocco, immergendosi in quante più culture ha potuto. Ha messo a disposizione di estranei alla ricerca di un alloggio temporaneo la sua camera da letto, l’unica del suo appartamento. Si è sentito sempre meglio a potersi fidare delle persone, senza pregiudizi o preconcetti, e dopo un po’ ha iniziato a sentirsi completamente diverso dall’individuo che era stato. Poi, però, è iniziata la campagna elettorale per le presidenziali del 2016 e all’improvviso il nazionalismo bianco che Derek stava cercando di lasciarsi alle spalle è diventato l’ineludibile sottinteso costante del dibattito nazionale sui rifugiati, sull’immigrazione, su Black Lives Matter e sull’elezione stessa. Alla fine di agosto, Derek ha seguito in televisione un comizio di Hillary Clinton durante il quale la candidata ha parlato dell’ascesa del razzismo, spiegando che i suprematisti bianchi non hanno fatto altro che cambiare nome e farsi chiamare nazionalisti bianchi. Ha fatto riferimento a Duke e ha citato il concetto di “genocidio bianco” che Derek stesso un tempo aveva contribuito a diffondere e rendere popolare. Ha raccontato in che modo Trump avesse assunto per la sua campagna un manager che aveva legami con l’“alt-right”, la destra alternativa, e ha detto: «In sostanza, un movimento marginale ha preso il sopravvento sul Partito repubblicano». Si trattava del medesimo concetto nel quale Derek aveva creduto per così tanti anni della sua vita. «È spaventoso sapere che ho contribuito a diffondere questa robaccia» ha detto a un amico del gruppo dello Shabbat. Alla fine dell’estate, per la prima volta a distanza di anni, è andato a far visita ai suoi genitori. In una fase di dibattito pubblico sempre più acceso, voleva sentire cosa ne pensava suo padre. Si sono seduti in casa e per un po’ hanno parlato dei suoi corsi all’università e del nuovo pastore tedesco di Don. Poi, la loro conversazione ha svoltato di nuovo verso l’ideologia, l’argomento preferito di sempre. Don, che di solito non vota, ha detto che questa volta darà il suo pieno sostegno a Trump. Derek ha detto di essersi cimentato con un quiz politico online e di aver scoperto che le sue

opinioni collimano al novantasette per cento con quelle di Hillary Clinton. Don ha detto che le restrizioni imposte all’immigrazione gli paiono un buon punto di partenza. Derek gli ha risposto che in verità crede nell’importanza di autorizzare l’ingresso a più immigrati, perché ha studiato i vantaggi sociali ed economici legati alla diversità. Don ha pensato che ciò potrebbe sfociare in un genocidio bianco. Derek ha pensato che la razza è un concetto sbagliato in ogni caso. Sono rimasti uno di fronte all’altro, cercando un modo per colmare l’abisso creatosi tra loro. A un solo isolato di distanza c’era la Baia e proprio sull’altra sponda la tenuta nella quale Trump ha vissuto e trascorso le vacanze per anni, e dove ha fatto installare un palo alto ventiquattro metri per farvi sventolare una enorme bandiera americana. «Chi l’avrebbe mai detto che sarebbe stato proprio Trump a rendere così alla moda queste idee?» ha detto Don. E nel momento in cui non erano mai stati così distanti l’uno dall’altro su questa affermazione non hanno potuto fare a meno di trovarsi d’accordo. ª
   

21.7.15

L'agente afroamericano che aiuta un membro del Ku Klux Klan: "Era il mio dovere"

musica  in sottofondo
 Blues Brothers - Gimme Some Lovin  note conclusive
Jimi Hendrix - Hey Joe




leggendo questo flash mi pare di  repubblica

Un suprematista bianco che indossa una maglia con la svastica si sente male durante la manifestazione del Ku Klux Klan in South Carolina. Ad aiutarlo arriva un poliziotto: un poliziotto afroamericano. L'immagine è diventata rapidamente u

n potentissimo simbolo dell'insensatezza del razzismo e della forza dell'integrazione. Là dove i manifestanti del Ku Klux Klan vedono un mondo in cui gli uomini vengono giudicati per il colore della loro pelle, il poliziotto (che si chiama Leroy Smith) vede un anziano in difficoltà, non si fa condizionare dalle idee che esprime e dalla maglietta che indossa, e corre a sostenerlo

Mi sono detto  Ecco un esempio del detto biblico



Se uno ti percuote sulla guancia destra, porgigli anche l'altra; e a chi vuol litigare con te e prenderti la tunica, lasciagli anche il mantello. ...
Voi avete udito che fu detto: "Ama il tuo prossimo e odia il tuo nemico". Ma io vi dico: amate i vostri nemici, benedite coloro che vi maledicono, fate del bene a quelli che vi odiano, e pregate per quelli che vi maltrattano e che vi perseguitano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli; poiché egli fa levare il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti.
Se infatti amate quelli che vi amano, che premio ne avete? Non fanno lo stesso anche i pubblicani?
E se salutate soltanto i vostri fratelli, che fate di straordinario? Non fanno anche i pagani altrettanto? Voi dunque siate perfetti, come è perfetto il Padre vostro celeste."
(Matteo 5:39-48)
ovvero in sintesi  ama   il tuo nemico



poi  sulla pagina fb dell'unione sarda

L'agente afroamericano che aiuta un membro del Ku Klux Klan: "Era il mio dovere"

Oggi alle 10:06 - ultimo aggiornamento alle 11:57

leroy smith soccorre il manifestante
                                Leroy Smith soccorre il manifestante
Non pensa di aver fatto nulla di speciale l'alto funzionario di polizia nero che ha soccorso un militante del Ku Klux Klan con indosso una maglietta con la svastica.La foto scattata due giorni fa, quando davanti alla sede del governo e del parlamento della South Carolina il gruppo razzista ha manifestato chiedendo di rimettere al suo posto la bandiera sudista simbolo dello schiavismo, sta spopolando sul web."Sono un poliziotto e il mio dovere è aiutare le persone, indipendentemente dal colore della loro pelle, dalla loro nazionalità o dal loro credo", ha commentato Leroy Smith, capo della locale agenzia di sicurezza, dicendosi sorpreso dallo scalpore che ha suscitato l'immagine scattata dal portavoce di Nikki Haley, il governatore che ha deciso di rimuovere la bandiera dopo la strage di Charleston in cui morirono nove afroamericani.Il manifestante soccorso si era sentito male per il caldo. "Spero che la foto possa contribuire a mettere fine agli scambi di odio e di violenza che ci sono stati nelle ultime settimane", ha detto il funzionario.










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