di solito tali giornali per vecchie e appassionati di gossip e cronaca sono bacchettoni ma stavolta l'editoriale riportato sotto ha ragione . Non se ne può più . bisognerebbe ( come dicevo in un precedente post ) desematizzare la parolaccia e soprattutto non proibirne l'uso ai bambini ma lasciarle dire , spiegandogli pero : dove,quando, come cioè in che contesto \ situazione dirle e non dirle , quando sono mancanza di rispetto o ad usare al loro posto sinonimi e metafore . Fare come come suggerisce la guzzanti in vilipendio tour del 2009\10
in particolare nell'intervallo 25.30 -32.58\33
dall'editoriale di www.oggi.it
Parolaccia mia Perchè in tv e in politica trionfano insulti e linguaggio volgare
Nel mio piccolo, da diversi anni conduco una personale campagna contro il turpiloquio pubblico. Su altri giornali che ho diretto mi ero schierato contro il primo, famoso V-day di Beppe Grillo, non tanto per il concetto ma per l’espressione usata, beccandomi naturalmente una salva di insulti dai nascenti cinquestelle. Ebbi anche l’onore di una reprimenda di Daniele Luttazzi, per aver criticato le sue «acrobazie coprolaliche» televisive. Luttazzi, nel frattempo, è sparito dai radar. Grillo no. Anzi. E comunque la mia campagna è miseramente naufragata. La parolaccia e la volgarità scritta o gridata ormai trionfano ovunque. Se ne sono accorti quei 600 mila italiani coraggiosi che hanno assistito alla prima e unica puntata di Radio Belva su Rete4, trasmissione prontamente cassata da Mediaset causa bassi ascolti e alti improperi. Giuseppe Cruciani e David (con l’accento sulla “i”) Parenzo almeno un merito, però, l’hanno avuto. Quello di aver involontariamente ridoganato (si dirà così?) l’osceno. Perché si spera che, dopo la loro performance, molti si siano accorti che la scorciatoia della scurrilità non paga. In effetti, non se ne può più. Dal Parlamento alla tv, l’ingiuria ha sostituito qualsiasi forma di ragionamento, anche il più elementare.
Come scrive Gian Arturo Ferrari sul Corriere della Sera, «viene il sospetto che dietro le grida, le offese più atroci, gli epiteti più vergognosi non ci sia vera aggressività, vero astio, vero odio. Ma solo il tentativo di segnalare la propria presenza, di farsi vedere risoluti, sbrigativi e non impediti da convenzioni». Certo, la lingua evolve, ed è naturale che il parlato reale delle persone tracimi in ambiti in precedenza “protetti”. Ci si è messo pure il Web, con il suo “bomba libera tutti” per cui chiunque, spesso al riparo dell’anonimato, sembra legittimato a dire qualunque cosa. Così, per esempio, anche nei giornali seri qua e là si possono adesso trovare termini un tempo proibiti, quando «il comune sentimento del pudore» vietava riferimenti al sesso o agli organi genitali. Ma si tratta di una questione di equilibrio, di limiti, vorrei dire di misura se non temessi l’inevitabile doppio senso. Nessuno vuole tornare al linguaggio grigio e burocratico, alle ipocrisie lessicali, ai giri di parole, alle “C” iniziali seguite dai tre puntini sempre e comunque. E non si vede perché se una certa parola è usata da quasi tutti non possa essere serenamente accettata quando pronunciata in un comizio o in televisione.
Va bene, ma solo se esiste una ragione per pronunciarla e se il contesto lo permette: utilizzare il linguaggio corrente in teatro, dove chi è presente ha pagato per ascoltarlo, è ben diverso dal farlo di fronte a una platea indiscriminata come quella televisiva; scrivere in gergo popolare su un libro è differente dal mollare i freni in un articolo di giornale o in un’intervista in radio… In defnitiva, credo che esista una regola: se nel privato ciascuno parla come sa e come può, nel discorso pubblico l’autocontrollo dovrebbe continuare a essere percepito come un valore. Chi ha responsabilità nel mondo allargato della comunicazione (politici, giornalisti, scrittori, insegnanti) dovrebbe provare a ripetere l’esercizio che ho appena cercato di eseguire: redigere un intero testo sulle parolacce senza scriverne nemmeno una. Chi ci riesce è promosso. Gli altri vadano a Radio Belva. O in Parlamento.