chi era Luca Rossi
Trentatré fatidici anni, e sottolinearlo è forse scontato, forse retorico, ma necessario. Se ha un senso la parola "giovani", ce l'ha nell'interruzione, nell'incompiutezza, in quell'inafferrabile voglia che a noi adulti fa scuotere il capo, e dire "impossibile, se l'è cercata". È vero: quasi sempre i sogni giovanili sono irrealizzabili, esagerati e un po' sciocchi. Ma provate a privarvene, per un solo istante. Provate a credere davvero che questo sia il migliore dei mondi possibili. E vi trovereste ancora là, nel brodo primordiale, non giovani ma bruti, senza tempo né spazio. I giovani, di utopia possono morire. Ma cancellatela, e li avete abortiti in grembo.
Il 22 febbraio 1986 Luca Rossi,
un giovane studente della Bovisa, iscritto a Dp, che di sogni aveva la testa arruffata (no, scomposta), viene ucciso "per errore" nel modo più prosaico possibile, su un autobus, da un poliziotto. Luca forse è già vissuto troppo. Pare un reperto, con la sua glabra magrezza, gli occhi assonnati di peace&love, vacuamente milanese, su un treno di pendolari che per lui è diretto a Woodstock, o in India. È figlio del '68, o d'un '77 non ancora incattivito. Un Chatwin gentile in un'epoca d'arrembante edonismo, come quegli Ottanta di Craxi, Reagan e Thatcher. Che ci faceva lì?
Era febbraio, il mese del non ancora, del quasi inizio. La Pasqua di Luca non è mai giunta. Lui non ci credeva, non nel modo tradizionale, si capisce; credeva semplicemente si potesse esistere qui, su questa terra, con la velocità della fantasia.
A Parigi, il 6 dicembre di quello stesso anno, il cerchio invece si chiudeva. O forse, ancora, stava per fiorire. Cos'altro è infatti il Natale, se non una Pasqua d'inverno, un anticipo d'aldilà? Se Luca si sentiva cittadino del mondo, il suo coetaneo Malik Oussekine, con quel nome quasi palindromo, era un francese dalla testa ai piedi ("al cento per cento" direbbe un cantante oggi di moda). Che poi è lo stesso per un occidentale figlio di algerini, che non parla arabo, ha una faccetta bella e curiosa, semplice solo in apparenza: è un po' solitario, ha una sorella femminista, passa tre giorni su sette all'ospedale per una grave dialisi. È anche strano, non gli servono le canne e l'India, porta la giacca, legge il Vangelo malgrado sia musulmano. È affascinato dai missionari, il sacrificio, l'amore, cose così. E ascolta musica jazz. Troppo.
Ha il torto di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato, un club di jazz appunto, nel pieno delle manifestazioni universitarie (ma lui, per problemi legati alla malattia, frequenta ancora le superiori) contro un disegno di legge iniquo. Sbaglia a uscire, a trovarsi in strada, a scappare quando vede arrivare due poliziotti motorizzati che brandiscono uno sfollagente gigantesco proprio nella sua direzione. E sbaglia a infilarsi in un portone dove lo inseguono e lo massacrano senza pietà. Sbaglia perché una figura come la sua oggi verrebbe considerata inverosimile anche dal più fantasioso degli scrittori. Sbaglia perché non dovrebbe esistere, perché un ministro dei suoi tempi, francese come lui, ne omaggia la memoria attaccando la sua famiglia e dandogli pure del coglione.
Ragazzi per sempre. Crocifissi senza religione, vale a dire senza formalismi; oltre le chiusure. Avevano misericordia. Si poteva. L'edonistico '86 della fine della storia e del rancore degli esclusi si era aperto e chiuso con queste due eccezioni. Che in realtà erano la regola. Noi volevamo quel mondo lì, di Luca, di Malik. La maggioranza eravamo noi!
© Daniela Tuscano
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