non si finisce mai d'imparare e di rimettere in discussione ciò che hai imparato . Infatti anch'io cadevo nell'errore di cui si parla nella lettera sull'ultimo n de settimanale oggi che ho trovato ed riporto sotto insieme alla vicenda di Gloria Antognozzi ( foto a sinistra ) figlia udente di genitori sordi segnanti. Studia alla facoltà di Scienze dell’Educazione e della Formazione presso l’Università di Roma 3.
Lavora come Assistente alla Comunicazione, Interprete LIS ed è socia fondatrice nonché Presidentessa dell’Associazione CODA Italia (
https://www.codaitalia.org/ per maggiori informazioni su tale mondo su cui esistono pesanti pregiudizi e sui cui m'identifico pure io visti i forti problemi di sordità ).
Gentile direttore,
gli Oscar alla pellicola I segni del cuore – Coda rappresentano per la comunità dei sordi una soddisfacente vittoria a ben 35 anni dall‘ultimo film Figli di un Dio minore, ma in articoli e titoli si utilizzano termini molto obsoleti, come “sordomuto”, “linguaggio” dei segni, “linguaggio mimico-gestuale”, “non udente”. Grazie alla Legge 95/2006 art.1 la persona è definita sorda a tutti i sensi di legge e decade il termine “sordomuto”, inappropriato, dal momento che il sordo può imparare a parlare, in quanto l’apparato fonatorio è integro. I sordi preferiscono il termine “sordo”, invece di “non udente” perché è la negazione di un qualcosa che non esiste. Inoltre i sordi non usano un linguaggio ma la Lingua dei Segni Italiana (LIS – senza i puntini fra una lettera e l’altra), una lingua che ha una propria struttura, regole grammaticali, sintattiche, morfologiche e lessicali come una qualsiasi lingua parlata. Non esiste la lingua dei segni universale, così come non tutto il mondo parla l’esperanto. Infine, non è neanche corretto dire o scrivere “Linguaggio mimico-gestuale”. I sordi usano segni che non vanno confusi con la comune gestualità utilizzata dagli udenti per enfatizzare un discorso e rispettano regole sintattiche ben precise.
Vanessa Migliosi, presidente Movimento Lis subito
La casa coi lampeggianti quando suona il telefono, l’infanzia passata a far da interprete fra i genitori e il mondo. Come Ruby, la protagonista di Coda - I segni del cuore, il filmdell’Oscar, Gloria Antognozzi vive sospesa tra due realtà. E in una, c’è solo il silenzio
La prima volta che Gloria Antognozzi ha cantato in pubblico, in una chiesa gremita, suo padre si è addormentato e sua madre ha dovuto tirargli una gomitata. «La gente aveva le lacrime agli occhi e i miei si guardavano attorno straniti: ma che avranno da piangere, tutti? E quand’è che tocca applaudire?».
Romana di Portonaccio, 29 anni, qualche giorno fa Gloria è andata a vedere CODA – I segni del cuore, miglior film agli Oscar. E ha pianto, «perché parevo io». Anche Gloria, come Ruby, la protagonista, è la figlia udente di genitori non udenti. Anche lei è cresciuta tra due mondi, uno che sente e l’altro che parla con le mani. Anche lei ama i suoi genitori ma ha sentito la fatica di dover fare da tramite, «semplicemente perché senza di te tua mamma non può neanche comprare un’Aspirina». Oggi, il suo essere “diversa figlia di diversi” Gloria lo vive come una ricchezza: interprete Lis, la lingua italiana dei segni, lavora con alunni non udenti, gira documentari, ha tradotto le canzoni di Emma e Irene Grandi a Sanremo. Ma per lei, trovare una sintesi tra la vita in casa e quella fuori, tra quel continuo “noi” e “loro”, non è stato facile.
Lei cantava, ma ha smesso. Perché?
«Mi sembrava di fare un torto ai miei genitori. Quando mi hanno ammessa all’Accademia di Santa Cecilia non sapevo che dire: come glielo spiego che ho una bella voce? Per loro esiste solo il silenzio».
Come si è innamorata del canto?
«A casa nostra, ovvio, la musica non c’era. Finché un giorno mio padre arrivò con uno stereo per me e mia sorella Susanna, udente anche lei. Guardavo questo coso come fosse un alieno, ricordo che passai una giornata ad ascoltare I migliori anni della nostra vita, a nastro. Mi addormentai abbracciata alle casse».
Quando ha capito di vivere in una famiglia diversa dalle altre?
«Subito. Gli altri bambini chiamavano la mamma e lei arrivava, io, se mamma era girata di là, dovevo andare a tirarle la maglietta. Ho imparato a chiedere l’acqua prima con le mani che con la voce, a casa nostra esisteva un lampeggiante per il telefono e uno per il campanello. E poi c’erano le domande dei compagni, a scuola».
Cosa le chiedevano?
«Di tutto. Perché i miei genitori avessero una voce strana, se potevano guidare, perfino se sapevano leggere. Per alcuni era una curiosità bella, un’amica che veniva spesso a giocare a casa nostra aveva imparato a segnare: “buongiorno!”, “posso avere un succo di frutta?”. Qualcuno ci invidiava pure un po’, perché io e Susanna potevamo par
lare in codice e nessuno ci capiva. Nel quartiere, però, mi hanno chiamata a lungo “la figlia della muta”. Che poi, mia mamma è tutt’altro che muta: quando alle superiori mi bocciarono e la preside le rivelò che avevo saltato un sacco di lezioni, la sentii gridare fin giù dalle scale. Lì cominciò la stagione dei colloqui alternati coi professori».
Alternati?
«Sì, perché mamma aveva capito benissimo che mia sorella e io traducevamo la metà di quello che le dicevano gli insegnanti. “Sua figlia ha fatto un compito da schifo” diventava “S’impegna molto ma potrebbe migliorare ancora”. Era furiosa: “Ma mi pigliate per scema?”. Finì che agli incontri sulle pagelle di Susanna mamma portava me e ai miei faceva tradurre lei».
Quanto le è pesato, questo continuo fare da ponte?
«A12 anni stavo in banca a contrattare il mutuo per i miei, e chi lo sa come si segna “tasso d’interesse”? Mia sorella e io abbiamo dovuto crescere in fretta, più in fretta di quanto fosse giusto. Ma la colpa non è dei miei genitori, che ci hanno sempre fatto vivere la nostra diversità come una ricchezza. La colpa è di una società che non si organizza per sostenere chi non sente, che non provvede agli interpreti, che non informa. L’anno scorso, quando mia mamma ha chiesto a una commessa la cortesia di abbassarsi la mascherina per poterle leggere le labbra e capire cosa dicesse, quella si è messa a urlare e l’ha allontanata. La pandemia è stata un disastro».
Nel film c’è una scena in cui Ruby chiede a sua madre: «Avresti preferito che fossi come te?». È una domanda che ha fatto anche lei?
«Come no. Mamma mi ha sorriso e ha risposto che sì, quando siamo nate ci avrebbe voluto sorde, ma poi s’è detta “pazienza, impareranno questo e quello”. Le dirò di più: ci sono stati momenti in cui io stessa avrei voluto essere uguale a mamma, a papà, ai loro amici con cui passavamo ogni vacanza, in cui mi sono chiesta a che mondo appartenessi. È difficile trovare un confine».
Se un giorno fosse lei, la mamma?
«So cosa intende, la sordità è ereditaria. Esiste un test genetico per capire se sei portatore, ma io ho deciso di non farlo. Se avessi un figlio, lo amerei e basta».
Lo psicolinguista americano Harlan Lane diceva che la sordità non è un handicap, ma una cultura.
«È verissimo. I sordi hanno una loro storia, i loro poeti, il loro modo di raccontare il mondo, un loro sense of humour e ne vanno orgogliosi. Infatti si dice “sordo”, “non udente” è una formula offensiva, non identitaria. E l’identità sorda per loro conta moltissimo, perfino quella regionale. Il segno di “daje”, per dire, ce l’abbiamo solo a Roma, a Torino mica lo conoscono».
E la bella voce di Gloria? Dove trova spazio, in tutto questo?
«Sto lavorando su me stessa per capirlo. Oggi canto solo quando vado in motorino, per strada. Certo, un palco tutto mio... Ora so che mamma non può sentirmi, ma gli altri sì. E forse è venuto il momento di farci la pace».