Visualizzazione post con etichetta tradizione. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta tradizione. Mostra tutti i post

14.2.23

Nuoro La signora di pasta, fagioli e cozze mezzo secolo di Trattoria Sardegna Semplicità e lentezza: i due ingredienti della cucina di Tonina Siotto

 

 Nuova  sardegna  12\2\2023 

 
Nuoro
In una città che cambia e non sempre in meglio, loro sono una certezza. Un approdo sicuro da 50 anni. Un conforto per molti grazie alla semplicità e alla gentilezza che non passano mai di moda. Mezzo secolo di piatti preparati con lentezza (da sua maestà la “pasta e fagioli con cozze” un vero evergreen ad altri in menù) che qui è una virtù capace di dettare i giusti tempi, quelli della cucina di una volta. Qui, da Tonina Siotto e Ciriaco Demitis, titolari della storica Trattoria Sardegna nel centro di Nuoro, in via D’Azeglio, in una zona dalla toponomastica risorgimentale, la frenesia non era di casa prima, figuriamoci ora che i due gestori vanno sulla settantina e hanno deciso di offrire i loro servizi solo a

pranzo. Per i coniugi si tratta di centoquarantaquattro primavere in due portate bene, anzi di più, anche grazie ai ritmi di un lavoro, confermano loro stessi, che li tiene in forma, con la mente fervida e il passo deciso. La palestra dove si allenano quotidianamente – domenica esclusa – è il locale nello stretto vicolo. Spazio spartano con cinque tavoli, incluso quello “presidenziale”, dove si accomodano loro e a turno i commensali amici per consumare il pasto quotidiano. Da mezzogiorno fino alle 14 il locale si riempie come per incanto. Clienti abituali e commensali occasionali forestieri che arrivano grazie al passaparola, unica pubblicità utilizzata dalla trattoria. «Sono arrivata qui che avevo appena vent’anni e mio fratello che gestiva il locale è stato per me un vero maestro», racconta la cuoca nel suo regno, una cucina piccola ma essenziale dove ha appena preparato un battuto di aglio e prezzemolo fresco e una delle pentole ai fornelli inizia a gorgogliare. «Cucinare per me è una grande passione e lo faccio ancora con entusiasmo. E la volontà di andare avanti non manca. In questi cinquanta anni abbiamo incontrato tanta gente. Tutti si sono rapportati con rispetto e noi li abbiamo accolti facendo sempre del nostro meglio. E così vogliamo continuare». Suo marito Ciriaco che gestisce soprattutto la sala ma all’occorrenza sa cosa fare anche in cucina avvicina il cliente e centellina le parole. Quando si accorge che può osare lancia qualche citazione latina patrimonio ancora intatto dei suoi studi classici e per un periodo profumati dall’incenso. Per anni quando soffiava forte il vento sardista è stato anche il segretario dell’avvocato Mario Melis che ricorda sempre con ammirazione. «Qui sono venuti e vengono tutti. Magistrati, professionisti, artisti, muratori, forze dell’ordine e pastori. E noi trattiamo tutti allo stesso modo», dice Ciriaco che sembra un attore di un film dei primi anni Ottanta. Il locale assomiglia a un set di quell’epoca con alcuni pezzi forti oggi da arredamento old style come il grande frigo dispensa e il telefono al muro con rotella osservato da vicino da una fotografia di Padre Pio. «Un tempo squillava e i clienti sapevano che a pranzo li potevano trovare anche qua», dicono. Ma la pasta e fagioli o la minestra con merca più che raccontarla si deve assaggiare qua. Poi a renderla ancora più saporita e autentica c’è il contesto. Un pezzo di Nuoro e della sua storia da tenere stretto il più possibile. «Oggi a differenza di quando abbiamo iniziato noi si può pranzare ovunque, anche nei bar. Prima al massimo, lì si poteva mangiare un panino. L’offerta si è ampliata ovunque», aggiungono Tonina e Ciriaco che guardano il tutto con un certo disincanto ma conservando l’ottimismo. «La spesa la mattina con l’attenzione alla qualità e ai fornitori di alcune materie prime, come la carne e il pesce, vera base del menù sono il primo tassello della giornata. Poi con pazienza nascono i nostri piatti che la gente, i clienti continuano ad apprezzare. Per noi è una grande soddisfazione e il carburante giusto per andare avanti».

19.2.11

Il fabbricante di suoni perduti Mondo Usai, 53 anni, l'artigiano speciale di Seneghe


anche se mi sento come la  video intervista da me   fatta  ne sono per  un identità aperta  e non chiusa   ,  elogerò sempre  chi coltiva  la memoria  ed  il proprio passato   come la  storia  qui sotto

Il fabbricante di suoni perduti
Mondo Usai, 53 anni, l'artigiano speciale di Seneghe
 unione sarda del 19 febbraio 2011


LORENZO PAOLINI

SENEGHE
L'uomo che fa parlare le zucche con le canne, i tergicristallo (meglio, l'anima di metallo coperta dalla plastica) con le interiora del maiale (debitamente essiccate). È solo questione di tempi e modi. Ma prima o poi tutto, sollecitato nel modo opportuno, rimanda a suoni variamente articolati. Guai ai rifiuti abbandonati, ai legni che riposano a bordo strada, al metallo che va arrugginendosi. Mondo Usai, 53 anni, artigiano speciale (una guida turistica tedesca lo colloca fra le attrazioni isolane, il che ha imposto a sorpresa una disponibilità a farsi visitare come se fosse Saccargia), ha sviluppato un radar. Con un colpo d'occhio sa misurare la capacità di parola degli oggetti, il sapersi fare suono. Se passa l'esame, la cosa - qualunque essa sia - prende la via del magazzino. Oltre il giardino della fantastica casa ristrutturata di Seneghe, due stanze interdette a moglie e figlia. L'effetto è fra il museo e il suq, un deposito impazzito con una misteriosa forma d'ordine. A quel punto, sotto la luce di una lampada, la zucca diventerà una cassa armonica, il metallo uno scacciapensieri (accordabile, e scusate se è poco), la pelle di capra un tamburo. E sarà il tempo della musica.
IN COSTA AZZURRA La esse è pastosa e sibilante, non c'è traccia di erre arrotata, il corpo è brevilineo e scuro, mani importanti. Eppure c'è stato un tempo in cui Mondo - l'artigiano prediletto dai musicisti isolani - era Raymond Michel, giovanotto francese di belle speranze. Padre emigrato nel nord della Francia alla ricerca di lavoro, poi trasferito nel Sud, vicino a Cannes, per sfuggire a un clima che fiaccava i bronchi (asmatici) del figlio. «Fino al diplomSENEGHEa, per me la Sardegna era vacanza di 15 giorni durante l'estate fra Seneghe e Nughedu Santa Vittoria, i paesi dei miei genitori». 
Parlava solo il francese e l'Isola era straordinariamenSENEGHEte lontana dalla Francia. «Eppure sapevo che sarei venuto a vivere qui, come un sesto senso. E quando sono arrivato, ho proprio cancellato il francese, per un po' mi dava fastidio parlarlo. Solo da poco ho ripreso ad ascoltare il radiogiornale da Parigi».
CURVA A GOMITO I luoghi possono essere importanti quanto gli incontri. Per lui il punto di svolta fu nientemeno che Tadasuni, museo degli strumenti SENEGHEmusicali di Don Dore. Un gioiello di storia e passione (che, per inciso, morto il fondatore, starebbe prendendo la via della Penisola) messo in piedi da un sacerdote geniale. La prima visita è del 1980, «sapevo fare al massimo 5 accordi con la chitarra, anche se ascoltavo già da allora buona musica». Una folgorazione. Nella collezione, c'è una delle storie di Sardegna più palpitanti che si possano immaginare. Un quadro antropologico-musicale così esaustivo da non essere replicabile. Da bravo studente, porta a casa un libro e comincia ad applicarsi. E comunque il mal di Sardegna esplode all'improvviso e Raymond in un attimo cambia nazionalità (e nome) con famiglia al seguito.SENEGHE
MOLTEPLICI TALENTI Nelle mani ha già un mestiere, imparato in Francia. Conosce le piante come neanche un botanico, sa potare, innestare, è appassionato di coltivazioni biologiche. Trova un lavoro alla Provincia: nella pausa pranzo un collega tira fuori un coltello e inizia a intagliare un'ancia. Una linguetta, un pezzetto di canna che trasmette il suono allo strumento. Una rivelazione. È inverno e da quella sera il giovane giardiniere, nelle serate davanti al camino, ha sempre accanto a sé canne e coltelli per sperimentare l'arte. Torna a Tadasuni, guarda le vetrine con occhio clinico, manda a memoria dettagli. Dove montare l'ancia? Il primo esperimento è un flautino di Gavoi, con i fori fatti a caldo, una lama di coltello di distanza fra ciascuno. Poi quello di Isili dove i nodi del legno hanno un'importanza musicale. Gira impazzito per i paesi, compra i modelli. «Gli strumenti sardi tradizionali hanno pochi fori, massimo cinque. Sul piano musicale hanno molti limiti: se vuoi fare il ballo sardo, è perfetto. Altrimenti ti mancano proprio i suoni, le note. Ho deciso di tentare di farle aumentare e, prova dopo prova, è venuto fuori un pippiolu, lo zufolo».
LE REGOLE AUREE Mai tagliare le canne con la luna crescente. Mai in un mese che non sia febbraio. Mondo Usai le tenta tutte ma la materia prima non è docile come la sua immaginazione: «Lo sanno bene gli artigiani che realizzano i tetti con le canne. Negli altri periodi marciscono, diventano rugose, si seccano, arrivano i tarli. I tempi della natura hanno un senso, l'ho imparato quando facevo il potatore. Sugli agrumi, per dire, si lavora a giugno, negli altri periodi fai male alla pianta». Poi va scelto con cura il luogo. Da anni i suoi rifornitori preferiti sono i corsi dei fiumi accanto a San Vero Milis. C'è ogni tipo di canna, quelle delle launeddas e bambù alti come pioppi.



ESPERIMENTO RIUSCITO Dopo tanto provare, la creatività fervida regala il primo strumento tradizionale eppure nuovo di zecca. «C'è la possibilità di suonare in tre tonalità, sol la si , cambiando semplicemente la posizione del dito». I tempi del battesimo del pubblico sono pronti. Dopo sei anni di esperimenti, quando lo invitano in un celeberrimo resort di Santa Margherita di Pula per un'esposizione, decide di provare. Si porta dietro tutto, tradizione e parti della fantasia applicata con rigore alla tecnica. Bingo. «Ho venduto tutto, anche i modellini che avevo comprato tanti anni prima per studiarli. Seicento mila lire in una volta, ero emozionato». Molla il lavoro alla Provincia, la moglie colta e amorevole approva. Ecco la professione della vita, anche se è complicato imbrigliarla in una definizione: costruttore di strumenti musicali. Quelli del passato, delle feste di piazza, della solitudine, dei banditi. E quelli di domani, che prendono forma senza sapere cosa ne sarà di loro.
RACCOLTA DIFFERENZIATA Gli ultimi arrivati sono cilindri di legno, usati fino a non molto tempo fa dai caseifici per dare la forma al formaggio. «Se ne sono disfatti tutti per sostituirli con quelli di plastica e io sto cercando di recuperarli». Possono diventare il corpo di un tamburo ma anche un sacco di altre cose. Poi ci sono i metalli di ogni ordine e grado, vecchie lame di seghe da campagna sfogliate - striscia dopo striscia - come se fossero arance. Poi pezzi di tende, vecchie bombolette spray e chiodi (nel risultato finale, siamo dalle parti delle maracas). Non si butta via nulla, neanche le corna degli animali e certe parti delle viscere. In vetta però ci sono le zucche, crocorigas di qualunque forma e dimensione. Svuotate e essiccate, sembra siano nate apposta per diventare la cassa armonica delle benas (ma nelle benas cun corru l'amplificatore è un corno di vacca). Beninteso: anche per i materiali di recupero vale un setaccio stretto, si sceglie mica si raccatta. Per dire, le canne scelte per le launeddas sono tutt'altra storia rispetto a quelle usate per i flauti.
PICCOLO GENIO La produzione è esposta in bell'ordine sui tavoli, appassionati e musicisti (tutti i sardi, da Cordas et Cannas a Marino Derosas) passano spesso a dare uno sguardo. Ma le soddisfazioni spesso si nascondono negli oggetti più piccoli, meno balzani. Nella forma essenziale della sua trunfa, lo scacciapensieri, per esempio. Sorpresa: quel suono metallico si può accordare con una vite regolata da una chiave a brugola. Le centinaia di ragazzini che hanno frequentato per anni i suoi laboratori per la costruzione degli strumenti nelle scuole della zona (da Arborea a Ula Tirso ad Ardauli, «ora sono interrotti perché non ci sono più soldi») ne erano affascinati. Altri strumenti sono infinitamente più complessi, sia che derivino dalla tradizione sia che siano improvvisazioni sul tema. Per dire, da anni gira per i paesi (Sedilo e Bosa, soprattutto) nella speranza di sentire dal vivo una serragia, una vescica di maiale secca e piena d'aria su cui scivola una corda sfregata da un archetto di lentischio. Inutilmente: mai sentita. Lui comunque continua a costruirle. Nella saletta prove amatoriale, ce n'è una collegata con l'impianto di amplificazione: effetti speciali. Altri strumenti sono invece figli legittimi della fantasia. Tipo la banzucca , una simil-chitarra di bambù e zucca, pezzo unico.
PERFEZIONISMO Siccome gli strumenti sardi più tipici richiedono respirazione circolare (quella che gonfia la bocca come una sacca di zampogna e consente di far uscire il suono senza interruzioni) l'ha fatta subito sua. E per un asmatico è un'impresa da medaglia. E anche nella ricostruzione di autentici pezzi da museo, l'uomo è pignolo. Giusto per il trimpanu, compagno dei banditi del secolo scorso, si è preso qualche licenza. La norma vorrebbe che si utilizzasse un cilindro di sughero («il primo, da un albero mai utilizzato prima») e una pelle di cane conciata. L'animale doveva esser morto di fame perché la pelle fosse perfetta. Un po' troppo, francamente. Si ovvia con una pelle di capra. E poi una corda bagnata nella pece, sistemata al centro del cerchio, da tirare. Il risultato è un suono profondo e lugubre, come un immenso rumore gastrico che si immagina rimbombare per valli e radure. Infastidisce le orecchie degli uomini ma nei cavalli (il mezzo dei carabinieri di allora) pare susciti terrore e fuga incontrollata.
Fra flauti e armoniche, aleggia un profumo di mirto che inebria. Nella stanza accanto, il distillato casalingo è quasi pronto. Ma c'è in preparazione anche la tintura madre di elicriso, lo sciroppo alla menta selvatica e altre delizie. E si duole di non saper ancora preparare gli oli essenziali: eucalipto e timo farebbero un gran bene ai polmoni. Anche qui, una questione di tempi, di equilibri. Di sinfonia. Musica, insomma.
paolini@unionesarda.it

27.2.09

Mostra Fotografica "Sardegna, un altro pianeta" a Milano

Ciao a tutti.

Chiunque dovesse trovarsi a Milano il 28 febbraio e 1 marzo e, sardo o no, dovesse amare particolarmente quella magnifica terra che è la Sardegna, potrebbe essere interessato a visitare la mostra fotogafica "Sardegna, un altro pianeta".

Verranno esposte quarantacinque fotografie del maestro Franco Fontana e di due giovani fotografi, Paolo Bianchi e Sveva Taverna.

Franco Fontana mostra il paesaggio sardo con i suoi colori e la sua forza primitiva. Paolo Bianchi le donne e le maschere, simbolo di una terra arcaica in perenne conflitto con la modernità, mentre Sveva Taverna si concentra su volti e persone, i loro legami e i loro rituali.

La mostra si terrà presso la Società Umanitaria, in via San Barnaba 48 a Milano il 28 febbraio e il 1 marzo. L'orario è dalle 10 alle 18 e l'ingresso è libero.

Una piccola anteprima la si può avere qua.

2.1.09

Senza titolo 1138






<…NATALE CON CHI VUOI!>


 


 


SENTITE A ME! FIN D'ORA.


PER IL PROSSIMO NATALE,


NON SFORZATEVI DI OSSERVARE


 


LA TRADIZIONE CHE RECITA :


<NATALE CON I TUOI…> !


 


FA’ COME PER PASQUA:


<… PURE NATALE CON CHI VUOI!>


 


Passate le feste...


Questo è uno scritto, sempre purtroppo riproponibile,


da me edito nel gennaio 1994


 


Quello stato d’animo  confuso e vagamente 


depresso che segue le feste è forse


un’occasione per interrogarsi


  ^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^


 


       Le feste – non  esitiamo a dirlo – sono ormai  un  dramma  sociale; qui infatti l’uomo condensa tensioni  d’ogni  natura,  superiori   alla   propria quotidiana portata per un  intero anno. Le festività natalizie non vengono colte come occasione di riscoperta del proprio prossimo  da amare come sé stessi: è che, per amare il proprio prossimo come se stessi, bisognerebbe innanzitutto amare, vale a dire capire, e accettare, sé stessi come si è.


 


       Ma le feste natalizie (ma anche quelle pasquali, o di ferragosto...) sono troppo piene di luoghi comuni da osservare, tali che si obbedisce – come al classico riflesso condizionato – al dovere di  “stare con i tuoi, a Natale” e “con chi vuoi a Pasqua”, anche quando non ne hai alcun piacere. Eppure un altro topos, come quello dei “parenti come le scarpe, che più son strett’ e più fanno male”, viene spesso osservato quasi tutto l’anno! (*)


 


       E’ che si coltivano troppe speranze, aspettative cioè che gli altri – sempre gli altri – si comportino “come dico io”. Indubbiamente, non c’è nessuno che dentro non senta, comunque, quella vitale scintilla d’amore altruistico, seppure soffocata dai piaceri del mondo che mortificano lo spirito. Ma questo spirito chiama comunque a raccolta: un’annosa palude vien scossa dalla sua falsa quiete, dall’immobilismo, per ridestare alla vita individui languenti d’una società sempre più rotolante verso il precipizio d’un coma profondo.


 


       Ogni festività vede il messaggio della vita e dell’amore, smarrito e ricoperto di persuasivi messaggi che distruggono la capacità di intendere e volere. E il sentire che certe cose si fanno per dovere (da parte di una madre verso un figlio, ad esempio(*) può rendere l’idea di come il rapporto non possa non nuocere sia alla madre – che non agisce per “piacere” – sia al figlio, che –essendo un individuo con proprie antenne – recepisce gli effetti negativi del dovere: a che pro’ quindi fare una buona azione se non è condita dalla gioia e dalla voglia di dare serenità e armonia? Tanto vale non farla, questa buona azione; se non altro il rapporto potrà dirsi franco; infatti la madre non avrà accumulato – nè per sé nè per il figlio – quella tensione stressogena, che porta a manifestare comportamenti patologici per sé, nell’immediato, e -per il figlio- in prospettiva.


 


       La gente è malata tutto l’anno e non se ne accorge, finché, in prossimità delle festività, non si sente costretta a fare a meno delle proprie abitudini quotidiane, costretta a rapporti sostanzialmente indesiderati (fare buon viso a cattivo gioco).


 


       Così, un’occasione di intima condivisione e solidarietà viene sprecata, lasciando il posto ad un illusorio “tanto rumore per nulla”: il “clou” d’ogni festa, come gli spari a mezzanotte a San Silvestro, è preceduto dall’ansia di riportare la propria intima solitudine – mascherata a volte da esteriore e grassa allegria – tra le proprie più rilassanti quattro mura domestiche.


 


       Caso apparentemente strano: tutti pare che stiano bene  prima delle feste, ma durante e dopo...! Il fatto è che vi è un indaffararsi dapprima entusiastico per manifestare, con una sorta di mero baratto di doni materiali, l’intenzione – non seguita dall’azione – di donare anche se stessi, che resta spessissimo bloccata e richiusa in sé: quanti ripensamenti e pentimenti!


 


       La Tradizione diviene una catena che ci fa tossicodipendenti:  sappiamo già che riunirci per le feste ci farà male, ma lo facciamo lo stesso. Il fatto è che non si prende coscienza che la propria Coscienza ha bisogno, appunto, di prendere coscienza: “Una parete, immensa, unisce due stanze, se parete non c’è che mi divida da te”.


Fiore Leveque


 


 


(*) un esempio calzante: Parenti serpenti!)


 


AAA NUOVO DE NICOLA CERCASI  1^ puntata


http://scuoladivita.splinder.com/post/19302061    


 


DA DIOGENE A CRISTO GESU’ 2^ puntata De Nicola


http://scuoladivita.splinder.com/post/19399226   


 
 


 

8.5.07

Prosegue l'opera di

"La Civiltà Cattolica" rompe il silenzio. Su Romano Amerio
 
Era il più autorevole e colto rappresentante della critica alla Chiesa in nome della Tradizione, eppure per decenni fu come vietato discutere il suo pensiero. La rivista dei gesuiti di Roma ha rotto il tabù. Autorizzata dall'alto

di Sandro Magister


dal sito http://chiesa.espresso.repubblica.it





ROMA, 23 aprile 2007 – Su "La Civiltà Cattolica", la rivista dei gesuiti di Roma stampata col previo controllo e l'autorizzazione della segreteria di stato vaticana, è uscita una recensione che segna la fine di un tabù.

Il tabù è quello che ha cancellato dalla pubblica discussione, per decenni, il pensiero del più autorevole e colto rappresentante della critica alla Chiesa del XX secolo in nome della grande Tradizione: il filologo e filosofo svizzero Romano Amerio (nella foto), morto a Lugano nel 1997 a 92 anni di età.

Amerio, che pure fu sempre fedelissimo alla Chiesa, condensò le sue critiche in due volumi: “Iota unum. Studio delle variazioni della Chiesa cattolica nel XX secolo”, cominciato nel 1935 e ultimato e pubblicato nel 1985, e “Stat Veritas. Séguito a Iota unum”, uscito postumo nel 1997, entrambi per i tipi dell’editore Riccardo Ricciardi, di Napoli.

Le parole latine nel titolo del primo volume, "Iota unum", sono quelle di Gesù nel discorso della montagna: "Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non son venuto per abolire, ma per dare compimento. In verità vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà neppure uno iota o un segno dalla legge, senza che tutto sia compiuto" (Matteo 5, 17-18). Lo iota è la più piccola lettera dell'alfabeto greco.

"Iota unum", di 658 pagine, fu ristampato tre volte in Italia per complessive settemila copie e poi tradotto in francese, inglese, spagnolo, portoghese, tedesco, olandese. Raggiunse quindi molte decine di migliaia di lettori in tutto il mondo.

Ma nonostante ciò scese su Amerio un quasi totale censura, nella Chiesa, sia quando era in vita sia dopo.

La recensione della "Civiltà Cattolica" segna quindi una svolta. Sia per dove e come è stata pubblicata, con l'autorizzazione della Santa Sede, sia per le cose che dice.

Propriamente, la recensione riguarda un libro su Amerio pubblicato nel 2005 dal suo discepolo Enrico Maria Radaelli. Ma al centro dei giudizi del recensore c'è indiscutibilmente il grande pensatore svizzero.

E i giudizi sono largamente positivi: sia su "la statura intellettuale e morale di Amerio", sia su "l’importanza della sua visione filosofico-teologica per la Chiesa contemporanea".

Il recensore, Giuseppe Esposito, è psicologo e fine conoscitore di teologia. Pur non concordando in tutto con Amerio, sostiene che il suo pensiero "merita una discussione più approfondita" e "senza pregiudizi".

In particolare, scrive, "appare riduttivo archiviare la sua riflessione – e quella di Radaelli – nell’ambito del tradizionalismo nostalgico, come una posizione ormai superata, incapace di comprendere le novità dello Spirito".

Al contrario, sostiene il recensore, il pensiero di Amerio "conferisce una forma e un contenuto filosofico a quella componente ecclesiale che, sulla scia della Tradizione, è protesa a salvaguardare la specificità-identità cristiana".

Forma e contenuto filosofico che si identificano per Amerio nel "primato della verità sull’amore".

Il nesso tra verità e amore, come si sa, è al centro dell'insegnamento di Benedetto XVI.

Ecco dunque riprodotta qui sotto la recensione apparsa su "La Civiltà Cattolica" del 17 marzo 2007, n. 3762, alle pagine 622-623.

Il libro recensito, il primo organicamente dedicato alla vita e al pensiero di Romano Amerio, è il seguente:

Enrico Maria Radaelli, "Romano Amerio. Della verità e dell’amore", Marco Editore, Lungro di Cosenza, 2005, pp. XXXV-340, euro 25,00.

emergenza femminicidi non basta una legge che aumenti le pene ma serve una campaga educativa altrimenti è come svuotare il mare con un secchiello

Apro l'email  e tovo  queste  "lettere "   di  alcuni haters  \odiatori  ,  tralasciando  gli  insulti  e le  solite  litanie ...