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2.11.24

diario di bordo n 84 anno II Infermiera tenta il suicidio sui binari del treno, il macchinista scende e la salva: «Oggi è mio marito e il padre dei miei figli»., «Io, operaia da 30 anni nella fabbrica di cioccolato, qui ho conosciuto anche mio marito. Ora la nostra vita è appesa a un filo»., La perdita di un figlio e la speranza: «L’amore è più forte della morte».,


L'amore arriva quando meno te lo aspetti, si dice. E lo può confermare Charlotte, che ha conosciuto il suo futuro marito sui binari del treno, in un momento particolarmente difficile della sua vita. La donna, un'infermiera di 33 anni, quella mattina voleva togliersi la vita a causa di diversi problemi di salute

mentale, tra cui un disturbo da stress post traumatico. Ma il macchinista si è fermato, è sceso, si è avvicinato e si è inginocchiato di fronte a lei. Poi le ha detto il suo nome, e ha chiesto quello di lei. Una scena che sembra provenire direttamente da un film. L'uomo è riuscito a placare la sofferenza di Charlotte e l'ha aiutata a rialzarsi, in tutti i sensi.
Il salvataggio e il matrimonio
«Trova qualcuno che ti guardi così, quando non te ne accorgi», scrive Charlotte Lay nella didascalia di una delle foto che la ritraggono assieme al marito il giorno delle nozze. Il loro amore è iniziato in un giorno nefasto, quando la donna ha agito d'impulso e mentre si stava dirigendo al lavoro si è seduta sui binari del treno, in attesa di essere colpita.
Ma alla guida di quel treno c'era Dave Lay, che è sceso e le ha tenuto compagnia per circa mezz'ora, riuscendo a calmarla, a guadagnare la sua fiducia e a farla salire a bordo. L'ha salutata alla stazione di Skipton, dove l'attendeva la polizia. Il giorno dopo Charlotte ha cercato quell'uomo su Facebook per ringraziarlo di ciò che aveva fatto, e i due hanno iniziato a scambiarsi messaggi, quasi ogni giorno.
Poi c'è stato il primo incontro faccia a faccia per un caffè. Il resto è storia: dopo tre anni si sono sposati, quando Charlotte era incinta del primo figlio. Ce ne sono stati altri due, da allora. La conversazione di quel giorno, da quello che ricordo, era sulle nostre vite, nulla di che, ma abbastanza per farmi superare il momento di crisi - racconta la donna -. Non sentivo più la vita così pesante», dice al Daily Mail.

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«Quando sono entrata per la prima volta in stabilimento avevo appena 18 anni, ero una ragazzina. Ho vissuto più di 30 anni a stretto contatto con il cioccolato, prima nel reparto modellaggio poi nel reparto fabbricazione. Ora la mia vita è in un limbo». Rossella Criseo è tra quei 115 lavoratori e lavoratrici che
non riescono a immaginare il proprio futuro anche solo tra qualche mese. L’azienda per cui lavora, la multinazionale svizzera del cioccolato Barry Callebaut, ha deciso di chiudere lo stabilimento di Intra, Verbano Cusio Ossola. «Da un giorno all’altro - dice -. A settembre ci hanno comunicato che la fabbrica avrebbe chiuso nel primo trimestre 2025. Poi la proprietà ha accettato di prolungare lo stop alla produzione al 30 giugno».
Ora si tenta la strada della reindustrializzazione, anche se l'azienda ha escluso l'apertura a eventuali competitor interessati. «Se non verrà trovato un acquirente? Anche mio marito è un dipendente, ci siamo conosciuti in reparto. Il destino della nostra famiglia è appeso a un filo. I nostri colleghi si trovano nella stessa situazione: lontani dalla pensione, con mutui da pagare e figli da mantenere». Rossella Criseo, nella Rsu Cisl da tre anni, è entrata per la prima volta in stabilimento quando la proprietà era ancora del marchio Nestlé. Poi la chiusura nel 1999 e il salvataggio di Barry Callebaut, che ha permesso alla fabbrica di raggiungere i cento anni di produzione. «Un anniversario che avremmo festeggiato proprio quest’anno – dice -. Invece abbiamo davanti lo scenario più desolante possibile».
Criseo è cresciuta con il profumo di cioccolato sotto il naso, che ogni giorno avvolgeva lo stabilimento. «Lo si poteva percepire già fuori alla mattina, prima di entrare in azienda, soprattutto con il vento. Era un odore che caratterizzava il quartiere. Una realtà che potrebbe non esistere più, ennesima chiusura in un territorio che in passato, invece, aveva una vocazione industriale». Dopo l’incontro di ottobre al Ministero delle Imprese e del Made in Italy (in cui è stata delineata la strada della reindustrializzazione) lo stabilimento è ora nelle mani di Vertus, società incaricata da Barry Callebaut per trovare un nuovo acquirente. Giovedì 31 ottobre si è svolto l’incontro con la Regione Piemonte, dove il sindacato ha ribadito che sarebbe necessario aprire la possibilità di cessione a un competitor per facilitare il percorso di reindustrializzazione. Ci si aggiornerà nuovamente al prossimo tavolo, convocato per il 26 novembre.
Criseo, che ha partecipato ai comitati aziendali europei, racconta che l’intenzione di chiudere il sito di Intra non è mai stata manifestata: «La scorsa primavera abbiamo persino incontrato il direttore dell’area Sud Est Europa, Esteve Segura. Ci aveva rincuorato sul futuro di Intra. Nel 2024, oltretutto, abbiamo raggiunto volumi record chiudendo l’anno fiscale con oltre 67mila tonnellate». Cioccolato su cioccolato, quello liquido che nel reparto di Rossella Criseo si scarica dai serbatoi e si carica nelle cisterne per i clienti.
«Ci siamo sempre dati da fare, siamo stati disponibili a lavorare il sabato, la domenica, a fare le notti, a lavorare nei riposi compensativi. Siamo stati i primi in Italia a fare le “squadrette”, a lavorare 7 giorni su 7. E ora l’azienda ci ripaga così? Io, i miei colleghi e le mie colleghe, siamo delusi e non sappiamo cosa ne sarà di noi. Di spostarsi non se ne parla, e neanche di cambiare settore dopo oltre 30 anni di lavoro

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«Pensavo di andare veloce, il Vento mi ha condotto lentamente a stare seduto ad ascoltare i punti interrogativi che passeggiano in questa parte di vita». Tra i punti interrogativi di don Francesco Fiorillo, custode e responsabile della Fraternità Monastero San Magno di Fondi (Latina), c’è da tempo il dolore dei genitori che hanno perso un figlio. Ferite a cui questo sacerdote, “nuotatore controcorrente” come lui stesso si definisce, ha prestato attenzione ancora prima di entrare in seminario, quando aveva 18 anni, di fronte allo strazio dei genitori di un amico fulminato da una overdose di ecstasy. Da allora il pensiero di quella sofferenza che sconvolge e annienta l’ha sempre accompagnato e l’ha portato successivamente, quando è nato quel “porto di terra” che è la Fraternità di Fondi, a dare vita a un gruppo di genitori “orfani di figlio”. L’ha voluto chiamare Nain, la località poco lontano da Nazareth «dove la disperazione, il senso di abbandono, la ribellione verso Dio e l’umanità, vengono toccati e trasformati». Ma è davvero possibile accompagnare e dare sollievo al dolore di una mamma, di un papà che si sono visti portare via il figlio per una malattia, per un incidente stradale, per un suicidio (seconda causa di morte tra i ragazzi al di sotto dei 30 anni), per una overdose, oppure per una di quelle congiure di crudeltà che chiamiamo bullismo?
Papa Francesco, indicando come intenzione di preghiera per il mese di novembre il dolore dei genitori, ricorda che si tratta di un dolore «particolarmente intenso» e al di fuori di ogni logica umana, perché «vivere più a lungo del proprio figlio non è naturale». Siamo così impreparati a sopravvivere alla morte di un figlio che nemmeno il nostro dizionario ha una parola adatta per descrivere questa condizione di vita. «Pensateci: quando un coniuge perde l’altro, è un vedovo o una vedova. Un figlio che perde un genitore è un orfano o un’orfana. Esiste una parola per dirlo. Ma per un genitore che perde un figlio – osserva ancora il Papa nel videomessaggio – una parola non c’è. È un dolore così grande che non esiste nemmeno una parola». Bisogna inventarla, come don Fiorillo è stato costretto a inventare parole di senso di fronte alle domande impossibili dei genitori annichiliti dal dolore. Non perché quelle risposte abbiano un senso solido e definitivo – come si fa a dire che la morte di un figlio è “sensata” – ma perché, spiega, quelle domande vanno comunque fatte e, riflettendo insieme, «si spalancano nuovi orizzonti verso l’infinito, si rende più digeribile il futuro».
Vediamo allora alcune delle domande messe in fila dal custode della Fraternità di Fondi e ordinate in un libro, Funamboli. Genitori che camminano sul filo dell’oltre (Paoline, pagine 197, euro 16) che in una giornata come quella di oggi dedicata alla memoria dei nostri defunti, potrebbe diventare un viatico confortante per tante mamme e tanti papà. «Come posso vivere il dolore?», si chiedono i genitori del gruppo Nain. E don Francesco risponde che il dolore è come una ferita che non va coperta da un cerotto. Per rimarginarsi deve prendere aria. Ma il dolore non fa crescere? «Non l’ho mai creduto», risponde il sacerdote, «è l’amore che fa crescere, quello che riusciamo a versare nello squarcio del dolore». Ecco perché di fronte al dolore, anche a quello più atroce e assoluto, non bisogna scappare, bisogna stare, «accettare il silenzio della vita davanti alla prova», che poi per il credente significa «accettare il silenzio assordante di Dio durante le nostre sofferenze».
Ma ci sono altri atteggiamenti da imparare se si vuole convivere con il dolore senza che quell’artiglio implacabile afferri il nostro cuore e lo renda giorno dopo giorno indifferente alla vita, all’amore, al mondo. Può succedere, ma bisogna evitarlo. Sbagliato allora «lamentarsi e piangersi addosso», oppure «dare la colpa a qualcuno» per quello che è successo. E, ancora, nascondere il proprio stato d’animo, mascherare le ferite. Tutto sbagliato, anche nella sofferenza più lancinante che potrebbe indurre a scappare, a nascondersi, a evitare parole e contatti, dobbiamo parlare e condividere. «Penso a quanto ci faccia bene – riflette ancora don Fiorillo – lasciarci toccare dagli altri”»
Ma la domanda più atroce, quella che investe tutta la vita e che la può stravolgere, è per il credente sempre la stessa: «Dove eri, Dio? Tu che sei l’amore, come puoi far morire mia figlia? Se è vero che ci sei, perché hai permesso che accadesse?». Questioni da lasciare senza fiato, da ascoltare in silenzio, evitando di ripetere frasi che don Francesco definisce «bestemmie». Del tipo: «Dio strappa i fiori più belli per piantarli nel suo giardino, i vostri figli non vi appartengono, sono di Dio». Sbagliato. Sono parole che non confortano nessuno. Che dire allora, che fare? «Lasciare che le domande e l’incredulità e anche la rabbia verso Dio fluiscano, come un fiume, senza trattenerle». Perché Dio sente il dolore dei genitori diventati “orfani” di un figlio, di una figlia, «ha una immensa sensibilità, così grande da stare in silenzio per amore, anche quando noi vorremmo risposte».
La seconda parte del testo, quella dove strazio e conforto si mescolano e si confondano, ospita dodici testimonianze di genitori che raccontano il figlio che non c’è più. Sono mamme e papà che partecipano al gruppo di Nain e che in qualche modo, hanno saputo affrontare il dolore e hanno cercato ragioni, parole, contatti per non soccombere. Ma leggere quei ricordi vuol dire, soprattutto per un genitore, condividere e piangere con loro. Ma scoprire anche, inaspettatamente, che la speranza può rinascere insieme alla consapevolezza, come scrive Teresa, una mamma, «che vita e morte sono tutt’uno, che l’amore non conosce barriere ed è più forte della morte».

6.10.24

diario di bordo n 80- anno II C’è una maestra alle Tremiti: “Io, pendolare e precaria riapro la scuola dopo 21 anni” , Toghe choc: vietato licenziare chi viola le norme di sicurezza , sicurezza sul lavoro non solo colpa dei padroni


la prima è una storia come Un mondo a parte, regia di Riccardo Milani (2024)

C’è una maestra alle Tremiti: “Io, pendolare e precaria riapro la scuola dopo 21 anni”





Foggia, 5 ottobre 2024 – Alle isole Tremiti il primo giorno di scuola è arrivato con due settimane di ritardo. Finalmente è sbarcata sull’isola un’intrepida insegnante di 64 anni, Michela Liuzzi, maestra ancora precaria nonostante sia ormai vicina alla pensione. Ma è grazie a lei, a questa volitiva docente di Apricena (Foggia), che quest’anno i sette bambini della primaria del piccolo arcipelago, a nord del promontorio del Gargano e

Comune più settentrionale della Puglia con 496 residenti, potranno sedere tra i banchi, come nel resto d’Italia. “Alcuni giorni fa, l’Ufficio scolastico regionale mi ha proposto di venire in questa sede. La scuola era chiusa dal 2003, perché non c’erano abbastanza bimbi, ma quest’anno, grazie all’arrivo di 7 studenti, si poteva riaprire.Tuttavia, due colleghe avevano rifiutato l’incarico. E così mi sono trovata di fronte a una scelta difficile. Non nego di averci pensato a lungo: accettare significava partire dal mio paese, attraversare il Gargano e affrontare la traversata ogni settimana. Ma alla fine, il pensiero di poter far rivivere questa scuola mi ha convinta”. Michela è stata accolta a San Nicola, ‘capitale’ delle Tremiti, come un’eroina. Grazie a lei i piccoli alunni potranno frequentare regolarmente l’aula scolastica e imparare i primi rudimenti della grammatica e della matematica. “Rifiutare significava essere cancellata dalle graduatorie e vedere sfumare le poche possibilità di continuare a insegnare. Ma…”

Ma?

“L’ho fatto soprattutto per passione. Amo insegnare, amo i bambini e il legame che si crea in aula. L’insegnamento è una missione che ho nel cuore da tutta la vita”.

La sindaca Annalisa Lisci, che ha alle spalle una lunga esperienza da ristoratrice, promette che l’inviterà a pranzo e cena ogni volta che lei vorrà. Quindi ha avuto un’accoglienza con il tappeto rosso?

“Quando sono arrivata al molo, c’era già un piccolo studente, Andrea, che mi aspettava con la sua mamma. È stato un momento speciale, ero emozionata, anche un po’ agitata, ma mi sono sentita subito la benvenuta. Ho capito che, nonostante tutto, ne sarebbe valsa la pena. E poi, l’accoglienza delle famiglie è stata meravigliosa. Mi hanno fatto sentire a casa”.

Dopo le feste di benvenuto, dovrà affrontare i problemi concreti di tutti gli isolani: la solitudine, l’isolamento, la distanza dalla terraferma. Non potrà fare la pendolare come molte sue colleghe precarie. Ci ha già pensato?

“Resterò sull’isola dal lunedì al venerdì, per dedicarmi interamente ai miei alunni. Ogni venerdì, “meteo permettendo”, prenderò il traghetto per tornare a casa, ad Apricena, dove mi aspetta mio marito. I nostri figli, ormai grandi, vivono a Roma. Loro mi hanno sostenuta molto in questa scelta. Sanno quanto l’insegnamento conti per me”.

Le auguro di avere sempre un buon meteo, allora.

“Lo so che posso rischiare di restare bloccata anche per giorni, ma credo di avere un compito: dare una istruzione di qualità a questi sette bambini”.


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la seconda storia riportata sotto si collega alla prima e alla vignetta del ruggito del coniglio cita in essa .
Inizialmente forse influenzato dai film di Checco Zalone Sole a catinelle (2013) , Quo vado?(2016) entrambi per la regia di Gennaro Nunziante pensavo visto il titolo che
era fregarsene e lavorare ., non capisco questa smania del posto fisso e di un lavoro che corrisponda a quello che hai studiato . Almeno all'inizio poi con la gavetta e sacrifici tiu metti in proprio e ti crei il lavoro per cui sei portato ) . Pensa ai in nostri nonni quando non emigravano , facevano mille lavori per portare a casa il pane e tirare avanti mica si lamentavano . Adesso si sceglie la scorciatoia d'andare all'estero . magari per fare glistessi lavori che ti offrono in italia oppure ci si lamenta e ci si sconforta \ piange addosso.Poi   mi  pare    ne  commenti  all'articolo su  mns    mi  hanno  risposto  che  la  realtà è un altra  .

Il problema non è il posto fisso. E' trovare un lavoro con continuità, perché se tra un posto e l'altro passano mesi o anni senza stipendio... Diventa un problema. Ai tempi dei nostri nonni era molto più facile trovare un posto, se si aveva voglia di lavorare. Adesso non lo è più, soprattutto quando sei giovane e non riesci ad entrare da nessuna parte. 
Se poi parliamo di estero... Non è facile trovare lavoro ad esempio nel Regno Unito, dopo la Brexit, anche se magari hai preso la laurea proprio lì.
   

   ecco la storia  a  voi ogni giudizio in merito 


«Ho un dottorato di ricerca ma a 38 anni non riesco a trovare un lavoro, vivo con impieghi part-time. Mi pento di tutto il percorso che ho fatto»

«Si, sono laureato, ma è un errore di gioventù del quale sono profondamente consapevole…ho inoltrato una richiesta per rinunciare al mio titolo accademico, tempo due settimane io ho praticamente la quinta elementare…». A dirlo è Pietro Sermonti in Smetto quando voglio, film di Sydney Sibilia che usciva ormai dieci anni fa. Nella pellicola, Sermonti è un antropologo iperqualificato che cerca lavoro come operaio, vista l'impossibilità di dare frutto ai suoi studi nel mondo lavorativo. Mentre fa un colloquio con il titolare dell'officina meccanica si lascia però scappare un «c’è stata un’aspra diatriba legale» che lo "smaschera" davanti al datore di lavoro che di laureati non ne vuole sentire nemmeno parlare.È una scena che sintetizza molto bene il mondo del precariato, da noi in Italia come in altre parti del mondo, come per esempio negli Usa, dove non sempre si raggiunge l'agognato "sogno americano". Lo sa bene A. Rasberry, che negli ultimi 10 anni ha dato un’enorme importanza all'istruzione. Oggi, però, si trova a pentirsene amaramente.Dopo aver conseguito una laurea triennale, un master e un dottorato in gestione aziendale presso la Saint Leo University in Florida, Rasberry si è trovata inaspettatamente in difficoltà. Da quattro anni, racconta a Business Insider, cerca disperatamente un lavoro nel suo settore, senza successo, e nel frattempo il suo debito universitario ha superato i 250.000 dollari.Dopo il dottorato, Rasberry ha iniziato a cercare ruoli nel management aziendale, ma con scarsi risultati. Questo l’ha portata a dover ampliare il raggio di ricerca e valutare una carriera alternativa, come quella infermieristica, per poter pagare le bollette. «Pensavo che l'istruzione fosse la strada per la libertà finanziaria - ammette con amarezza - ma mi sbagliavo».
Inizialmente la donna voleva lavorare come docente universitaria, ma ha scoperto che avrebbe dovuto tornare a studiare ancora per ottenere ulteriori crediti. Così ha deciso di abbandonare il sogno dell’insegnamento e cercare ruoli nel management aziendale, il settore in cui si è specializzata. Tuttavia, anche questa ricerca si è rivelata difficile: «Sono sovraqualificata per i ruoli di base e sottovalutata per quelli più importanti», ammette. Un paradosso che non le permette di collocarsi da nessuna parte. Rasberry consiglia a chi vuole proseguire gli studi di valutare bene i programmi di collocamento lavorativo e le partnership per gli stage. «Ho imparato che la maggior parte delle aziende preferisce l'esperienza all'istruzione», afferma con rammarico.
Una via d'uscita
Nel frattempo, la 38enne ha svolto molti lavori part-time per pagare le bollette fino ad avvicinarsi al mondo dell'infermieristica, lavorando anche 80 ore a settimana. «È praticamente impossibile coprire le spese in Virginia con un solo lavoro», spiega, aggiungendo che guadagna 21,50 dollari all’ora, ben al di sotto della media nazionale per le infermiere. Nonostante abbia trovato anche una certa soddisfazione nel settore, non lo considera un lavoro a lungo termine per via della bassa paga e delle limitate opportunità.Negli ultimi mesi, Rasberry ha finalmente avuto un piccolo colpo di fortuna. Ha ottenuto un ruolo da remoto come consulente per un piano nel settore infermieristico, con un salario annuale di circa 70.000 dollari, equivalenti a più di 30 dollari l’ora. Anche se questo rappresenta un passo avanti, non è ancora abbastanza per farle dimenticare il suo vero obiettivo. «Continuerò assolutamente a cercare ruoli meglio retribuiti nel mio campo di studio», conclude Rasberry.

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un po giustificazione e scaricabarile \  autoassoluttoria , ma  vero  in parte perchè capita anche s'è    un numero infinitesimale rispetto  alla  somma  totale ,capita     che   gli incidenti molto spesso  mortali   sul lavoro sia colpa dei lavoratori  stessi  . 




  per  concludere sempre  sul mono del  lavoro


da ILGiornale tramite mns.it




Niente imbragatura. I guanti infilati in tasca e il caschetto non allacciato. Il lavoratore era in un ambiente molto pericoloso, ma si era disfatto dei dispositivi di protezione. Il licenziamento - spiega però in modo sorprendente il giudice del lavoro - è una misura eccessiva e sproporzionata. Non era la prima volta che questo accadeva, ma il magistrato minimizza o comunque si schiera dalla parte dell'operaio e di quelli come lui. É stato a dir poco sciaguratamente superficiale, ha messo a repentaglio la propria vita e l'ha fatto a dispetto delle intimazioni ricevute dall'azienda in cui prestava servizio. Ma va bene così. Le
sentenze parlano chiaro: accade al tribunale di Venezia e a quello di Ascoli Piceno.Esiste nel nostro Paese una cultura perdonista che, gira e rigira, giustifica le mancanze, anche quelle ripetute, anche quelle che fatalmente portano all'incidente e talvolta alla morte.È la stessa mentalità che affiora in alcuni contratti collettivi del lavoro. D'accordo per la sanzione, quando il lavoratore trascura per sciatteria le precauzioni minime obbligatorie per legge e fornitegli dalla società da cui riceve la retribuzione, ma i sindacati non si spingono mai a sottoscrivere punizioni gravi per gli iscritti inadempienti.È davvero singolare che l'eterno, drammatico dibattito sulle morti del lavoro non tenga conto, anzi non faccia proprio emergere, questa grave lacuna. Si discute di appalti e subappalti, del lavoro nero e della mancanza di ispettori, da potenziare.Tutto vero. Ma i dati dell'Inail dicono che almeno il 50 per cento degli infortuni dipende dalla più elementare e sventurata dimenticanza: non aver messo quegli strumenti che potevano fare la differenza. L'imbragatura. Il caschetto ben allacciato. I guanti. Gli occhiali che in molte situazioni preservano da conseguenze potenzialmente devastanti.Parliamo, come si capisce, di accorgimenti minimi che richiedono un'attenzione di pochi secondi, ma tante volte é qui che ci si blocca. L' abitudine è una cattiva consigliera e qualche volta porta dritti al disastro.Ma il tribunale va per la sua strada. Il caso che si presenta in uno stabilimento di Marghera è clamoroso: «Se il lavoratore poteva in qualche modo giustificare l'assenza (imbragatura) o non utilizzo (guanti) o non corretto utilizzo (caschetto) dei DPI (dispositivi di protezione individuale) in dotazione, ciò che non può essere giustificato è il rifiuto ad utilizzarli e l'insistenza nel voler affermare di doverli utilizzare».Insomma, non si trattava di una dimenticanza, ma di una sorta di insubordinazione ad alto tasso di ideologia. Un rifiuto totale dei dispositivi di protezione. Licenziamento per giusta causa? Il non utilizzo c'è tutto ed è pure teorizzato. Ma il giudice ridimensiona il fatto e la disubbidienza: «Si trattava tuttavia di una condotta che non assurge a giusta causa, per il difetto di proporzionalità fra fatti e condotta. La giusta causa di licenziamento deve rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali nel rapporto di lavoro». Evidentemente, per il magistrato la sicurezza sul luogo di lavoro non tocca la sfera degli elementi essenziali. Non è grave, anche se gravissime possono essere le ricadute di questo atteggiamento, addirittura rivendicato dal dipendente.Anche ad Ascoli Piceno va in scena un copione del genere: il dipendente va nel reparto stampaggio senza gli occhiali e viene sanzionato con la sospensione per un giorno; qualche tempo dopo, la storia si ripete e di nuovo scatta la sospensione. La terza volta l'azienda procede con il licenziamento per giusta causa, ma il giudice lo annulla.Il motivo? È vero che la recidiva può portare alla fine del rapporto di lavoro, ma la mancanza deve essere grave. E qui non c'è la prova: o meglio non c'è la certezza che in quel momento i macchinari fossero in moto. Dunque, il danno da incidente sarebbe stato lieve. Il licenziamento cade anche in questo caso.



5.11.12

I NON BAMBOCCIONI , IL LAVORO NERO \ MORTI BIANCHE E LA POLITICA

Ci  sono  anche  storie  di ragazzi  " non schizzinosi "  che  non sono  nè  bambocioni nè pessimisti  \  sconfortati    ecco alcune storie   


«Laureati,non siamo schizzinosi» Storie di ragazzi che smentiscono il ministro Fornero:«Siamo pronti a tutto»


di Sabrina Zedda
CAGLIARI Dell’aiuto di mamma e papà ne fanno a meno:sanno quanti sacrifici hanno già fatto per
loro e non sono intenzionati a chiederne di più. Ma ai loro sogni non rinunciano. E allora altro che “choosy” (schizzinosi) come ha detto, tristemente, la ministra Elsa Fornero, la quale ha mostrato di inciampare ogni tanto sulle parole : inattesa di trovare il lavoro che possa dare dignità agli anni passa-
ti dietro a un percorso universitario c’è chi si offre per fare le pulizie, chi passa le serate servendo in ristorante e chi,stanco delle solite promesse,si reinventa artigiano.
Altro che schizzinosi i giovani laureati: concreti piuttosto,e perfino altruisti perché per loro lavorare significa creare un valore di cui possano beneficiare tutti. E’ il caso di Sara Cacciuto, 36 anni e due lauree: una di primo livello come Educatrice ambientale all’Università dell’Aquila, l’altra,magistrale, conseguita a marzo all’Università di Roma 3 in Scienze dell’educazione degli adulti. Tra l’una e l’altra un sfilza di lavoretti. «A L’Aquila per mantenermi agli studi –racconta – facevo due lavori,entrambi in località a tre ore dalla città in cui vivevo :la guida naturalistica in un parco durante la settimana,la cameriera nel weekend : lavoravo in una pizzeria».Per Sara i sacrifici sono continuati anche durante il percorso per la laurea magistrale a Roma: «Una città dove la vita costa cara e dove mi sono adattata a fare di tutto: pulizie nelle case, collaborazioni con l’università…»Una fatica che Sara è riuscita a sostenere grazie alla forte motivazione: «Il mio sogno è  aiutare la gente della mia città a mettere a frutto le proprie potenzialità: in tempi di crisi perché le cose cambino è necessario puntare sul potenziale umano».Per fare questo Sara ora sta frequentando anche un corso di specializzazione ma i soldi sono sempre pochi  e il lavoro è poco: «Lavorerei pure in un call center, ma alla mia richiesta non 
hanno risposto ».Davvero per niente choosy questa giovane che però ha ben chiaro cosa significa dare

dignità al lavoro: «Un lavoro dignitoso è un lavoro che abbia una retribuzione congrua:posso anche  fare le pulizie,ma chiedere per questo meno di otto euro l’ora significherebbe sminuirsi».Idee chiare le ha anche Giovanna Pala  ( foto a  sinistra  ) 28 anni e una laurea col massimo dei voti e la lode in Storia dell’arte.« Arrivo da Mamoiada e voglio stare a Cagliari, dove ho la mia vita,ma non posso più chiedere ai miei genitori di aiutarmi».Così anche per lei, che sogna un futuro da critica d’arte per valorizzare il prezioso patrimonio culturale della Sardegna  (lasua tesi di laurea è stata un omaggio a Eugenio Tavolara) la scelta, nel frattempo, di accontentarsi d’altro: « Diverse sere a settimana lavoro come
cameriera in un ristorante»,dice.Il resto delle giornate insegna invece italiano agli stranieri in una cooperativa di Quartu: dovrebbe pagarla la Regione con il fondi per progetti a favore dei giovani disoccupati, ma, si sfoga, «è tutto bloccato e lavorare senza una retribuzione fa calare la motivazione». Un altro che pur di lavorare ha messo da parte i titoli di studio è Massimo, laurea in filosofia e anni passati alla ricerca di un posto da laureato.«Alla fine ho preferito fare da me–racconta–Grazie ai miei genitori ho potuto chiedere un prestito e mi sono aperto una foto copisteria».
Storie di oggi, di chi per andare avanti ha capito che bisogna stringere i denti. Eppure sognare un posto da laureato non significa essere choosy ma cercare di ottenere quello che spetterebbe di diritto: «Siamo solo giovani che vogliono andare avanti – dice Giovanna Pala–Non per essereschizzinosi,ma per daren
senso ai tanti anni di studi».

INCIDENTI SUL  LAVORO . I drammi E LE STORIE

di  Pier Giorgio Pinna
SASSARI Sono scampati alla morte bianca. Ma a un prezzo altissimo.Uno scuro calvario. Mesi di sofferenze e riabilitazioni. Sempre in attesa di qualche spiraglio di luce: la speranza di un reinserimento. Le loro sono vicende drammatiche. 
           Da sinistra,due lavoratori rimasti gravemente feriti:Angelo Addis,40anni,di Ittiri,e GiuseppeSechi,64,sassarese.
Affianco un  incidente  sul lavoro 

Eppure,speculari rispetto a quelle di compagni sfuggiti per un soffio a una fine atroce sotto un trattore o tra le macerie di un capannone crollato. Certo, tutti hanno avuto più fortuna delle decine di operai che ogni anno perdono la vita nell’isola: per
capirlo è sufficiente un’occhiata ai quotidiani degli ultimi mesi,quando la spirale degli infortuni si è fatta angosciante.Però chi rimane ferito a causa d’incidenti terribili poi deve affronta re un inferno. E non è facile riuscire a riprendersi, anzi. Quseta è la storia di chi alla fine ce  l’ha fatta.
Giuseppe Sechi ha 64 anni e da 43 guida di tutto: « Mi mancano solo navi e aerei,per 

emergenza femminicidi non basta una legge che aumenti le pene ma serve una campaga educativa altrimenti è come svuotare il mare con un secchiello

Apro l'email  e tovo  queste  "lettere "   di  alcuni haters  \odiatori  ,  tralasciando  gli  insulti  e le  solite  litanie ...