Lo che l'8 settembre è passato e quuindi secondo alcuni\e di voi ed la celebrazione rituaslistica sarei fuori tempo . Ma storie e vicende non hanno una data fissa e sono perchè anche chi le usa come mezo strumentale o ideologico sono ancora vive a prescindere dal calendario . Ma sopratttutto
Anche la disperazione impone dei doveri E l'infelicità può essere preziosa
Non si teme il proprio tempo, è un problema di spazio Non si teme il proprio tempo, è un problema di spazio
Geniali dilettanti in selvaggia parata Ragioni personali, una questione privata
Geniali dilettanti in selvaggia parata Ragioni personali, una questione privata
La facoltà di non sentire La possibilità di non guardare Il buon senso, la logica, i fatti, le opinioni, le raccomandazioni Occorre essere attenti per essere padroni di sé stessi Occorre essere attenti
Ma ora bado alle ciancie ecco le storie
8 settembre 1943: la città che salvò i soldati Il giorno dell’armistizio, i rastrellamenti dei nazisti. E il racconto di come Mantova si mobilitò con ingegno e coraggio per aiutare i militari abbandonati nelle caserme
di Nicola Saccani
La rinascita di Paraloup, prima borgata partigiana La seconda resistenza delle baite che nel settembre '43 furono quartier generale delle bande di Giustizia e Libertà: tornano a popolarsi per salvare memoria e ambiente
di Francesco Doglio
Seppellire 2000 partigiani, la missione di Nicola Grosa La storia del comandante piemontese che dopo la guerra recuperò le spoglie dei compagni scavando a mani nude “per dar calore ai resti”. Un’impresa che lo portò alla morte
Sesto Pusteria, 7 luglio 2021 – Nasim Eshqi è l’ospite d’onore della quinta edizione della Vertical Arena a Sesto Pusteria. Il rinomato forum specialistico sull’alpinismo, organizzato dall’Associazione turistica di Sesto Pusteria e dalla guida alpina Lisi Steurer, si svolgerà sabato 24 luglio a partire dalle ore 20. Dopo la proiezione del documentario “Climbing Iran”, che racconta la vita piena di ostacoli di Nasim Eshqi, l’unica climber professionista iraniana prenderà parte a una tavola rotonda sul tema “pioniere in montagna”I
In Europa e in molte altre parti del mondo è assolutamente naturale che delle giovani donne si aggrappino a una parete roccia e, con movimenti energici e allo stesso tempo eleganti, salgano verso l’alto, arrampicandosi per metri e metri. In Iran, però, le lancette degli orologi girano a un altro ritmo, anche nel XXI secolo. Lo sport femminile, quindi anche l’arrampicata, è malvisto nella società patriarcale. E quando possono, nella Repubblica Islamica – che conta più di 80 milioni di abitanti – a volte le atlete sono autorizzate a praticarlo, ma soltanto indossando rigorosamente il velo.Nasim Eshqi vive il suo sogno. Oltrepassa questi ostacoli. Nasim Eshqi compie un altro passo in avanti e stimola altre giovani donne in Iran ad arrampicare, per diventare forti e indipendenti, perché: “fa lo stesso se sei ricco o povero, nero o bianco, iraniano o italiano, uomo o donna: la forza di gravità riporta tutti per terra allo stesso modo e questo mi dà una sensazione di libertà e di uguaglianza”, è il credo di Nasim Eshqi.Un documentario premiatoLa vita di questa straordinaria persona è al centro dei 53 minuti del documentario “Climbing Iran” della regista Francesca Borghetti, che ha di recente vinto il premio del pubblico al Trento Film Festival. Questo ritratto di Nasim Eshqi sarà anche al centro della quinta Vertical Arena di sabato 24 luglio a Sesto e sarà proiettato alle ore 20. Al termine della proiezione la protagonista parteciperà a una tavola rotonda sul tema “pioniere in montagna”.Quest’anno la Vertical Arena si svolgerà in inglese (il documentario sarà sottotitolato in italiano) e si svolgerà all’aperto, davanti alla palestra d’arrampicata di Sesto. In caso di maltempo la manifestazione si sposterà nella Haus Sexten. I biglietti per il forum specialistico sono disponibili, al prezzo di 10 euro, fino a venerdì 23 luglio presso l’Associazione turistica di Sesto Pusteria (+39 0474 710310 oinfo@sexten.it). L’iscrizione è obbligatoria e l’accesso sarà consentito soltanto dietro esibizione del Green Pass (presso l’Associazione turistica è possibile informarsi a tal proposito).
Durante una serata del Trento Film Festival, “Climbing in Iran e libertà. Come la gravità porti all’uguaglianza”, abbiamo potuto conoscere NASIM ESHQI, l’unica climber professionista
iraniana che pratica l’arrampicata all’aperto, un’alpinista capace di aprire vie su roccia con all’attivo già una settantina di ascese.Una pioniera dell’arrampicata sportiva outdoor. Le montagne da scalare però, come sapete, in Iran non sono solo fisiche ma anche barriere sociali culturali e religiose. Nasim, è l’unica donna in Iran a fare dell’arrampicata all’aperto la sua professione: su 80 milioni di abitanti sono solo 300 le donne che praticano l’arrampicata in palestra con orari separati dagli uomini e solo una decine quelle che lo praticano outdoor, ma nessuna è al livello di Nasim. Nasim ha 36 anni, è cresciuta e nata a Teheran la capitale dell’Iran in un contesto popolare e tradizionalista. Ex atleta di kickboxing, scala da 13 anni, ha all’attivo diverse vie in Armenia, Georgia, Turchia ed è riuscita a raggiungere il livello di scalata 8b in parete.Facendo un passo indietro, già da piccolissima Nasim era una bambina ribelle, iperattiva, maestre e genitori non sapevano più come fare a contenerla. Lei soffriva perchè la fecevano sentire una bambina “anormale”. Crescendo non pensava certo al matrimonio, ma a praticare sport, prima il kickboxing, poi è stato amore a prima vosta con l’arrampicata. Uno sport che ha dovuto imparare praticamente da autodidatta, visto che in Iran è proibito per una donna scalare con un uomo, soprattutto se questo è molto religioso o sposato.Una passione “folle” dicevamo per l’arrampicata. Ha rinunciato, infatti, a tutto: ha lasciato il lavoro, ha iniziato a studiare Scienze Motorie e ha cominciato a viaggiare per migliorarsi. Nessuno ha fatto tutto questo in Iran.La gravità per lei è una “sorta di divinità imparziale”, perchè non fa differenza tra uomini e donne. “Quando arrivi ai piedi di una parete, nessuno ti chiede il passaporto. Davanti alla montagna siamo tutti uguali”.Nasim Eshqi ospite del Trento Film Festival
Per lei, dicevamo, perseguire questa sua passione in Iran, è pericoloso. Deve sempre stare attenta a quello che dice e alle interviste che rilascia. La società, infatti, la vorrebbe sposata, sempre con il capo coperto e un lavoro normale. I suoi genitori sperano che metta la testa a posto e metta da parte soldi per comprarsi una casa e un’auto.Ma lei va avanti per la sua strada, e lo fa in modo originale. Quando scala, infatti, mette lo smalto rosa shocking, anche se sa benissimo che arrampicando verrà via. “Se alla sera vedo che è rimasto poco smalto, sono contenta: vuol dire che ci ho dato dentro con l’arrampicata” scherza Nasim.Ha tanti sogni nel casetto, oltre che aprire una nuova via a cui dare il proprio nome sul monte Behistum, un enorme promontorio che si erge nel deserto, oggi patrimonio dell’Unesco, poco fuori Teheran, vorrebbe andare in Yosemite, anche se per il momento questo pare un obiettivo lontano.In Iran, in generale, fare sport è difficile, è considerata una perdita di tempo. In Iran, nonostante il talento, nessuno ti prende sul serio. Soprattutto se sei una donna.La condizioni della donna è cambiata dopo la Rivoluzione islamica del 1979. Ci sono foto che ritraggono atlete negli anni Settanta indossare uniformi simili a quelle Occidentali e con il capo scoperto. Mentre alle Olimpiadi di Rio del 2016, le atlete iraniane avevano testa, braccia e gambe coperte con tessuti tecnici. È proprio notizia di pochi giorni fa, che 5 donne sono state costrette a travestirsi da uomini per poter andare allo stadio eludendo la sicurezza. È quindi per questo che parte del tempo Nasim lo dedichi ad insegnare alle bambine: vuole che diventino scalatrici indipendenti.
da repubblica del 25\7\2021
A chiederle cosa si senta, se un’eroina, un simbolo o che altro, Nasim Eshqi sorride: «Eroina suona come una droga, decisamente no. Simbolo non so di che cosa. Diciamo che sono una persona che ha aperto molte vie su roccia, ma non solo su roccia, mi piace aprire diversi modi di pensare». Doverosa precisazione, perché Nasim è una climber, in italiano si potrebbe tradurre arrampicatrice, ma la parola ha uno spiacevole retrogusto di opportunismo e rampantismo. Lei invece si arrampica sulle montagne, scala pareti anche verticali con chiodi, cordae trapano, arriva in cima e scavalca là dove sembrava impossibile. Ed è la più brava che c’è in Iran, anche perché nel suo Paese le alpiniste sono poche, anzi in generale sono pochi gli alpinisti. Tante di queste vie le ha aperte altrove, anche in Europa e in Italia. «Il mio meraviglioso Iran è pieno di montagne, sarebbe un paradiso per la gente come me, ma un paio di scarpe da arrampicata costano come un mese di stipendio, la gente se va in montagna preferisce fare passeggiate e godersi il paesaggio. Bellissimo, ma ci si perde parecchio se non si sale in quota».
Sulle corde Nasim Eshqi, 39 anni, durante una scalata. In Iran sono pochissime le donne impegnate in questa disciplina
Lei non si è voluta perdere niente, e da 23 anni dei 39 che ha ora ha seguito le proprie passioni fino a farne un lavoro. Prima il kickboxing, di cui da ragazzina è stata per anni campionessa nazionale: «Questo sport mi ha dato una preparazione mentale importante, la determinazione ad andare avanti senza mollare fino alla fine anche quando tutto sembra perduto. Ma alla fine ho cambiato perché ho capito che il kickboxing è solamente una sfida con un’altra persona, l’arrampicata è una sfida con te stessa, contro i tuoi limiti, qualcosa di molto più difficile e appagante». E poi appunto le montagne, raggiungendo risultati così importanti, sia in assoluto sia per il fatto di essere donna, da meritarsi l’attenzione di Francesca Borghetti, regista italiana, che su di lei ha realizzato il documentario Climbing Iran prodotto da Nanof, premiato al Festival di Trento, stasera in onda a Speciale TG1 sulla Rai e a settembre finalmente in giro nelle sale. «Me l’avevano proposto altri, ma volevano solo fare soldi, mostrare il fenomeno, Francesca ha voluto mostrare la persona». E quando, giovedì, le due l’hanno visto per la prima volta assieme in un cinema, a Sondrio, invitate dalla Fondazione Bombardieri del Cai, hanno chiuso con la pelle d’oca: «Abbiamo ripensato anche alle difficoltà, ci sono voluti quattro anni». Anche per motivi che spiegano molto. I soldi sono stati raccorti col crowdfunding, ma quando la piattaforma — americana — ha visto la parola Iran nel titolo ha bloccato tutto, «e abbiamo dovuto ricominciare da capo». E poi certo, il fatto di essere donna che segue i propri sogni in Iran non è facile: «Certamente ci sono difficoltà sul mio percorso, limitazioni da parte della società e della cultura dominante che riguardano le donne. In città rispetto le regole, ma in montagna dobbiamo ascoltare la natura per vestirci nella maniera corretta».
D’altronde lei stessa, checché ne dica, sa di essere anche un esempio: ora è insegnante e ha pure allieve a cui prova a inculcare la voglia di dare il massimo, superare le paure e le convenzioni. «Ma soprattutto la libertà fisica e mentale. Quando scalo una roccia, mi sento bene, mi diverto, respiro profondamente, assaporo il contatto con la natura. Arrampicare apre la mente E quando poi giro l’Europa e il mondo — assai poco, nel periodo, e non solamente per il Covid: pensi che stavolta l’Italia mi ha dato un visto solamente di 120 ore — i timori sull’Iran svaniscono. Anzi, alla fine tutti sono interessati a conoscere meglio il mio Paese. Tra l’altro, se ha notato, si parla di "catene" montuose. Le vette sono legate tra loro, la natura non conosce confini. Esattamente come dovrebbe essere tra gli uomini. E le donne, ovviamente. Perché poi sa quali sono le lezioni più importanti dell’alpinismo, in fondo? Sono due. Primo, devi superare i tuoi stessi limiti, osare, prenderti qualche rischio, che fa parte dell’avventura, ma senza azzardi sciocchi perché la vita è solamente una. Secondo, che tu sia italiano, inglese, iraniano o tedesco la forza di gravità ci schiaccia tutti a terra nello stesso modo».
E ride felice, coprendosi poi la bocca con le mani dove spicca lo smalto rosa: «Oh certo, lo uso ogni giorno, mattina e sera, anche prima e dopo aver scalato una parete. Ma sono una donna, no?».
Ha toccato cime difficili e ha aperto nuove vie anche in Europa
Una regista italiana racconta la sua storia in un documentario "Rispetto l’Islam è la mia religione ma sulla roccia devi ascoltare la natura"
Facevo kickboxing ma è una sfida con un’altra persona, l’arrampicata è una sfida contro te stessa
All’età di 91 anni, l’alpino Giuseppe Cisari detto “Peppino” vive da solo come un’eremita a Cortevezzo, piccola frazione di montagna (950 metri) che si affaccia sulla Valle Avagnone nel comune del Brallo di Pregola. Lui è l’ultimo abitante di una località che negli anni Cinquanta ospitava una sessantina di residenti, ma che oggi vede soltanto la presenza di seconde case che si riaprono solo nelle domeniche di primavera e nelle settimane di luglio e agosto..
Per sei mesi il paese è vuoto e a fargli compagnia ci sono solo i suoi quattro gatti e alcuni caprioli e daini che al calar del sole arrivano furtivi alla ricerca di erba e bacche.
«Li ho visti morire tutti. Due anni fa è mancata anche la mia ultima sorella, Angela. Ora sono solo, ma non mollo. Voglio vivere qui dove sono nato il 21 aprile del 1924. A Cortevezzo c’è tutto il mio passato, tanti ricordi e soprattutto una valle stupenda – racconta Peppino con il suo sguardo segnato dal tempo, seduto in un muretto di sassi davanti alla sua casa dal camino fumante –. Ho iniziato a lavorare all’età di 10 anni e ho fatto di tutto, dall’agricoltore alla campagna del riso in Lomellina. Poi dopo il servizio militare ad Aosta negli alpini ho venduto il carbone a Milano. Erano altri tempi, tempi durissimi. Non mi piaceva stare in quella città e sono scappato».
Per questo motivo Peppino torna a Cortevezzo per continuare a fare l’agricoltore, a zappare la terra nella sua amata valle. Soltanto lì si sentiva e si sente sereno, con la sua famiglia numerosa e i tanti amici che incontrava nel bar e alla domenica nella vicina chiesa di Corbesassi. «Avevo tre fratelli e sette sorelle ma ora non ci sono più. Non ho mai voluto sposarmi. D’altronde di donne in casa ce n’erano fin troppe. – continua a raccontare l’eremita di Cortevezzo mentre si alza aiutato dal suo bastone per andare a prendere altra legna che servirà ad alimentare il camino. – Anche se vivo da solo sto molto bene. Non mi manca nulla. Ho una pensione da 900 euro che mi permette di fare una vita dignitosa. Purtroppo rispetto a qualche anno fa mi alzo più tardi, alle sette invece delle 5. Mi preparo una colazione con pane, salame e coppa e durante il giorno mangio tanto aglio. Per questo sono arrivato a 91 anni. Dopo la colazione faccio un giro per il paese e mi metto a spaccare la legna. Mi piace tanto la pasta con il pesto che mi cucinerò a Natale. Alla sera dopo aver cenato guardo un po’ di televisione. Ci sono però tante notizie brutte e allora spegno e vado a dormire».
Peppino, fino a qualche mese fa, per fare la spesa si spostava con la sua Panda 4X4 ma ora, che non gli è stata rinnovata la patente per problemi di vista, riceve aiuto da alcuni residenti dei vicini paesi che hanno preso a cuore la sua situazione. «Andavo a fare la spesa una volta alla settimana al mercato di Varzi. – dice Peppino mentre osserva i suoi gatti miagolare davanti alla porta. – Ora però non mi vogliono ridare la patente. Sono fregato. Come faccio. La macchina la uso solo per fare piccoli spostamenti. Potrebbero ridarmela. Cosa gli costa».
L’Alpino di Cortevezzo è diventato un personaggio leggendario e conosciutissimo nelle valli che toccano le province di Pavia, Alessandria e Piacenza e in estate quando arrivano i turisti delle seconde case non vedono l’ora di rivederlo. «Nel mese di agosto ci sono tante famiglie con una decina di bambini. – afferma Peppino – Ci metto qualche giorno per abituarmi alla loro presenza. Ormai vivo da solo anche in inverno quando il sole cala alle 14.30 e la neve arriva a coprire strade, campi e case». Il 91enne Giuseppe Cisari anche se non ha il cellulare non teme per la sua salute. «Sono forte e nonostante gli anni e il bastone ho le forze necessarie per muovermi. Non ho paura di morire e poi ci sono tante persone che mi conoscono nei paesi vicini. Li vedo sempre
alla messa della domenica– Conclude Peppino – Io non voglio andarmene dalla mia terra. Lasciatemi qui». Dopo aver parlato con noi Peppino si alza ci saluta con un sorriso e una stretta di mano di altri tempi per poi spostarsi lentamente nella cascina a tagliare la legna.
Grande esempio, un uomo davvero forte, che dovrebbe dare l'esempio a persone così vuote e inutili che pensano all'alito del vecchietto perchè mangia l'aglio!!!!
Pisa
Muore e lascia eredità ad ateneo, ma da mesi attende funerale
Da nove mesi ex insegnante è all'istituto di medicina legale
L'ospedale di Cisanello
PISA. Avere un patrimonio di tutto rispetto e compiere un gesto di grande generosità non basta per avere una degna sepoltura, per altro nel loculo precedentemente acquistato al cimitero. È la storia di Fiorella Fanali, ex insegnante elementare in pensione deceduta il 18 marzo scorso e da allora finita in una cella frigorifera dell'obitorio di Pisa.
La signora, vedova di Piero Consani, docente del liceo scientifico cittadino e cultore di Pisa e della pisanità, non ha eredi congiunti e ha lasciato tutto il suo patrimonio (due case e altri beni mobili per un valore stimato di circa 800 mila euro) in eredità all'università di Pisa per l'istituzione di borse di studio per studenti meritevoli ma indigenti e a due associazioni di tutela degli animali, una delle quali nel frattempo disciolta. Ma nessuno ha ancora dato esecuzione alle sue ultime volontà e con esse a una dignitosa sepoltura. Il testamento è stato reso pubblico nei mesi scorsi dal notaio Rodolfo Tolomei, ma da allora nulla si è più saputo nonostante l'impegno e risolvere l'impasse del vicepresidente vicario del consiglio comunale di Pisa, Riccardo Buscemi: "Fin dallo scorso marzo - racconta all'agenzia Ansa - mi sono attivato per dare sepoltura a Fiorella Fanali, segnalando la cosa alla Procura della Repubblica. A luglio ho scritto al rettore dell'università, ma l'ateneo mi ha fatto sapere che avrebbe dovuto riunirsi il consiglio di amministrazione per accettare l'eredità e alla mia richiesta se fossero stati disponibili a rimborsare integralmente le spese funerarie eventualmente anticipate da altri mi hanno risposto, con una lettera datata 17 agosto che eventualmente avrebbero rimborsato solo in quota parte, non essendo loro gli unici eredi".
Il notaio Tolomei dice di essere già stato pagato per la pubblicazione del testamento: "Per me è una questione chiusa, ma non so se poi il testamento è stato eseguito". "È una vicenda tristissima - conclude Buscemi - che fa riflettere: Fiorella Fanali è 'colpevole' di avere pianificato dettagliatamente la destinazione del suo patrimonio tra gli enti da lei ritenuti meritevoli, ma non di avere pensato a destinare una modesta cifra per le sue esequie. Forse confidava in un po' di riconoscenza e flessibilità da parte di chi ha beneficiato del suo lascito". Anche i vicini di casa, nel quartiere di San Giusto, dell'ex insegnante sono amareggiati:
"La casa è abbandonata da mesi, ma le utenze sono ancora tutte in funzione: aveva tutte le bollette domiciliate in banca e saranno state pagate regolarmente in questi mesi. Fiorella era una donna testarda, ma buona. Meriterebbe di riposare nella sua tomba e non dimenticata all'obitorio".
Record di salite sui 4 mila per il barbiere alpinista
Il pedavenese Claudio Ceccato ha toccato tutte le 82 vette più alte del continente Trent’anni fa la prima ascensione. Una serata in biblioteca celebra le sue imprese
PEDAVENA. L’ultima è stata il Dent Blanche, 4.357 metri, Alpi Pennine nel Canton Vallese: è l’ottantaduesima vetta europea oltre i 4.000 metri che ancora mancava al curriculum alpinistico del pedavenese Claudio Ceccato, che di mestiere fa il barbiere, conquistata il 30 settembre. Senza dimenticare che alcune di queste cime sono state scalate più volte, come il Monte Bianco, da tre diversi versanti.
L’impresa del barbiere-alpinista sarà celebrata sabato alle 20.45 in sala Guarnieri in una serata dal titolo “4.000 passi oltre le nuvole (per 82 volte e più)”, organizzata dall’amministrazione tramite la biblioteca civica. Con la proiezione di alcune delle sue immagini più suggestive, sarà rivissuto il nuovo record di Claudio Ceccato, che ha scalato tutte le 82 cime europee oltre quota 4.000. Introduce Salvatore Liotta.
A partire dal 1987, il barbiere-alpinista di Pedavena ha raggiunto cinque cime sopra i 6.000 metri, ventuno oltre i 5.000, ben duecento sopra i 3.000 e appunto ottantadue oltre i 4.000.
«Ho iniziato trent’anni fa, spronato da alcuni amici», confessa Claudio Ceccato, che è persona schiva, non incline a vantarsi dei suoi meriti sportivi. «Da allora ho continuato a coltivare questa mia passione in maniera costante, salendo in montagna ogni fine settimana, e quando gli impegni di lavoro me lo permettono».
Ma di motivi di essere orgoglioso della sua carriera alpinistica il pedavenese ne ha molti, tra cui settanta vie classiche delle Dolomiti affrontate con successo, oltre cento cascate di ghiaccio e innumerevoli discese di sci alpinistico. Solo per fare alcuni esempi è salito su montagne-simbolo delle Alpi, come il Cervino (4.477 metri), il Grand Jourasse (4.806), l’Eiger che con i suoi 3.979 metri non è una delle cime più alte, ma sicuramente tra le più impegnative.
Ma si è spinto anche in aree montane extra-europee: in Argentina, sulla Cordigliera delle Ande, nel Circolo Polare Artico, in Messico, in Africa sul Kilimanjaro, in Malesia dove nel 2006 ha conquistato il Kinabaly (4.985 metri), la più alta vetta del sud-est asiatico. In Ecuador, nel 2007, ha scalato in solitaria il Chimburazo (6.310 metri); in Marocco, sempre in solitaria è salito sulle sette cime più alte, tutte sopra i 4.000, in soli venti giorni. E ancora: in Russia nel 2010 ha scalato le cime gemelle dell’Elbrus (5642 metri e 5621 metri).
«Tra i paesi che più mi hanno impressionato è la Bolivia, per i suoi stupendi paesaggi. Nel 2009 sono salito sul Parinacota (6.340 metri) e sull’Huayana Potosi (6.088 metri), anche se il mio cuore resta sulle Dolomiti», racconta
Ceccato, che non nega un pensierino a un 8.000: «È il sogno nel cassetto di tutti gli alpinisti, anche se questo richiede un’organizzazione particolare e costosa, oltre a una preparazione specifica. Però mai dire mai. Chissà, prima che “divente vecio del tut”…».
prima di perdere conoscenza: «Scade l’appello». Così il suo assistito ha evitato la galera
di Rita Cola 17\12\2015
IVREA.
Le sue ultime parole intelligibili, mentre era a terra, sofferente per quel respiro che si faceva sempre più affannoso, sono state per richiamare il lavoro che non ha mai terminato, un appello da presentare entro tre giorni. Bruno Delfino, 70 anni, per gli amici Beppe, avvocato del foro di Ivrea fin dal lontano 1981, se ne è andato così. Soccorso dal 118, è stato portato in ospedale a Ivrea in condizioni disperate, dove è morto alcune ore dopo, nella mattinata di sabato. Era gravemente ammalato, ma non lo sapeva o forse non ha mai voluto ascoltare i segnali che certamente ci saranno stati, ma che lui ha ignorato per continuare la sua quotidianità fatta di udienze, atti, scadenze.
Il prodromo della morte dell’avvocato Delfino, una vita spesa per il suo lavoro fino davvero all’ultimo respiro, era avvenuto già mercoledì scorso, quando si era sentito male in aula, davanti al giudice Mariaclaudia Colangelo. Era in attesa che fosse chiamato il suo processo quando chi era lì racconta di averlo visto prima arrossire e poi sbiancare e afflosciarsi. Era stato subito soccorso, l’aula era stata fatta sgomberare ed era stata chiamata un’ambulanza. Lui si era ripreso dopo qualche istante e, come il suo fare riservato, da uomo attento e capace di osservare tutto fino ai dettagli ma lontano da tutto ciò che è ribalta, aveva minimizzato. «Sto bene, non è niente, è tutto passato, grazie», continuava a ripetere mentre tutti, compreso il procuratore capo Giuseppe Ferrando, lo invitavano a salire sull’ambulanza.
Al pronto soccorso, dopo il malore in aula di quel giorno, l’avvocato Delfino ci è rimasto pochissimo. Di accertamenti da fare ce ne sarebbero stati molti, visto quanto successo 48 ore dopo, ma lui aveva solo una preoccupazione: tornare a casa e buttarsi sui suoi fascicoli. In una parola: lavorare. Ma il tempo, per lui, era finito. E due giorni dopo, venerdì, un nuovo malore. Lo ha trovatoFrancarlo Palazzo, venerdì, nel suo studio di Pavone. Era a terra, faticava a respirare. È stato Palazzo a telefonare al 118 e a raccogliere le ultime parole dell’avvocato Delfino: «Appello... appello che scade».
Mario Benni è il presidente dell’Ordine degli avvocati: «Quando mi hanno chiamato raccontandomi che il collega era gravissimo in ospedale e che in quelle condizioni si era preoccupato dell’appello in scadenza per il suo cliente ci siamo subito attivati. Abbiamo chiamato il cliente e uno di noi ha redatto l’appello, in modo che potesse presentarlo in tempo (cioè lunedì 14, ndr)». Si trattava, per la cronaca, di un appello importante, legato a una sentenza senza i benefici della condizionale.
Bruno Delfino è stato sepolto ieri, a Sezzadio, in provincia di Alessandria, suo paese di origine. Lunedì sera, sia a Sezzadio che a Ivrea, è stato recitato il rosario. L’avvocato Benni ha tracciato un ritratto del collega scomparso: «La sua vita professionale è stata sempre a Ivrea, fin dai tempi in cui è stato praticante dall’avvocato Campanale. Era un tipo solitario, di quella solitudine che induce al desiderio di protezione Lui ha sempre lavorato da solo, ed in realtà, ci ha fatto pensare che la nostra è una professione di solitudine, di decisioni, anche di angoscia rispetto alle scelte. Ci siamo subito attivati per quell’appello. Per noi è stato un modo per aiutare e onorare il collega
Leggo sempre più alibito alla cretineria che può arrivare la smania del denaro e dell'estremismo
da repubblica del 2\II\2015
Dilaga l’heliski: 250 euro per farsi portare in vetta e riprendere a valle. “Rischio slavine, vietiamolo”
DAL NOSTRO INVIATO
LUIGI BOLOGNINI
TORRE SANTA MARIA (SONDRIO).
Con ciaspole e pelli di foca per battere l’elicottero. È la protesta andata in scena ieri in provincia di Sondrio contro l’eliski,pratica che abbina lo sci su percorsi non battuti e l’uso dell’elicottero come skilift. Già il fuoripista può provocare valanghe, chiaro che la situazione si complica se lo si fa con un apparecchio che sposta masse d’aria e quindi di neve fresca, inquina zone incontaminate, terrorizza a morte gli animali in letargo e rende più spericolati anche sciatori poco esperti.
Però questo importa poco a chi lo pratica: il costo non è basso (si parte dai 250 euro a persona,poi dipende a quante risalite si prenotano) ma muovendosi in gruppo lo si può spalmare,e arrivare in cima a un dosso in elicottero per scendere sci ai piedi è molto scenografico.
E molto pericoloso, malgrado pressoché ovunque siano obbligatorie la presenza di una guida e una dotazione di ricetrasmittenti e zaini Abs per ritrovare più in fretta possibile chi viene travolto dalla neve. Precauzioni che due settimane fa non hanno impedito a quattro turisti a Livigno di finire sotto una
slavina che ha ucciso uno di loro, uno svizzero di 34 anni. Il malumore degli alpinisti più ortodossi
strisciava da tempo, ma la tragedia ha rinfocolato i dibattiti,
amplificati anche dalla decisione del Collegio lombardo delle guide di patrocinare un festival
di fuoripista che si terrà proprio a Livigno e dove si potrà praticare anche l’eliski. Risultato,
Popi Miotti, storico alpinista della provincia di Sondrio, si è dimesso da guida: «È ora di ribellarsi
agli atti di spadroneggiamento sulla montagna», ha detto ricevendo l’appoggio del Cai locale. E ieri all’alba Miotti è stato tra i tanti partecipanti di una manifestazione in Valmalenco contro l’eliski: dal fondovalle nel comune di Torre Santa Maria si è saliti fino alla vetta del sasso Bianco, quota 2.490
metri, solo coi classici metodi,ciaspole e pelli di foca.
«Una iniziativa simbolica — dice il promotore, la guida Michele Comi — per mostrare il
volto possibile della nostra montagna, per assaporarne il tempo e il silenzio, per testimoniare
quanta importanza ha quest’ultimo frammento di integrità che ormai scarseggia e
diventa preziosa. L’eliski è solo una parte del problema generale,che è il consumo della montagna, la frenesia con cui la viviamo, spesso con i motori ». E non è un problema solo italiano. Anzi, in un certo senso sì: l’eliski è vietato in Francia e ferreamente regolamentato in Austria e Svizzera. In Italia è legale, o per la precisione non è illegale (a parte la regione autonoma Trentino-Alto Adige), e il risultato è che gli stranieri vengono qui a praticarlo. «Nelle ultime settimane — rivela Comi
— ho ricevuto diverse telefonate di guide austriache e tedesche che mi chiedevano informazioni
sull’innevamento per la pratica dell’eliski da noi. Ci usano come terra di conquista:
ci sono agenzie di viaggi estere che vendono pacchetti completi in Valmalenco, anche in aree
protette dove già scorrazzano le motoslitte».
I sostenitori dell’eliski, turisti a parte, sono tanti operatori del settore che guardano all’opportunità
economica: gli stranieri portano soldi, e non pochi. «Un ragionamento che capiamo e rispettiamo — dice Comi — Ma se si devasta il territorio alla fine il turismo finisce». E per questo la protesta, morbida ed ecologica, si allargherà: «Ieri non hanno partecipato solo valtellinesi,
ma anche gente di altre zone alpine dove l’eliski è un problema. L’idea è di manifestare
a rotazione sulle varie montagne italiane »
USSASSAI «Veniamo dal Nord-est, il tour ci ha portato da Bologna a Parma, Bergamo, Trento, Padova, Oderzo, Treviso e la Slovenia. Abbiamo presentato il libro 'Non ci scusiamo per il disturbo', esperienza importante da narrare, può essere di aiuto a chi sta male». Alessandro Coni è tornato con i dodici pazienti del dipartimento di salute mentale (dipendenze) dell'Asl 6 di Sanluri. «Chi soffre di un disturbo psichiatrico vive una dimensione diversa, la comunità crea un confronto. Questo nostro cammino è diventato un movimento: il nostro libro ha già venduto duemila copie».I ragazzi hanno dimostrato che anche le persone più fragili possono dare risposte interessanti. «Sono coscienti della loro condizione e fiduciosi in una possibilità di vita con un suo senso preciso», spiega lo psichiatra che guida una terapia alternativa di ordine naturale: la montagna al posto dei farmaci.
«Del resto la normalità non è il non soffrire, al contrario. La condizione che accomuna le patologie gravi è un profondo isolamento. Riuscire ad avere relazioni serie con le persone significa uscire da quella condizione patologica per aprirsi a un pubblico vasto come quello dei media». La conseguenza logica, secondo il dottor Coni, è elementare: «Se l'isolamento è una malattia, un'apertura come questa rappresenta l'esatto contrario. I ragazzi diventano protagonisti
Alessandro Coni
si riprendono i loro diritti, gli spazi che avevano perduto, ottenendo nella comunità un'importanza che prima non avevano. Nella loro povertà sono persone felici. La storia è bella perché è riuscita: c'è stato un gruppo di persone che ha creduto in questo successo. Il sogno si è realizzato, chi aveva perso la speranza l'ha riacquistata. Con un percorso di questo tipo ci sono possibilità di cambiamento per tutti». Che significa? «In ruoli diversi, si cambia: medici, pazienti, assistenti, volontari. Anche tra i ragazzi – spiega Coni – nessuno è più quello che era all'inizio. Chi ha scritto il libro fa parte di un gruppo che ha deciso di intraprendere un cammino di comunità terapeutica solidale: dandosi una mano si può stare molto meglio. Tutte queste persone hanno storie diverse, la maggioranza vive nella casa d'origine, qualcuno in case-famiglia. Ognuno fa parte di progetti paralleli ma diversi, fra i quali il trekking». Nell'Asl di Sanluri ci sono progetti diversi. Uno di questi è la scuola di follia. Ancora il dottor Coni: «I ragazzi andranno nelle scuole a raccontare la loro storia. Un progetto più ampio coinvolgerà per quattro-cinque giorni centinaia di persone che verranno da fuori l'estate prossima a confrontarsi sul campo con noi sull'efficacia del trekking. Sulla via del progetto dell'anno scorso, la montagna come terapia: per tre giorni da diverse città italiane abbiamo fatto un convegno. Perché la montagna può curare? La rivista del Cai (Club Alpino Italiano) ci ha dedicato due pagine. La montagna non è solo per gli eroi degli ottomila metri ma anche delle persone fragili che ne traggono beneficio».In molte città italiane diversi colleghi di Coni portano avanti questa terapia. «Ma bisogna creare una squadra – avverte lo psichiatra – la squadra rappresenta la nostra forza. Alla fine dell'esperienza ci si dispone a cerchio e ci si confronta al termine della giornata. Quest'anno, per quattro giorni 150-200 pazienti saranno qui a fare la nostra esperienza». «Siamo stati in Nepal e in Corsica, abbiamo prodotto un documentario e un libro», racconta Coni. "C'è molta simpatia intorno a noi, non per niente ci hanno accolto in Italia, non per niente verranno da noi. La cosa bella è che questo punto di riferimento si trova in Sardegna, e per di più in pianura. Ma noi ci sentiamo comunque montanari. Non è facile da spiegare ma la sostanza è questa: la terapia non la fa il medico ma l'anima della montagna, il medico partecipa soltanto». Come spiegare l’innovazione? Che vuol dire trekking come 'farmaco' fondamentale? «Premessa: il trekking non esclude gli psicofarmaci, ma li riduce considerevolmente», risponde Alessandro Coni sempre sulla nuova sardegna del 30\12\23013 . «Se la malattia è solitudine il recupero consiste nel mettere i ragazzi in relazione con gli altri. Qui il rapporto è con i medici e gli infermieri ma soprattutto con la natura e con la montagna». Come procede il dosaggio dei farmaci nella contingenza del quotidiano? «I ragazzi che partecipano a lungo al trekking sono persone che prendono una quantità molto bassa di farmaci – dice il medico – i prodotti chimici in misura massiccia cancellano i sintomi ma anche la persone, però possono essere utilizzati per ridurre l'ansia, in questo modo aprono una porta per fare altro». Il dottor Coni allarga il discorso. «Chi finanzia le Università è portatore di interessi molto forti che si fondano sul dio denaro, come dice Papa Francesco. Il trekking come terapia alternativa, al contrario, è portatore dell'interesse nettamente più vero e fondamentale: la salute dei pazienti, non delle case farmaceutiche». I dodici ragazzi -Ketty Aru, Enrico Buesca, Giancarlo Fonnesu, Giovanni Maresu, Massimiliano Mocci, Corrado Pinna, Efisio Porta, Giacomo Porta, Simone Porta, Alessio Ortu, Massimiliano Saiu e Marco Francesco Simbula- nell'epigrafe del libro hanno scritto fra l'altro: «I sogni sono la forza della vita umana. Spesso i nostri sogni sono più grandi di noi e allora ci appaiono come irraggiungibili. Spesso arriviamo ad abbandonare i nostri sogni, perdendo così la voglia di vivere. Possiamo però, nella nostra solitudine, accorgerci della solitudine degli altri, avvicinarci e sentirci meno soli. I nostri sogni allora non sembreranno così irraggiungibili, così grandi: possiamo essere grandi davanti ai nostri sogni. I sogni diventano allora obiettivi: obiettivi in cui credere, obiettivi da raggiungere. Possiamo vivere non per dei semplici sogni ma per obiettivi concreti da raggiungere, possiamo credere nei nostri obiettivi, possiamo vivere». Si va avanti. Spiega ulteriormente Alessandro Coni: «Il nostro è un progetto sempre in fieri, il gruppo dei pazienti che ha iniziato sette anni fa ormai ha finito il percorso, tutti si sono reinseriti e d'ora in avanti parteciperanno ai nostri incontri come accompagnatori». Questa è una forma di terapia progettata per pazienti con patologie gravi. «Una terapia eroica, con il coraggio giusto per combattere i fantasmi», incalza Alessandro Coni. «A un certo punto i pazienti arrivano a una condizione nella quale possono affrontare la vita, iniziando dalla loro riacquisita umanità. Non sarebbero arrivati a questo punto se non avessero fatto ciò che hanno fatto. Dal mondo della follia è arrivato un contributo di crescita. Tutti siamo nella stessa barca, o affondiamo o ci salviamo tutti. Quando la follia è stata esclusa sono successe cose terribili: i folli sono stati massacrati o messi nei manicomi. L'omicidio può essere anche quello sociale. O farmacologico, qualche volta». Tace, a questo punto, il dottor Coni. È emozionato, comprensibilmente: ora sa che per i suoi ragazzi è scoccata l'ora giusta per smettere di piangere soli nel buio.