Luigi Minchillo è morto il guerriero della boxe italiana che seppe resistere a Hearns e Duranveva 68 anni, fu campione d’Italia e d’Europa. Celebri le trasferte americane per sfidare, e resistere in piedi, a due leggende del ring
di Luigi Panella
Per spiegare quanto abbia rappresentato per la boxe italiana Luigi Minchillo, morto improvvisamente per un malore all’età di 68 anni, bisogna paradossalmente partire da due sconfitte contro autentiche leggende del pugilato come Roberto Duran e Thomas Hearns. Con Duran, in un match senza titolo in palio al Caesars Palace di Las Vegas. Manos de Piedra, che veniva dalle due memorabili sfide contro Sugar Ray Leonard (la prima vinta, la seconda persa con il famosissimo rifiuto di continuare, il ‘no mas’) non sceglieva certo avversari banali. E Minchillo banale non lo era. Il suo alias, il ‘guerriero del ring’, non era un omaggio alla scena ma la perfetta spiegazione di quale pugile fosse. Non eccezionale dal punto di vista tecnico, mai disposto però a fare un passo indietro, pronto sempre ad affrontare qualsiasi sfida. Duran vinse ai punti, ma Minchillo fece un figurone al cospetto di un pugile che qualche tempo dopo sarebbe andato vicinissimo a chiudere il regno di un certo Marvin Hagler. Ma il quadro del coraggio di Minchillo fu dipinto nel febbraio del 1984, stavolta con il titolo mondiale dei superwelter in palio: andò a Detroit, nella tana di Thomas Hearns per una impresa impossibile. Hearns, pugile di tecnica, personalità, devastante potenza e con il solo limite della mascella fragile, fece di tutto per vincere prima del limite. Michillo però seppe resistere stoicamente per dodici round, finendo con il volto tumefatto ma con la fierezza di chi aveva fatto più del possibile. Due sfide che nessuno gli aveva regalato. Originario di San Paolo Civitate, in provincia di Foggia, ma pesarese di adozione (50 anni nella città marchigiana, dove aveva fondato una palestra), Minchillo aveva costruito la sua carriera per gradi in una epoca in cui la boxe, soprattutto in Italia, era assai più selettiva di quella attuale. Selezionato da dilettante per l’Olimpiade di Montreal del 1976. Da professionista campione d’Italia, da ricordare due sfide molto accese contro Vincenzo Ungaro. Quindi campione d’Europa: conquistò il titolo contro il forte francese Louis Acaries, lo difese contro il croato Benes ma soprattutto contro alla Wembley Arena contro Maurice Hope, il fortissimo inglese che era stato capace di battere Vito Antuofermo e in due circostanze Rocky Mattioli. Ha dato tutto, in alcune circostanze forse troppo: arrivò al mondiale che era nelle sue corde, a Milano contro Mike McCallum, ancora con le scorie del match con Hearns e dovette arrendersi al tredicesimo round. Lascia la moglie Cristina e i suoi tre figli Stefania, Paolo e Sabina.
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Giovanni Lodetti, il ricordo dei ragazzi che giocavano a calcio con ‘Ceramica’: “Quel patto tacito per rispettare la sua riservatezza” I funerali del campione milanista a Caselle Lurani e il ricordo di Stefano Zuffi, uno dei ragazzi che condividevano con lui "il puro piacere per il gioco" a parco Trenno
di Lucia Landoni
Domani, martedì 26 settembre, alle 14.30 a Caselle Lurani (il comune del Lodigiano dov’era nato) si terranno i funerali di Giovanni Lodetti, l’ex centrocampista del Milan e della Nazionale scomparso nei giorni scorsi a 81 anni.Nel corso della sua carriera aveva collezionato vari soprannomi – da “Basleta”, dovuto al suo mento pronunciato, a “terzo polmone di Rivera” per
il suo ruolo in campo, fedele scudiero del Golden Boy rossonero – ma a Milano per qualcuno resterà sempre “Ceramica”. Lo chiamavano così infatti i ragazzi con cui Lodetti amava giocare il sabato mattina al parco di Trenno, dopo essersi ritirato dai campi di serie A.Amava raccontare lui stesso quell’aneddoto, a cui era evidentemente molto legato: “Avevo smesso da poco, era ora di dire basta, a 36 anni. Una mattina al parco di Trenno vedo dei ragazzi che giocano. Mi fermo a guardare: la squadra che perde ha un giocatore in meno. Non resisto e vado dietro al loro portiere: 'Scusa, mi fate entrare?' – spiegava – Quello si volta e non ha tanti riguardi, i ragazzi di oggi sono così: 'Ma dai, qui siamo tutti giovani'. Insisto: 'Gioco anche in porta'. Alla fine uno mi fa segno di entrare e dopo un po' mi dice: 'Sai che sei buono? No, sul serio'. Troppo giovani per ricordarsi di Lodetti e allora gli racconto che ho fatto tornei aziendali”.In quel momento è nato Ceramica: “Mi chiedevano: ‘Sì, ma come ti chiami?’. Avevo un giubbotto con scritto Ceramica: 'Mi chiamo Ceramica'. Mi hanno guardato strano però mi hanno accettato e da allora ogni sabato mattina Ceramica se n'è andato al parco Trenno a giocare, a divertirsi di nuovo: passa Ceramica, tira Ceramica, bravo Ceramica – ricordava Lodetti – Solo due anni dopo un tizio mi ha smascherato”.Tra quei ragazzi che quarant’anni fa condividevano un campo improvvisato con Giovanni Lodetti c’era anche Stefano Zuffi, 62enne storico dell’arte milanese: “Non eravamo una squadra, ma solo un gruppo di amici che si ritrovavano per divertirsi. Quand’eravamo fortunati trovavamo libero un campo con delle vere porte, altrimenti ci arrangiavamo mettendo in terra i borsoni per fare da pali – racconta – Una volta, credo fosse il 1981, ci si è avvicinato un 40enne stempiato, smilzo, poco mobile, con maglietta striminzita e brachette stinte”.All’epoca Lodetti aveva smesso di giocare da professionista da appena cinque o sei anni e ne aveva una quarantina, “ma ai nostri occhi di ventenni sembrava avesse già una certa età – prosegue Zuffi – Ci ha chiesto garbatamente di poter giocare, perché aveva notato che eravamo dispari. Era gentilissimo, quasi timoroso. Abbiamo accettato ed è sceso in campo con noi”. Il resto, come si suol dire, è storia: “Era una persona dotata di un garbo eccezionale, tant’è vero che conoscendolo persino a me, interista da sempre, era quasi venuta voglia di diventare milanista – scherza – Poi non è successo ovviamente, ma rende bene l’idea di che tipo di uomo fosse. Eravamo tutti studenti universitari, quindi già troppo vecchi per poter essere considerati delle potenziali promesse. Lodetti non era lì per fare il talent scout, ma solo per il puro piacere del gioco, come dovrebbe essere”.Anni dopo, “durante un evento alla Galleria Previtali”, Zuffi e Lodetti si sono reincontrati per caso: “Mi sono avvicinato per salutarlo e gli ho parlato di quel bel periodo – continua lo storico dell’arte – Si ricordava perfettamente ogni dettaglio, compreso il colore delle nostre maglie, arancione”. Solo su una cosa i ricordi dei due non combaciavano: “L’avevamo riconosciuto eccome, bastava vedere come toccava la palla – conclude Stefano Zuffi – Ma lui era molto riservato e noi rispettavamo il suo desiderio di non essere smascherato. Era una sorta di tacito patto”
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Non solo Zinasco: viaggio tra i rifugi della Lombardia dove inizia la seconda vita degli animali sottratti all’industria alimentareTra gli ospiti ci sono alpaca, piccioni, ratti e degu: "Qui l'essere um ano non è la specie dominante, ma parte di un ecosistema"
di Lucia Landoni
Il più (tristemente) famoso è il Progetto Cuori Liberi di Sairano di Zinasco (nel Pavese), dove nei giorni scorsi i veterinari dell’Ats hanno eseguito l’ordinanza di abbattimento di nove maiali a causa della diffusione nella zona del virus della peste suina. Ma sono decine i centri lombardi in cui trovano rifugio e accoglienza animali generalmente considerati “da reddito” e non “d’affezione”, quindi non cani e gatti, ma asini e mucche, cavalli e maiali, capre, pecore, galline e anatre, ma anche ratti e nutrie.Alcuni di questi sono riuniti nella Rete dei Santuari di Animali Liberi in Italia: le strutture aderenti hanno sottoscritto una “carta dei valori” comune, secondo la quale a ogni creatura ospitata “deve essere garantita la migliore qualità di vita fino alla sua fine naturale” e ciascun santuario deve aprire le porte al pubblico per delle visite, in modo che “ogni animale salvato diventi ambasciatore della propria specie, portavoce dei suoi fratelli e sorelle meno fortunati”.L’aspetto divulgativo è fondamentale perché “in questi luoghi vogliamo raccontare la nostra visione del mondo, diversa da quella attuale – spiega Sara d’Angelo, attivista di Vitadacani odv e coordinatrice della Rete dei Santuari – Qui ci basiamo sulla gentilezza e non sulla prevaricazione e gli animali cambiano status, trasformandosi in creature ‘a debito’ anziché ‘da reddito’, il che significa che loro si riposano e sono gli umani a lavorare per loro, garantendone il benessere”.Nei santuari viene applicata la logica anti specista, quindi “l’essere umano non è visto come specie dominante, ma come parte di un ecosistema”.Fino a qualche mese fa queste strutture erano equiparate agli allevamenti secondo la legge, ma dallo scorso marzo (in virtù di un decreto ministeriale poi pubblicato in Gazzetta ufficiale il 16 maggio) sono stati ufficialmente riconosciuti come santuari: “Per noi è stata una svolta epocale, perché i nostri ospiti sono stati definitivamente sottratti al comparto zootecnico – continua d’Angelo – Abbiamo quindi bisogno di protocolli dedicati anche dal punto di vista sanitario e il caso drammatico del Progetto Cuori Liberi ha dimostrato che sotto questo aspetto c’è ancora molta strada da fare”.Tra le diverse realtà appartenenti alla rete c’è appunto quella di Sairano di Zinasco, dove sono ospitati circa 200 animali fra mucche, asini, cavalli, capre, pecore, tacchini, galline, anatre, oche, tartarughe da terra e d’acqua, nutrie e, fino alla scorsa settimana, anche maiali.Un altro santuario, fondato e coordinato proprio da Sara d’Angelo, è PorciKomodi di Magnago (nell’hinterland milanese), in cui vivono allo stato semibrado oltre 200 animali fra mucche e buoi, maiali, cinghiali, asini, pony, pecore, capre, piccioni, galli e galline. Solo i maiali, che non a caso danno il nome alla struttura, sono ben 140.“Tutte le creature accolte nel nostro e negli altri santuari sono state salvate dallo sfruttamento dell’industria della carne (ma anche del divertimento o della sperimentazione animale) – sottolinea d’Angelo – Gli animali che arrivano qui sono scarti di produzione, nel senso che non sono più utili agli allevatori per vari motivi, oppure provengono da situazioni di maltrattamento per cui vengono sequestrati dalle autorità, che poi ce li affidano”.Oltre a PorciKomodi, fa parte della galassia di Vitadacani anche il Piccolo rifugio La Boschina di Gallarate (nel Varesotto), nato dalla passione per gli animali della veterinaria Elisabetta Curotti: attualmente accoglie quattro cinghiali, cinque maiali, Tino il tacchino, Cecilia la gallina, un degu (roditore originario del Cile) e otto gatti.Tornando in provincia di Milano, la Fattoria Capre e Cavoli di Mesero ha sede in una storica cascina che apre spesso le porte ai visitatori (a cominciare dai più piccoli) per farli interagire con i 50 animali presenti, fra cavalli, asini, vitelli, maiali, pecore, capre, cani, gatti, conigli, anatre, oche e galline.“Abbiamo un’enorme aia con anatre, oche, galli e galline, liberi di razzolare e fare bagnetti (chi di terra, chi d’acqua) oltre ai conigli, i mici, e Zem e Lja, due cagnetti bosniaci che compongono il nostro comitato d’accoglienza – spiegano i gestori – I campi circostanti, che si estendono per cinque ettari, sono la casa tra gli altri dei cavalli Flora e Caramella, degli asini Stella e Carlotto, delle pecore Bianca e Vida e del maiale Pumba”.
Perché nei santuari gli animali smettono di essere numeri per diventare individui, ciascuno con un proprio nome e una storia.A Cantù (nel Comasco) si trova il rifugio NelloPorcello, che prende appunto il nome da Antonello, il primo cucciolo di suino arrivato nella struttura nel 2017: in questo “piccolo angolo di mondo dove individui di diversa specie convivono e lottano fianco a fianco contro ogni forma di discriminazione”, come lo definiscono i gestori, vivono una trentina di animali fra maiali, capre, pecore, conigli, cani e gatti.
Sono invece circa 40 gli ospiti di Oasi Fortuna, rifugio di Chiari (nel Bresciano) che accoglie una mucca, un bue, maiali vietnamiti, capre, pecore, asini, tacchini e oche e si definisce “un luogo di liberazione dalla produttività a cui la società in cui viviamo costringe e incatena gli animali non umani di ogni specie”.
Ci sono poi strutture lombarde che non fanno parte della Rete dei Santuari di Animali Liberi, ma ne condividono la mission: per esempio Ca’ Romoletto di Galbiate (nel Lecchese), così chiamata in onore del primo ospite, l’asino Romoletto. Arrivato nel 2013 in gravi condizioni di salute quando aveva già 35 anni, l’asino si è poi ripreso grazie alle cure ricevute ed è vissuto per altri sette anni.Oggi il rifugio ospita una quarantina di animali fra asini, mucche, capre, pecore, maiali, galline, anatre, tacchini, cani e gatti.Spostandosi nel Comasco, a Castelmarte si trova Il Vecchio Faggio onlus: nata come pensione per animali, si è poi trasformata in rifugio che attualmente accoglie una quindicina fra cavalli, alpaca, maiali, capre, pecore, cani e gatti. “Tutti salvati da situazioni orribili, dalla morte e dal dolore” sottolineano i gestori.
Provengono invece dai laboratori gli ospiti de La Collina dei Conigli odv, centro di recupero con sede a Monza (ma anche a Torino e a Genova) che si occupa di regalare una nuova vita a conigli, cavie, ratti, topi e piccoli roditori: “Molti di questi animali vengono impiegati in sperimentazioni da cui possono uscire – spiegano dalla onlus – Noi li ospitiamo nelle nostre strutture e cerchiamo per ciascuno di loro una nuova casa”.
Beh, innanzi tutto perché mio padre tifava #inter: la rivalità era scontata, anzi doverosa. Poi perché #mazzola mi era antipatico mentre Gianni aveva lo stesso sorriso ironico e rassegnato del mio primo flirt, suo corregionale (lui di #vercelli, Rivera di #alessandria). Terzo perché quando calciava non pareva un calciatore ma un poeta. Gli altri giocatori, anche eccelsi, stavano tutti lì, nel rettangolo verde, al massimo nelle #figurinepanini, rigidi e spesso aggrondati. Rivera - benché talvolta nel nominarlo lo confondessi con #riva - aveva qualcosa di più e di diverso. Una vita sfuggente e sbarazzina - a #sanremo nella mia spiaggia veniva #elisabettaviviani, grande scandalo all'epoca, il #goldenboy allevato dai preti che aveva una figlia da una soubrette... e non intendevano sposarsi! -, non priva di interessi intellettuali, e poi lo sport, certo. Potevi fregartene del calcio - io ero fra quelli - ma non di Rivera, che se avesse studiato forse si sarebbe affermato in campo artistico. Sempre in punta di filo, come un azzurro #rococó, ma dentro, sangue caldo; sangue rosso(nero). Il #milan di Rivera non era americano come quello di #berlusconi: era un Milan di case e #barsport, ma tanta roba, tanta #italia: il Milan di #nereorocco, con la stella e quel nome da dio greco, da polverizzare qualsiasi spacconata a suon di quattrini. Anche tanta #famiglia, sì, pure Rivera ne ha avuta più d'una, ma non ne ha mai disgregato l'idea, tutt'al più ne ha messo in piazza la complessità, senza nascondersi. Oggi compie 80 anni. Non è "vecchio", nel bene e nel male, e meno male.
Da ex tifoso Juventino , poi diventato causa la corruzione del sistema moggi e non solo vedi calciopoli, di nessuna squadra e sempre più tiepido a livello di di tifo , capisco la smania di festeggiare la propria squadra ( l'inter in questo caso ) soprattutto quando essa ritorna a vincere dopo 11 anni e lo fa in periodo difficile per il calcio italiano causa pandemia
Ma se La gioia è comprensibile, l’irresponsabilità intollerabile, specie in una regione che ha avuto 33mila morti e ha pagato un prezzo altissimo alla pandemia. quindi come suggerisce
Lorenzo Tosa Eviterei di farne questione di tifo, in un senso come nell’altro. Non è che sia “colpa” degli interisti, così come essere interisti e aver vinto uno Scudetto non esenta da alcuna responsabilità. Poteva esserci qualunque altra tifoseria di qualsiasi altra squadra, in qualsiasi città, sarebbe finita allo stesso modo. Il problema è culturale. Il problema è che ancora, dopo oltre un anno, non abbiamo capito chi e cosa stiamo affrontando e combattendo. E lo paghiamo e lo pagheremo ancora a lungo.