Visualizzazione post con etichetta lea garofalo. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta lea garofalo. Mostra tutti i post

4.10.23

“LUPARE ROSA”: MARIA E LE ALTRE e “Così a 79 anni, con la ’ndrina in casa, denuncio mio nipote

Un  altro motivo per  odiare  e combattere  la mentalità mafiosa   anche da  parte   di chi  vive  dove  la mafia  non  c'è ufficialmente   ma  ci sono le  sue  infiltrazioni sempre  più  radicate   . 
  da  il  fatto   quotidiano  del  1  e del 3  ottobre  


“LUPARE ROSA”: MARIA E LE ALTRE

In terra di ’ndrangheta Sono oltre 10 le donne fatte sparire e uccise per lavare col sangue la macchia del disonore Morte per un no, per amare, per essere libere

Epoi non l’hanno aspettata più. Hanno capito che non potevano aspettarla più. Chi, come il fratello Vincenzo, da subito. Da quando ritrovarono, davanti al cancello che cinge i loro terreni, sulla SP 31 verso Limbadi, l’auto bianca di Maria, col motore acceso, lo sportello aperto, la borsa sul sedile con dentro cellulare e soldi. Chi, come nonna Pina, la madre di Maria e Vincenzo che oggi non c’è più, quando ricevette la chiamata: erano le 7 di mattina e Maria non si trovava; per terra, accanto all’auto, sangue. Chi, come Federica, da quella sera. È il 6 maggio 2016, un venerdì. Quando scompare, Maria Chindamo non ha ancora compiuto 45 anni.

Non si sente niente, qui. Se porgi l’orecchio al mare, per quanto è vicino, può sembrare di sentirlo. Ma c’è solo silenzio. E il rumore del vento, che muove i rami e le canne che invadono le strade. Le terre di   Maria Chindamo – oggi curate dalla cooperativa Goel, al motto di “controlliamo noi le terre di Maria Chindamo” – sono circondate da un’immensa selva verde, fatta di agrumeti e ulivi, boschi di conifere e faggete, e piccoli casolari in pietra abbandonati. A salire, alle spalle della valle, le Preserre calabresi. In uno di questi terreni – non è stato possibile finora sapere quale – c’è Maria o quello che di lei resta. “Non possiamo nemmeno vivere i nostri ricordi – confida Vincenzo, per Maria tutto – senza che i miei nipoti pensino alla testa della madre mangiata dai maiali”. Due settimane fa l’inchiesta “Maestrale-carthago 2” della Dda di Catanzaro, guidata da Nicola Gratteri oggi neo Procuratore di Napoli, ha portato all’esecuzione di 81 misure cautelari. Tra gli arrestati, Salvatore Ascone detto “U Pinnularu”, il “dirimpettaio di terreno” di Maria, uomo della potente cosca Mancuso, a cavallo tra le province di Vibo e di Reggio Calabria. Già arrestato e scarcerato varie volte, anche per il caso Chindamo, Ascone disse a uno dei faccendieri dei Mancuso oggi collaboratore di giustizia: “Io, pe’ quattro sordi, a chija eppi ’u m’a juntu ’ncojiu”, “io, per quattro soldi, quella me la sono dovuta caricare addosso”. Sono state le testimonianze di alcuni pentiti, tra cui Emanuele Mancuso, a dare la svolta. U Pinnularu gestiva i terreni per Diego Mancuso, alcuni dei quali confinanti con quelli di Maria. 
“La proprietà terriera, là dove il controllo ’ndranghetistico è endemico – scrivono i magistrati – non solo rappresenta un indotto economico, ma costituisce l’unità di misura dell’egemonia criminale”. Maria, alla richiesta di cedere i suoi terreni, aveva detto no. E “Pinnularu l’ha fatta scomparire – racconta uno dei collaboratori di giustizia – sapendo che la responsabilità sarebbe ricaduta sulla famiglia del marito”. Maria è scomparsa il 6 maggio 2016 e il 6 maggio 2015 Nando, l’uomo con cui lei era stata famiglia per trent’anni, si era tolto la vita. Non esistono le coincidenze. Maria, “quando si è permessa di postare le foto con il nuovo compagno – ha spiegato Gratteri –, è stata uccisa in modo inumano: gettando il cadavere in pasto ai maiali e triturandone i resti con la fresa di un trattore. Bruciava l’idea che i terreni fossero gestiti da una donna che si sarebbe permessa di rifarsi una vita: da una parte, non le è stata perdonata questa libertà; dall’altra, ci sono gli appetiti della ’ndrangheta”.Terra. Sangue. Famiglia. “Sono cose che ho sentito quando studiavo all’università Storia del diritto medievale, nei regni romano-barbarici...”, dice Federica, la figlia di Maria.

Nella famiglia, chi tradisce e disonora è punito con la vita: è la legge Giusy Pesce

Ha 21 anni, studia Giurisprudenza ed è tornata a Laureana di Borrello, quattromila anime, il paese di “zio e mamma”. Federica da tempo non parla più con la famiglia paterna: “Sentivo qualcosa che non andava...”. E aveva ragione. Secondo i magistrati, il padre di suo padre, nonno Vincenzo, oggi defunto, sarebbe stato il mandante dell’omicidio Chindamo. “Maria in 21 anni in casa nostra non ha mai dato segno di sbandamento”, raccontò il signor Punturiero alle telecamere di Nemo. Fino a quando il matrimonio tra Maria e Nando finisce, e nella sua vita entra un altro uomo. “Era solo uno?”, si chiese il suocero in diretta tv. E così si scopre che, negli ultimi mesi, Maria non era più tranquilla. Sentiva la pressione di quella famiglia, delle voci del paese, là dove nemmeno il silenzio protegge l’intimità. Dormiva, chiudendosi a chiave nella stanza in cui si tenevano le armi, tutte regolarmente registrate. “Il letame – dice il fratello Vincenzo – non si dà alle piante subito, bisogna farlo maturare. Così mia sorella l’hanno fatta aspettare, le hanno fatto credere che potesse avere una vita, fino a quando quell’odio diventato maturo l’ha strappata via”.Maria, come altre donne nate e morte in questa terra, era “macchiata”. Aveva lasciato il marito, non vestiva a lutto, non calava lo sguardo. E parlava. Ma ci sono luoghi in cui la megghiu parola è chija chi no esci. La vera forza della ’ndrangheta sta in questo, nel silenzio. Nelle complicità, nelle convergenze. E, per mantenere il silenzio, le donne servono, per permettere agli uomini di “lavorare”. Per quello, quando parlano, “sono mine vaganti: fanno la differenza, nel bene e nel male”, spiega don Marcello Cozzi che, da anni, accompagna donne che scappano dalle loro famiglie-prigioni e che a queste storie ha dedicato un libro con cui gira nelle scuole. “Sono giovanissime. E se appartengono a contesti mafiosi sanno bene che si sposeranno con un marito-fantasma che presto finirà in carcere o ammazzato, e che i loro figli avranno un doppio battesimo. Alcune ce l’hanno fatta. Altre, invece, sono tornate indietro, consapevoli della loro condanna a morte”.

“Far sparire la peccatrice per far sparire il peccato. Nientificare la persona”, dice un altro prete, l’ex presidente di Libera Calabria don Ennio Stamile, che ha dedicato l’università della ricerca, della memoria e dell’impegno a Rossella Casini. Rossella, come Maria Chindamo, non centrava niente con la ’ndrangheta. Ma, come lei, a un certo punto l’ha incontrata. Era il 1977, aveva 21 anni e, a Firenze, si innamora di Francesco Frisina, da Palmi. Scoppia la faida tra i Gallico e i Parrello-condello:

viene ammazzato il padre di Francesco, e lui si becca una pallottola in testa. Rossella lo convince a parlare, ma immediatamente la famiglia lo fa ritrattare. Lei non molla: parla coi pm, si mette tra le due cosche... Fino a quando non arriva l’ordine: “Fate a pezzi la straniera”. È il 22 febbraio 1981, Rossella telefona al padre a Firenze: “Sto per rientrare”. Di lei si perderanno le tracce. Per “ritrovarla” passeranno 13 anni. Violentata, uccisa e fatta a pezzi, i suoi resti furono gettati in mare, al largo della tonnara di Palmi.

Ad alcune, come Annunziata Pesce, nemmeno la memoria hanno lasciato. Sparita nel 1981 a 30 anni – si era innamorata di un carabiniere, da sposata – a “riportarla in vita” è stata un’altra donna, un’altra Pesce, Giusy, che raccontò ai magistrati di Palmi come “giù, nella mia famiglia, chi tradisce e chi disonora deve essere punito con la vita: è la legge”. Annunziata è stata “giustiziata” dal cugino, di fronte al suo stesso fratello, e seppellita a Rosarno, in una tomba “bianca”, senza foto né nome. Anna Maria Cozza, 23 anni, separatasi dal marito, il boss di Paterno Calabro, si innamora di un giovane operaio. Prima ammazzano lui, poi, nel 1991, scompare lei. Si scoprirà che era stata prelevata con la scusa di un passaggio, portata in campagna, legata a un albero e ammazzata a colpi di pietra. E poi Angela Costantino: a 25 anni poteva solo essere la moglie di Pietro Lo Giudice e la mamma dei loro 4 figli. Resta incinta una quinta volta, ma di un altro uomo. Capita lo stesso anche a sua cognata, Barbara Corvi. Di Angela sono rimasti una pentola col sugo bruciato, la carta d'identità e alcuni anelli in cucina. Mentre di Barbara si perderanno le tracce il 26 ottobre 2009, e nulla si sa ancora oggi. Da Maria Chindamo a Lea Garofalo – la testimone di giustizia che nel 2009 sparisce a Milano e verrà torturata, uccisa, e sciolta in 50 litri di acido dal suo ex marito Carlo Cosco e i suoi sodali – sono almeno dieci le storie di “lupare rosa”, donne che la ’ndrangheta ha fatto scomparire; più di 150 quelle vittime delle mafie (le ha contate l’associazione dasud nel dossier “Sdisonorate”). È la donna che può dare e togliere l’onore, ma sono gli uomini a uccidere, anche se spesso caricati dalle stesse loro madri, mogli, sorelle: lavano con il sangue per lavar via dalla famiglia, dalle voci, dalla terra, la “macchia”.

“Crescile libere”: è un sms che arriva a Vincenzo da una donna che non vive più in Calabria da anni. “Tieni le figlie di Maria lontano da quell’aria, da quella famiglia: loro le vogliono con il velo in testa...”.

“Qui nulla si muove”, vorrebbe un vecchio detto. Siamo di fronte allo Stretto di Messina, e se il vento soffia, l’aria tira verso le montagne, se il vento aspira, si spinge fino all’africa. Ma “qui nulla si muove”. Eppure oggi piove terra.


-----


Così a 79 anni, con la ’ndrina in casa, denuncio mio nipote



Ci sono angoli di questa terra in cui, nonostante il tempo, dentro le case è rimasto tutto come una volta. O quasi. È la Calabria più aspra, più isolata e nera. Puoi trovarne traccia tanto sul lembo che affaccia sul mar Tirreno, tanto su quello che guarda allo Jonio. O in quella manciata di case nascoste fra le guglie di arenaria e i valloni deserti. Sono luoghi, questi, in cui le donne sono rinchiuse dentro, letteralmente. Dove, ancora, se hanno ospiti in casa, non siedono con gli altri, ma stanno in disparte, in uno spigolo della tavola se non proprio in cucina, pronte a servire. La loro esistenza è giustificata dall’essere mogli e madri, dal badare alla casa e alle bestie, dal rispettare i doveri imposti dalla famiglia. E lì sono abituate a subire, a essere controllate e svilite, a non sapere cosa sia la voglia di vita e di normalità perché hanno conosciuto solo violenza.

“Se il terreno è mollo,è più facile scavare”, dice come prima cosa M.. La incontriamo alla Caritas a Locri, il centro della diocesi Locri-gerace che ha lanciato nel 2021, su impulso dell’energica responsabile Carmen Bagalà, un progetto per accogliere le donne e i minori vittime di violenza in Calabria. M. ha 79 anni. E da 60 prende botte. Prima da suo marito, sposato con un matrimonio combinato: gli interessi del padre di M. che aveva in dote animali e uomini si incontrarono con quelli della futura famiglia che aveva sì il blasone della ’ndrangheta ma non i mezzi. “Lui è morto giovane, in un incidente...”. Ovvero è morto sparato, nella faida di Guardavalle. Poi è arrivata la volta del figlio: “Anche lui era prepotente e anche lui non c’è più: una disgrazia...”. È stato colpito e ucciso, questa volta nella faida di Siderno. E ora che M., sorda in un orecchio per gli schiaffi ricevuti dal marito, pensava che l’incubo fosse finito, tocca al nipote, al figlio della figlia di M..

FINO A OGGI, Carmen Bagalà ha accolto nel suo dormitorio a Locri 59 casi di “Codice rosso”, la metà provenienti da ambienti di ’ndrangheta: 35 donne tra i 21 e i 79 anni e 24 minori. “E noi che eravamo convinti che ci saremmo occupati soprattutto di migranti...”. C’è chi arriva perché a segnalare il caso sono le forze dell’ordine o gli assistenti sociali, chi dopo essersi confessato in parrocchia, chi direttamente suonando al citofono in Caritas: “Rispondiamo 24 ore su 24”. È qui che, in tante, provano a riprendersi la vita. “Mi chiedo spesso se, aprendo il nostro centro prima, avremmo permesso a donne come Maria Chindamo di salvarsi...”. Le ospiti hanno a disposizione piccole unità abitative indipendenti, una psicologa, gli animatori, le suore: tutto in sinergia con le Ats locali e con lo sportello anti-violenza “Angela Morabito” di Ardore, nato anche grazie a Fiorella Mannoia. “Spesso le nostre ospiti non vogliono andare in commissariato: c’è ancora tanta paura, abbiamo difficoltà a trovare medici che abbiano il coraggio di refertare le violenze e poi ci sono le pressioni delle famiglie che si fanno sentire”, spiega Carmen, che sta dedicando le migliori energie della sua vita a questo progetto. “Il 30% delle donne che abbiamo accolto purtroppo è tornato indietro, sono rientrate a casa. Ma siamo riuscite a farne accedere tre al programma di protezione. E per noi già strapparne una alla ’ndrangheta è un successo”.

Il centro nato nel 2021 Fino a oggi, 59 i casi da “Codice rosso”: 1 su 2 da famiglie di ’ndrangheta E per 3 di loro è scattata la protezione dello Stato

QUANDO, pochi giorni fa, M. arriva da Carmen – che si prende cura di lei come se fosse una figlia, nonostante M. abbia 79 anni – è perché il nipote ha spaccato il femore e la spalla alla madre, ricoverata ora in ospedale. M. era al piano di sopra, sentendo le urla ha sceso le scale, il telefono in mano per chiedere aiuto, ma il nipote ha iniziato a gridarle: “Puttana, se vieni qui ti ammazzo”. È solo l’ultimo episodio. M., per dirne una, viveva in casa col cancello chiuso con una catena, e per uscire o rientrare doveva essere il nipote ad autorizzare e a darle la chiave. “Ha la testa che si è un po’ rovinata: un po’ ci è nato, un po’ è stato tirato...”, quasi lo giustifica. In una società contadina in cui l’uomo nasceva senza diritti né proprietà, l’unico diritto che poteva esercitare e l’unica proprietà che poteva rivendicare era sulla donna di casa: M. è rimasta intrappolata in quell’epoca. Per lei, è sempre “colpa” di una donna. Quando il violento era suo marito, era perché era la suocera a caricarlo; quando lo erano il figlio e il nipote, era per la sorella di M., la zia zitella, che viveva a casa con loro. “Era l’unica autorizzata a partecipare alle riunioni dei masculi. Era lei che voleva mettere sotto gli altri”. E così, nella sua guerra, la sorella ha disposto dei figli e dei nipoti di M. come fossero cosa propria. “Era una donna di ’ndrangheta?”. “Mia sorella era la ’ndrangheta”. Sarà l’unica volta in cui M. pronuncerà quella parola, durante il tempo trascorso insieme.

Sangue chiama sangue. “Ho paura – confessa – ma che altro posso fare ora? A casa non posso tornare .... È una vita che sono sottomessa”, dice M. con una tale leggerezza da farti comprendere che, per lei, quella violenza non è mai stata un torto, semmai un destino a cui non potersi sottrarre. “Sono dinamiche che ritroviamo in tutte le nostre storie e, in generale, nei casi di violenza di genere”, spiega Carmen. Perché la ’ndrangheta, come racconta don Marcello Cozzi, è prima di tutto “anti-cultura”. E, anche se non la vedi, è un’ombra che ti segue sempre, ovunque tu vada. A meno che non si accenda la luce. M., a 79 anni, quella luce l’ha accesa. Grazie all’abbraccio di Carmen, oggi ha deciso di denunciare.






24.11.22

il 25 novembre dev'essere tutti i giorni perché non sia solo lava coscienza e una giornata delle ipocrisia

 Domani   è  25  novembre  ovvero la  giornata   sul  femminicidio e  violenze    sulle  donne  un problema    che    va  o  almeno dovrebbe     andare  al di  là  delle idee     politiche  \  culturali   di ciascuno  di noi     visto  che  

«La violenza di genere è un fenomeno criminale complesso, una piaga sociale, una grave violazione dei diritti umani. Sbaglia chi pensa sia questione di donne, è questione di uomini perché tocca agli uomini porre rimedio», sottolineando tra le altre cose che «i casi di violenza sono aumentati del 19% l’anno scorso».

                                                    Ignazio  la  Russa   


 e  come  ogni anno   mi   pongo  il problema   che  cosa  dire   e scrivere  che  non si  retorico o  ipocrita   ,   soprattutto     che  non generi equivoci  qual ora  dovessi  esprimere  , come  ho  fatto di   recente  , nel  mio  sfogo   contro  l'istituzione   (  non contro   l'argomento  si badi bene  )   del  giornata  obbligatoria  . La  risposta  a questo mio  assillante  dubbio   viene   dal botta  e  risposta    avuto   su Facebook   e  di cui  ho parlato nel post  precedente    ,  soprattutto  nelle  ultime  righe  . Posso dire   che  esso  è ormi un emergenza  endemica   dovuto alla mancata  prevenzione   e all'affrontarlo solo ed  esclusivamente  , peraltro applicandole  male  ,  legislativo  \  repressivo . Infatti   è  assodato che  le  manifestazioni ,  convegni  ,   campagne di sensibilizzazione     e  spot   non bastano  o  sono solo inutili   quasi  propagandistici   se  non s'affronta  (  salvo pochissimi casi  d'insegnanti coraggiosi  )   a livello educativo   nelle  scuole    e  negli oratori     o altri centri  d'aggregazione    giovanile  .  Quindi posso dire    da  ex stalker   che  non basta  una  giornata   per  dire  NO  al  femminicidio  \  violenza  di genere , il NO  dev'essere  continuo  perché  mica  le  discriminazioni   ed  le  sopraffazioni   avvengono un  solo   giorno  all'anno  .  Concludo questo  mio  post   raccontando , le  storie  spesso  sono più  efficaci  di mille  bla  ... bla  ....  , la storia  di Lea Garofalo  ,  riporta dall'amica  \  Compagna  di strada   ed  utente del nostro blog  Daniela  Tuscano  


24 novembre 2009: barbara uccisione di Lea Garofalo.
Il 24 novembre ricorre l’anniversario della barbara uccisione da parte della 'ndrangheta di Lea Garofalo, figura di donna coraggiosa che ha saputo dire di no alla mafia. Lea decise di testimoniare sulle faide interne tra la sua famiglia e quella del suo ex compagno Carlo Cosco.
Parlò della "bestia nel cuore" in casa sua. Lea Garofalo, che aveva 35 anni, fu rapita e poi strangolata a Milano, in un appartamento di Piazza Prealpi, dopo che il marito le aveva dato appuntamento all’Arco della Pace. Il corpo venne bruciato per tre giorni in un campo a San Fruttuoso affinché di lei fosse cancellata ogni traccia. La figlia Denise, che allora aveva 17 anni, rimase ad aspettare il ritorno della madre. Poi andò a fare denuncia accusando il padre. La scelta di Lea fu raccolta da Denise, che ha testimoniato nell’Aula del tribunale, con grande coraggio, sapendo che sul banco degli imputati c’erano suo padre, suo zio e il suo ex fidanzato. Ricordava Don Ciotti: “ Abbiamo un debito con Lea Garofalo. Il problema è chi tace e chi lascia fare. Ci sono troppi cittadini a intermittenza, troppa gente che si commuove ma non si muove. Ne usciamo solo con un grande appello e chiamata alla responsabilità civile”.
Roberto Cenati - Presidente Anpi Provinciale di Milano
per non sapesse o non ricordasse chi era e la sua vicenda

 
“Di me si parlerà quando non ci sarò più” aveva confessato al suo avvocato. E così è andata.
Lea Garofalo è stata una delle primissime donne ad aver avuto il coraggio di ribellarsi alla propria famiglia di ‘ndrangheta.
Aveva incominciato a parlare nel 2002, in cambio della protezione dello Stato per sé e per la figlia Denise.
Per lei sognava un destino diverso da quello che le era toccato in sorte, voleva che studiasse, perché sapeva che solo la scuola ti può far alzare la testa e dire di no.Per questo aveva raccontato tutto: lo spaccio, le faide, gli omicidi. Per questo, una volta abbandonato il programma di protezione, il 24 novembre 2009, esattamente 13 anni fa, è stata raggiunta a Milano dal suo ex compagno, uccisa e il suo corpo dato alle fiamme. Aveva 35 anni. Per il suo omicidio quattro membri del clan sono stati condannati all’ergastolo, tra cui anche il suo assassino. Solo allora, su richiesta della figlia, il 19 ottobre 2013 Milano l’ha salutata per l’ultima volta in una piazza Beccaria gremita all’inverosimile, con le parole della figlia Denise. “La mia cara mamma ha avuto il coraggio di ribellarsi alla cultura della mafia, la forza di non piegarsi alla rassegnazione e all’indifferenza. Il suo funerale pubblico è un segno di vicinanza non solo a lei, ma a tutte le donne e gli uomini che hanno rischiato e continuano a mettersi in gioco per i propri valori, per la propria dignità e per la giustizia di tutti".Alla donna straordinaria che è stata, al suo coraggio, al suo esempio. Mai dimenticarla.


proprio mentre finivo di scrivere questo post che su mio Facebook come ricordo è comparso questa mia condivisione di qualche anno fa




quindi  ecco perchè    continuerò  a parlarne    cercando     di  non   scendere    nel   retorico   e nell'ipocrisia  













25.6.22

fuga dall'andrangheta nel nome dei figli \e

 

« Sono la madre di un ragazzo di 15 anni e uno di 13. Temo che possano finire in carcere o essere ammazzati come è successo a mio padre, mio fratello e mio suocero... Per favore, mi aiuti». Sono proprio i figli, e il desiderio di assicurare loro un futuro lontano da prigione e morte, il filo conduttore fatto d’amore che unisce le storie delle donne di ‘ndrangheta che si rivolgono al programma Liberi di scegliere, il protocollo governativo creato nel 2012peroffrire ai minori di famiglie mafiose la possibilità di una seconda vita lontano dalla criminalità organizzata.


 La liberazione dalla malavita e la rinascita passano anche attraverso il coraggio delle donne, quasi sempre madri, quasi sempre vittime di matrimoni combinati tra clan per espandere il sistema delle alleanze strategiche, un complesso mosaico di parentele. Le donne delle ‘ ndrine sono cruciali: hanno il compito di garantire la discendenza, di crescere i figli che saranno i futuri capi e possono preservare o sfaldare l’unità del nucleo. «Significa essere l’elemento che consente la prosecuzione del governo mafioso perché genera i figli maschi, perché insegna loro l’odio e come e perché va compiuta la vendetta quando si subisce un torto», scrivono Nicola Gratteri, procuratore della Repubblica al Tribunale di Catanzaro, e Antonio Nicaso ne La malapianta (Mondadori, 2010). «Spesso hanno il marito in carcere per reati mafiosi e quando capiscono che quello è il futuro che attende i loro ragazzi, vengono da noi. Arrivano di nascosto e sono spaventate», racconta Giuseppina Surace, giudice esperto del Tribunale minorile di Reggio Calabria, la città in cui l’ex presidente dello stesso Tribunale, Roberto Di Bella, ha creato il programma Liberi di
Scegliere quando ha capito che la mafia si eredita. «Mi sono trovato a giudicare i figli di minorenni che avevo condannato vent’anni prima», spiega il procuratore Di Bella che ha portato il suo protocollo a Catania, dove è presidente adesso, e in altre città. «Questa circostanza mi ha spinto a chiedermi cosa fare per prevenire il fenomeno dell’ereditarietà criminale tenendo conto che la ‘ndrangheta si fonda sul legame di sangue, familiare, a differenza di Cosa nostra dove prevale il vincolo del mandamento». «In questi 10 anni abbiamo aiutato circa 30 donne e 70-80 figli. 

Anche qui a Catania sta iniziando a funzionare il nostro protocollo ma con modalità diverse perché la mafia ha  meccanismi molto differenti dall’ndrangheta», valuta Di Bella.  ( foto   sopra  al  centro  ) 
«Aiutare queste persone a fidarsi di noi è difficile perché sono intrise di paura e sospetto. Noi chiediamo loro di fare un salto nel buio recidendo tutti i rapporti di parentela e amicizia. Vivono un travaglio profondo», racconta la Surace.

«Io sono la prima persona che incontra le donne che intraprendono questo percorso», dice l’avvocato Enza Rando, attivista, vicepresidente di Libera,( foto a  destra   )  la principale rete associativa contro le mafie in Italia che collabora con Liberi di scegliere. «Non sono collaboratrici di giustizia né testimoni, per questo chiediamo una legge specifica. Per ora dobbiamo aiutarle noi a rifarsi una vita in una città lontana ma con lo stesso cognome, a trovare una casa, un lavoro o a riqualificarsi. Paghiamo tutte le spese e la nostra rete di volontari le sostiene nelle incombenze quotidiane, dall’aprire un conto in banca all’iscrizione dei figli a scuola. Le sosteniamo per ricrearsi delle radici perché anche la libertà è faticosa se non ti è stata insegnata», aggiunge la Rando.

Che cos’hanno in comune queste donne? «Sono vedove bianche. La loro vita è scandita dalle visite in carcere al marito, ai fratelli, ai figli. Sono condannate anche loro. Alcune avevano ruoli chiave, potere e soldi, eppure non godevano di alcuna libertà. Se il marito non c’è, sono controllate dalle suocere o altri parenti. Subiscono una doppia violenza: un’esistenza immersa nella brutalità delle regole del clan e la minaccia costante da parte della “famiglia” perché le prime persone che danno loro la caccia per ammazzarle, quando se ne vanno, non sono i mariti: sono i padri che vogliono salvare l’onore del cognome», continua la Rando, che ha incontrato decine di queste signore del coraggio. «La realtà mafiosa è immutata ma loro sono cambiate nel tempo. Hanno accesso a internet, seguono la tv e hanno maturato una consapevolezza: il diritto alla felicità. La storia di Lea Garofalo, testimone di giustizia uccisa per vendetta dall’ex compagno, e il film su di lei (Lea, di Marco Tullio Giordana, 2015, ndr) hanno avuto un effetto dirompente per loro, ne parliamo spesso. Inizialmente quando arrivano da noi si comportano da mafiose, persino nella postura e nel linguaggio. Eppure col passare dei mesi tutte si accorgono di non avere mai sperimentato prima cosa fosse una vita “normale”. “Finalmente riesco a respirare”, è la frase più frequente. Nessuna, in dieci anni, è mai tornata indietro. Sono donne rigenerate, anche nel pensiero», spiega la Rando.

«Stiamo seguendo la storia di una ragazza figlia di un professore universitario e nipote di un magistrato. Ha 27 anni ed è distrutta. Ha interrotto gli studi per sposarsi col rampollo di una famiglia importante, il classico ragazzo belloccio e pieno di soldi. Dopo le nozze sono cominciati i guai ma lei ha voluto nascondere tutto alla sua famiglia. Il marito la picchiava e la ricattava usando il figlio: “Se parli, se scappi…”. La ragazza ha iniziato a soffrire di anoressia e a quel punto i genitori l’hanno convinta a confidarsi. Il marito è finito in carcere e lei ha potuto riflettere e rendersi conto che viveva un inferno anche perché mentre lui era dietro le sbarre era controllata dal clan. Quando è venuta da noi a denunciare, tremava così tanto da non riuscire a stare sulla sedia. Sua madre e suo padre sono stati grandiosi. Le hanno detto: “Lasciamo tutto, casa e lavoro, andiamo via”».

Sono tante le storie rimaste nel cuore del giudice Surace, quelle che Di Bella segue a distanza da anni e quelle che la Rando non molla mai. «Ammiro tutte queste donne. Però c’è una ragazza a cui sono molto legata: suo fratello, in carcere come anche il padre, anni fa ha ucciso la madre e lei è sola. Finito il liceo si è iscritta all’università ed è bravissima. Mi dice spesso che le manca la mamma, anche perché non è mai stato fatto ritrovare il corpo e questo la fa soffrire. Quando i suoi amici fuori sede ricevono la visita dei genitori per lei è un momento difficile ma poco tempo fami ha confidato: “Mia madre mi ha insegnato che ci possono essere tante mamme, persone che ti stanno vicino. Aveva ragione”. Ora è in Inghilterra a fare un corso e mi ha scritto: “Per la prima volta nella vitami sento spensierata”».

Viste spesso come l’anello debole della catena, le donne possono essere quello più forte perché lo spezzano. «La madre di due bambini ha scelto il nostro percorso mentre il marito era in carcere e lei in attesa di una sentenza di condanna», prosegue la Rando. «Quando le abbiamo consigliato di lasciare che i piccoli si avvicinassero subito a una famiglia affidataria, ha rifiutato. Era infuriata con noi. Poi ha riflettuto: “È vero, per loro sarà più semplice così”. I bimbi stati dati a una coppia di professori, persone dolcissime. Due anni dopo, quando è arrivata la condanna, la mamma ha spiegato ai figli: “Ho fatto degli errori e devo andare in prigione ma fidatevi di queste persone che vogliono aiutarci”. Quando la signora ha riavuto la libertà, il legame con la famiglia affidataria era così stretto, il suo senso di gratitudine così intenso, che ancora oggi trascorrono le feste e le vacanze insieme».

emergenza femminicidi non basta una legge che aumenti le pene ma serve una campaga educativa altrimenti è come svuotare il mare con un secchiello

Apro l'email  e tovo  queste  "lettere "   di  alcuni haters  \odiatori  ,  tralasciando  gli  insulti  e le  solite  litanie ...