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14.10.23

LA REGOLA DELL'AMICO EISTE O NON ESISTE IL CASO DI Anna e Dave DUE GIOVANI INGLESI AMICI D'INFANZIA POI SPOSATI E GENITORI DI 3 FIGLI




in sotofondo l'omonima   canzone la regola dell'amico - 883  la cui canzone ha saputo dare una visione alternativa, espressa a teorema, di quella incomoda posizione di fedele confidente di una persona attrattiva e, nel contempo, lasciva e determinata. Ma 

                            DA leggo.it tramite https://www.msn.com/it-it/

 Sposare il migliore amico? Potrebbe essere un pensiero che almeno una volta ti sarà passato per la mente. Per questo motivo valutare sempre i pro e i contro di una relazione di questo tipo sarebbe una cosa giusta. C'è una coppia, però, che ha considerato naturale fare questo passo insieme solo perché se lo erano promessi da piccoli: «Se quando abbiamo trent'anni saremo single ci sposeremo», si erano detti sui banchi di scuola. La promessa si è realizzata e la coppia ha spiegato che è stata la cosa migliore che potesse accadere.  A raccontare la storia sono Anna e Dave, due giovani inglesi che dai tempi del liceo hanno stretto un'amicizia che è andata avanti fino a che uno dei due non ha confessato l'interesse nei confronti dell'altro. Anna, nello specifico, ha spiegato su Reddit di aver partorito per la terza volta e che il papà è proprio il suo storico amico che ha sposato solo per assecondare una promessa fatta in gioventù. La storia ha conquistato i fan per la sua dolcezza: «Dave e io siamo grandi amici - ha spiegato Anna. Dal liceo ad oggi abbiamo avuto diversi compagni, reciproci fidanzati e fidanzate, ma ad averla sempre vinta era questa forza magnetica che ci attraeva l'uno all'altra. In altre parole, qualcosa più forte di noi ci riportava sempre a riavvicinarci sino a quando Dave non mi ha chiesto: "Sei l'unica che ha tutte le caratteristiche che cerco in una donna. Perché non proviamo a stare insieme?"».«Avevamo 30 anni - ha aggiunto la donna - e da piccoli ci eravamo promessi che, se fossimo stati single a quell'età, avremmo fatto la pazzia di sposarci e così è stato. È stata la scelta più bella che io avessi mai fatto nella mia vita e per questo motivo, oggi comunico la nascita del nostro terzo figlio». Una storia che ha commosso il web e che in qualche modo ha attirato anche qualche critica: «Vi siete sposati per disperazione, ma non potevate farvi una vita diversa? Magari vi siete solo consolati a vicenda per non aver trovato la persona giusta», ha scritto un utente sul forum. E, ancora: «Ma chi ci crede? Io il mio migliore amico lo odio, non ci starei mai insieme, perciò è il mio migliore amico, voi evidentemente non avete mai avuto il coraggio di dirvi la verità».

quindi mi  chiedo  e  vi  chiedo    vale  ancora  ?

11.10.23

DIARIO DI BORDO N 16 ANNO I Perché i fratelli Bianchi non hanno preso l’ergastolo per l’uccisione di Willy: le sconcertanti motivazioni della sentenza.,il dossieraggio \ macchia di fango cotro la giudice Iolanda Apostolico continiua . Dopo i video della sua resenza ad una manifestazione ora anche la sua vita privata

l'apertura     avrebbe    dovuto essere  un altra ma   la  notifica  arrivatami dai tanti   gruppi   di telegram 
 delle motivazioni  💩🙊🙈🙉🤬😢👿👎🏼👿☠   sulla  motivazioni   della    vergognosa    sentenza  d'appello  sulla   vicenda  di Willy Duarte   mi  hano  fatto    cambiare   il primo post  del  diario  di bordo  . Non sarò   esperto  giuridicamente ma le motivazioni mi sembrano  assurde perchè  già questo  :    « [...]Risulta con evidenza la sussistenza dell’elemento soggettivo del delitto di omicidio volontario nella forma del dolo eventuale, in quanto i concorrenti, con la condotta violenta tenuta da ciascuno di essi, pur rappresentandosi che il brutale pestaggio potesse determinare la morte della vittima, hanno agito ugualmente non solo accertando il rischio ma palesando una adesione psicologica all’evento poi verificatosi»: la morte di Willy.«In tale contesto e secondo le regole della comune esperienza, deve del tutto escludersi che gli imputati abbiano agito al solo fine di cagionare lesioni alla vittima, ove si consideri anche che sin dal calcio iniziale Willy è già incapace di difendersi ».   a  mio aviso dovrebbe  costituire  un aggrante    non un attenuante   in quanto  W  era  già a  terra   dopo  il  secondo  pugno  .   Infatti    da   

 Pierfederico Pernarella da Leggo.it

Omicidio Willy, i giudici di Appello: «L’ergastolo tolto ai fratelli Bianchi perché non avevano partecipato alla lite iniziale»
Depositate le motivazioni della sentenza di secondo grado che ha ridotto la pena a 24 anni
Omicidio di Willy Monteiro Duarte, l’ergastolo tolto ai fratelli Marco e Gabriele Bianchi perché non avevano partecipato alla lite iniziale che era stata invece innescata dagli altri imputati. I giudici della Corte di Appello di Roma spiegano così le ragioni per cui ai due fratelli di Artena sono state concesse le attenuanti generiche e quindi la riduzione della pena dall’ergastolo a 24 anni.La sentenza di secondo grado per l’omicidio del 21enne di Paliano avvenuto nella notte tra il 5 e il settembre del 2020 a Colleferro è arrivata lo socrso 12 luglio. Ora sono state depositate per motivazioni che per il resto confermano quello della Corte di Assiste di Frosinone L’Appello ha confermato le condanne a 21 anni per Mario Pincarelli e a 23 anni per Francesco Belleggia.Le motivazioni dei giudici  Deve ritenersi accertato «che l’aggressione inizia con il violento calcio sferrato da Bianchi Gabriele al petto di  Willy Monteiro Duarte con tecnica da arti marziali e con potenza tale da sospingerlo di schiena contro un’automobile parcheggiata, al quale segue un pugno sferrato sempre da Bianchi Gabriele, al momento in cui il giovane tenta di rialzarsi», scrivono i giudici.A sua volta, si legge ancora, «Marco Bianchi, in sinergia con il fratello, colpisce con un calcio al livello del collo e poi con un pugno il Cenciarelli» Samuele «intervenuto in difesa di Willy e poi lo stesso Willy con calci e pugni».Belleggia e Pincarelli, proseguono i giudici, «si affiancano da subito ai fratelli Bianchi e colpiscono Willy con un violento calcio alla testa (Belleggia) e con calci e pugni (Pincarelli) quando ormai Willy era a terra inerme», si legge nella sentenza.I giudici sono convinti del coinvolgimento dei quattro nell’azione omicida tanto che spiegano: «Risulta con evidenza la sussistenza dell’elemento soggettivo del delitto di omicidio volontario nella forma del dolo eventuale, in quanto i concorrenti, con la condotta violenta tenuta da ciascuno di essi, pur rappresentandosi che il brutale pestaggio potesse determinare la morte della vittima, hanno agito ugualmente non solo accertando il rischio ma palesando una adesione psicologica all’evento poi verificatosi»: la morte di Willy.«In tale contesto e secondo le regole della comune esperienza, deve del tutto escludersi che gli imputati abbiano agito al solo fine di cagionare lesioni alla vittima, ove si consideri anche che sin dal calcio iniziale Willy è già incapace di difendersi». Quindi i giudici precisano che la lite era iniziata già prima dell’arrivo dei fratelli Bianchi.Una circostanza che, secondo la Corte, costituisce un’attenuante: «Non si può non considerare che i fratelli Bianchi sono del tutto estranei al contrasto iniziale che ha poi provocato la violenta aggressione, che la condotta degli imputati si è esaurita in un breve lasso di tempo (circa 40/50 secondi) e che il violento pestaggio è anche ascrivibile agli altri imputati».  

Concordo  con  , non  ricordo il canale  di telegtam ,   RobbieS, [11/10/2023 11:40]

Potete dire tutto ciò che volete e assolvere quel giudice ma "toglierel’ergastolo ai 2 assassini perché non avevano partecipato alla lite iniziale che era stata invece innescata da altri" mi sembra pura demenza e inettitudine, o come si dice in burocratese "la (sentenza) cazzata del 2023" pari a quella dell'altro decerebrato che assolse l'africano stupratore perché "non poteva sapere che in italia non si può stuprare in spiaggia" !!

" l' ergastolo" lo sta già subendo quella povera madre, che piangerà suo figlio fino la fine dei suoi giorni .



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il dossieraggio  \  macchia di fango   cotro la  giudice   Iolanda Apostolico  continiua  . Dopo   i video della sua  resenza ad una  manifestazione    ora  anche  la  sua  vita privata


Beccata in moto senza casco! Se ne frega di ogni legge la giudice rossa che libera i clandestini: beccata dalle telecamere di Rete 4



Nel corso della puntata del 9  ottobre  di “Quarta Repubblica”, è stato mandato in onda il servizio firmato da Angelo Macchiavello sulla situazione al tribunale catanese e la Apostolico è stata pizzicata in una situazione tutt’altro che legale. Le telecamere della trasmissione di Rete 4 hanno infatti registrato la magistrata rossa a bordo di un motorino guidato dal marito ma senza casco.Vero     Come tutti sapranno, il dispositivo di sicurezza è obbligatorio per chiunque guidi o sia trasportato su un veicolo a due ruote, indipendentemente da età e cilindrata ma  da  qui   farne  << Un altro caso tutt’altro che edificante >> secondo  il  canale   telegram https://www.dcnews.it/      da  cui è preso il  video  sotto   

Video Player
<<  per la giudice Apostolico, già nel mirino delle forze di governo per quanto registrato nel corso delle ultime settimane. >> è  proprio vergognoso  . 
da https://www.opinione-pubblica.com/




Ecco     quindi    che  la  a destra  Melonianiana  \  Salvinista  ma non solo  esssa  se    analizziamo la storia italiana degli ultimi 60/70 anni  (  I II  ) perde il pelo ma non il vizio usando le stesse tecniche del dossieraggio  sia   in vecchio stile [ guerra fredda ] sia   in nuove  tecniche   [ da    tangentopoli    ad  oggi ] . Secondo  me    si tratta  oltre  che   di sciacallaggio   politico   mediatico   anche  di  sessismo in quanto  un    provvedimento   come   il  suo   è stato adottato dal giudice Rosario Cupri, un collega del giudice Iolanda Apostolico. la  notizia   presa   da  << Apostolico, un altro giudice libera sei migranti a Pozzallo: non convalidato il trattenimento (ilmessaggero.it) >>  risale al 29 settembre che ha rigettato un'analoga richiesta nei confronti di quattro tunisini nel centro di accoglienza sconfessando di fatto il decreto del governo. Ed  nessuno  lo  ha  ne  dossierato  ne attaccato . Inoltre      secondo il mio parere    di   cittadino   non ha  violato nessuna  legge  nè  giuridica  visto  che  la  sua partecipazione  a tale manifestazione  è  avvenuta      quando  ancora    non c'era la  legge    cutro  ed  la meloni  non era al governo ,  ma soprattutto  non è colpa non è sua  se   chi   scrive le leggi  le    scrive  e poi le  fa  approvare     in maniera  pedestre  ed  barbina    cioè non  tenendo    conto   ed   obbligado i  giudici   ad impugnarle  visto   che  violano sia la  costituzione italiana  sia   le legge europee  . Coincludo affermando  che   avendo  trovato   una  gudice   che  gli ha  rotto   le  uova  nel  paniere    anzichè    che attaccarla  \  criticarla nel merito   lo fanno   andando  a pescare la  sua preseza    ad   un   fatto di    5 anni  fa   per il  quale   nessuno  prima  s'era  lametato o  aveva   protestato per  la  sua    eventuale    imparzialità  

4.10.23

“LUPARE ROSA”: MARIA E LE ALTRE e “Così a 79 anni, con la ’ndrina in casa, denuncio mio nipote

Un  altro motivo per  odiare  e combattere  la mentalità mafiosa   anche da  parte   di chi  vive  dove  la mafia  non  c'è ufficialmente   ma  ci sono le  sue  infiltrazioni sempre  più  radicate   . 
  da  il  fatto   quotidiano  del  1  e del 3  ottobre  


“LUPARE ROSA”: MARIA E LE ALTRE

In terra di ’ndrangheta Sono oltre 10 le donne fatte sparire e uccise per lavare col sangue la macchia del disonore Morte per un no, per amare, per essere libere

Epoi non l’hanno aspettata più. Hanno capito che non potevano aspettarla più. Chi, come il fratello Vincenzo, da subito. Da quando ritrovarono, davanti al cancello che cinge i loro terreni, sulla SP 31 verso Limbadi, l’auto bianca di Maria, col motore acceso, lo sportello aperto, la borsa sul sedile con dentro cellulare e soldi. Chi, come nonna Pina, la madre di Maria e Vincenzo che oggi non c’è più, quando ricevette la chiamata: erano le 7 di mattina e Maria non si trovava; per terra, accanto all’auto, sangue. Chi, come Federica, da quella sera. È il 6 maggio 2016, un venerdì. Quando scompare, Maria Chindamo non ha ancora compiuto 45 anni.

Non si sente niente, qui. Se porgi l’orecchio al mare, per quanto è vicino, può sembrare di sentirlo. Ma c’è solo silenzio. E il rumore del vento, che muove i rami e le canne che invadono le strade. Le terre di   Maria Chindamo – oggi curate dalla cooperativa Goel, al motto di “controlliamo noi le terre di Maria Chindamo” – sono circondate da un’immensa selva verde, fatta di agrumeti e ulivi, boschi di conifere e faggete, e piccoli casolari in pietra abbandonati. A salire, alle spalle della valle, le Preserre calabresi. In uno di questi terreni – non è stato possibile finora sapere quale – c’è Maria o quello che di lei resta. “Non possiamo nemmeno vivere i nostri ricordi – confida Vincenzo, per Maria tutto – senza che i miei nipoti pensino alla testa della madre mangiata dai maiali”. Due settimane fa l’inchiesta “Maestrale-carthago 2” della Dda di Catanzaro, guidata da Nicola Gratteri oggi neo Procuratore di Napoli, ha portato all’esecuzione di 81 misure cautelari. Tra gli arrestati, Salvatore Ascone detto “U Pinnularu”, il “dirimpettaio di terreno” di Maria, uomo della potente cosca Mancuso, a cavallo tra le province di Vibo e di Reggio Calabria. Già arrestato e scarcerato varie volte, anche per il caso Chindamo, Ascone disse a uno dei faccendieri dei Mancuso oggi collaboratore di giustizia: “Io, pe’ quattro sordi, a chija eppi ’u m’a juntu ’ncojiu”, “io, per quattro soldi, quella me la sono dovuta caricare addosso”. Sono state le testimonianze di alcuni pentiti, tra cui Emanuele Mancuso, a dare la svolta. U Pinnularu gestiva i terreni per Diego Mancuso, alcuni dei quali confinanti con quelli di Maria. 
“La proprietà terriera, là dove il controllo ’ndranghetistico è endemico – scrivono i magistrati – non solo rappresenta un indotto economico, ma costituisce l’unità di misura dell’egemonia criminale”. Maria, alla richiesta di cedere i suoi terreni, aveva detto no. E “Pinnularu l’ha fatta scomparire – racconta uno dei collaboratori di giustizia – sapendo che la responsabilità sarebbe ricaduta sulla famiglia del marito”. Maria è scomparsa il 6 maggio 2016 e il 6 maggio 2015 Nando, l’uomo con cui lei era stata famiglia per trent’anni, si era tolto la vita. Non esistono le coincidenze. Maria, “quando si è permessa di postare le foto con il nuovo compagno – ha spiegato Gratteri –, è stata uccisa in modo inumano: gettando il cadavere in pasto ai maiali e triturandone i resti con la fresa di un trattore. Bruciava l’idea che i terreni fossero gestiti da una donna che si sarebbe permessa di rifarsi una vita: da una parte, non le è stata perdonata questa libertà; dall’altra, ci sono gli appetiti della ’ndrangheta”.Terra. Sangue. Famiglia. “Sono cose che ho sentito quando studiavo all’università Storia del diritto medievale, nei regni romano-barbarici...”, dice Federica, la figlia di Maria.

Nella famiglia, chi tradisce e disonora è punito con la vita: è la legge Giusy Pesce

Ha 21 anni, studia Giurisprudenza ed è tornata a Laureana di Borrello, quattromila anime, il paese di “zio e mamma”. Federica da tempo non parla più con la famiglia paterna: “Sentivo qualcosa che non andava...”. E aveva ragione. Secondo i magistrati, il padre di suo padre, nonno Vincenzo, oggi defunto, sarebbe stato il mandante dell’omicidio Chindamo. “Maria in 21 anni in casa nostra non ha mai dato segno di sbandamento”, raccontò il signor Punturiero alle telecamere di Nemo. Fino a quando il matrimonio tra Maria e Nando finisce, e nella sua vita entra un altro uomo. “Era solo uno?”, si chiese il suocero in diretta tv. E così si scopre che, negli ultimi mesi, Maria non era più tranquilla. Sentiva la pressione di quella famiglia, delle voci del paese, là dove nemmeno il silenzio protegge l’intimità. Dormiva, chiudendosi a chiave nella stanza in cui si tenevano le armi, tutte regolarmente registrate. “Il letame – dice il fratello Vincenzo – non si dà alle piante subito, bisogna farlo maturare. Così mia sorella l’hanno fatta aspettare, le hanno fatto credere che potesse avere una vita, fino a quando quell’odio diventato maturo l’ha strappata via”.Maria, come altre donne nate e morte in questa terra, era “macchiata”. Aveva lasciato il marito, non vestiva a lutto, non calava lo sguardo. E parlava. Ma ci sono luoghi in cui la megghiu parola è chija chi no esci. La vera forza della ’ndrangheta sta in questo, nel silenzio. Nelle complicità, nelle convergenze. E, per mantenere il silenzio, le donne servono, per permettere agli uomini di “lavorare”. Per quello, quando parlano, “sono mine vaganti: fanno la differenza, nel bene e nel male”, spiega don Marcello Cozzi che, da anni, accompagna donne che scappano dalle loro famiglie-prigioni e che a queste storie ha dedicato un libro con cui gira nelle scuole. “Sono giovanissime. E se appartengono a contesti mafiosi sanno bene che si sposeranno con un marito-fantasma che presto finirà in carcere o ammazzato, e che i loro figli avranno un doppio battesimo. Alcune ce l’hanno fatta. Altre, invece, sono tornate indietro, consapevoli della loro condanna a morte”.

“Far sparire la peccatrice per far sparire il peccato. Nientificare la persona”, dice un altro prete, l’ex presidente di Libera Calabria don Ennio Stamile, che ha dedicato l’università della ricerca, della memoria e dell’impegno a Rossella Casini. Rossella, come Maria Chindamo, non centrava niente con la ’ndrangheta. Ma, come lei, a un certo punto l’ha incontrata. Era il 1977, aveva 21 anni e, a Firenze, si innamora di Francesco Frisina, da Palmi. Scoppia la faida tra i Gallico e i Parrello-condello:

viene ammazzato il padre di Francesco, e lui si becca una pallottola in testa. Rossella lo convince a parlare, ma immediatamente la famiglia lo fa ritrattare. Lei non molla: parla coi pm, si mette tra le due cosche... Fino a quando non arriva l’ordine: “Fate a pezzi la straniera”. È il 22 febbraio 1981, Rossella telefona al padre a Firenze: “Sto per rientrare”. Di lei si perderanno le tracce. Per “ritrovarla” passeranno 13 anni. Violentata, uccisa e fatta a pezzi, i suoi resti furono gettati in mare, al largo della tonnara di Palmi.

Ad alcune, come Annunziata Pesce, nemmeno la memoria hanno lasciato. Sparita nel 1981 a 30 anni – si era innamorata di un carabiniere, da sposata – a “riportarla in vita” è stata un’altra donna, un’altra Pesce, Giusy, che raccontò ai magistrati di Palmi come “giù, nella mia famiglia, chi tradisce e chi disonora deve essere punito con la vita: è la legge”. Annunziata è stata “giustiziata” dal cugino, di fronte al suo stesso fratello, e seppellita a Rosarno, in una tomba “bianca”, senza foto né nome. Anna Maria Cozza, 23 anni, separatasi dal marito, il boss di Paterno Calabro, si innamora di un giovane operaio. Prima ammazzano lui, poi, nel 1991, scompare lei. Si scoprirà che era stata prelevata con la scusa di un passaggio, portata in campagna, legata a un albero e ammazzata a colpi di pietra. E poi Angela Costantino: a 25 anni poteva solo essere la moglie di Pietro Lo Giudice e la mamma dei loro 4 figli. Resta incinta una quinta volta, ma di un altro uomo. Capita lo stesso anche a sua cognata, Barbara Corvi. Di Angela sono rimasti una pentola col sugo bruciato, la carta d'identità e alcuni anelli in cucina. Mentre di Barbara si perderanno le tracce il 26 ottobre 2009, e nulla si sa ancora oggi. Da Maria Chindamo a Lea Garofalo – la testimone di giustizia che nel 2009 sparisce a Milano e verrà torturata, uccisa, e sciolta in 50 litri di acido dal suo ex marito Carlo Cosco e i suoi sodali – sono almeno dieci le storie di “lupare rosa”, donne che la ’ndrangheta ha fatto scomparire; più di 150 quelle vittime delle mafie (le ha contate l’associazione dasud nel dossier “Sdisonorate”). È la donna che può dare e togliere l’onore, ma sono gli uomini a uccidere, anche se spesso caricati dalle stesse loro madri, mogli, sorelle: lavano con il sangue per lavar via dalla famiglia, dalle voci, dalla terra, la “macchia”.

“Crescile libere”: è un sms che arriva a Vincenzo da una donna che non vive più in Calabria da anni. “Tieni le figlie di Maria lontano da quell’aria, da quella famiglia: loro le vogliono con il velo in testa...”.

“Qui nulla si muove”, vorrebbe un vecchio detto. Siamo di fronte allo Stretto di Messina, e se il vento soffia, l’aria tira verso le montagne, se il vento aspira, si spinge fino all’africa. Ma “qui nulla si muove”. Eppure oggi piove terra.


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Così a 79 anni, con la ’ndrina in casa, denuncio mio nipote



Ci sono angoli di questa terra in cui, nonostante il tempo, dentro le case è rimasto tutto come una volta. O quasi. È la Calabria più aspra, più isolata e nera. Puoi trovarne traccia tanto sul lembo che affaccia sul mar Tirreno, tanto su quello che guarda allo Jonio. O in quella manciata di case nascoste fra le guglie di arenaria e i valloni deserti. Sono luoghi, questi, in cui le donne sono rinchiuse dentro, letteralmente. Dove, ancora, se hanno ospiti in casa, non siedono con gli altri, ma stanno in disparte, in uno spigolo della tavola se non proprio in cucina, pronte a servire. La loro esistenza è giustificata dall’essere mogli e madri, dal badare alla casa e alle bestie, dal rispettare i doveri imposti dalla famiglia. E lì sono abituate a subire, a essere controllate e svilite, a non sapere cosa sia la voglia di vita e di normalità perché hanno conosciuto solo violenza.

“Se il terreno è mollo,è più facile scavare”, dice come prima cosa M.. La incontriamo alla Caritas a Locri, il centro della diocesi Locri-gerace che ha lanciato nel 2021, su impulso dell’energica responsabile Carmen Bagalà, un progetto per accogliere le donne e i minori vittime di violenza in Calabria. M. ha 79 anni. E da 60 prende botte. Prima da suo marito, sposato con un matrimonio combinato: gli interessi del padre di M. che aveva in dote animali e uomini si incontrarono con quelli della futura famiglia che aveva sì il blasone della ’ndrangheta ma non i mezzi. “Lui è morto giovane, in un incidente...”. Ovvero è morto sparato, nella faida di Guardavalle. Poi è arrivata la volta del figlio: “Anche lui era prepotente e anche lui non c’è più: una disgrazia...”. È stato colpito e ucciso, questa volta nella faida di Siderno. E ora che M., sorda in un orecchio per gli schiaffi ricevuti dal marito, pensava che l’incubo fosse finito, tocca al nipote, al figlio della figlia di M..

FINO A OGGI, Carmen Bagalà ha accolto nel suo dormitorio a Locri 59 casi di “Codice rosso”, la metà provenienti da ambienti di ’ndrangheta: 35 donne tra i 21 e i 79 anni e 24 minori. “E noi che eravamo convinti che ci saremmo occupati soprattutto di migranti...”. C’è chi arriva perché a segnalare il caso sono le forze dell’ordine o gli assistenti sociali, chi dopo essersi confessato in parrocchia, chi direttamente suonando al citofono in Caritas: “Rispondiamo 24 ore su 24”. È qui che, in tante, provano a riprendersi la vita. “Mi chiedo spesso se, aprendo il nostro centro prima, avremmo permesso a donne come Maria Chindamo di salvarsi...”. Le ospiti hanno a disposizione piccole unità abitative indipendenti, una psicologa, gli animatori, le suore: tutto in sinergia con le Ats locali e con lo sportello anti-violenza “Angela Morabito” di Ardore, nato anche grazie a Fiorella Mannoia. “Spesso le nostre ospiti non vogliono andare in commissariato: c’è ancora tanta paura, abbiamo difficoltà a trovare medici che abbiano il coraggio di refertare le violenze e poi ci sono le pressioni delle famiglie che si fanno sentire”, spiega Carmen, che sta dedicando le migliori energie della sua vita a questo progetto. “Il 30% delle donne che abbiamo accolto purtroppo è tornato indietro, sono rientrate a casa. Ma siamo riuscite a farne accedere tre al programma di protezione. E per noi già strapparne una alla ’ndrangheta è un successo”.

Il centro nato nel 2021 Fino a oggi, 59 i casi da “Codice rosso”: 1 su 2 da famiglie di ’ndrangheta E per 3 di loro è scattata la protezione dello Stato

QUANDO, pochi giorni fa, M. arriva da Carmen – che si prende cura di lei come se fosse una figlia, nonostante M. abbia 79 anni – è perché il nipote ha spaccato il femore e la spalla alla madre, ricoverata ora in ospedale. M. era al piano di sopra, sentendo le urla ha sceso le scale, il telefono in mano per chiedere aiuto, ma il nipote ha iniziato a gridarle: “Puttana, se vieni qui ti ammazzo”. È solo l’ultimo episodio. M., per dirne una, viveva in casa col cancello chiuso con una catena, e per uscire o rientrare doveva essere il nipote ad autorizzare e a darle la chiave. “Ha la testa che si è un po’ rovinata: un po’ ci è nato, un po’ è stato tirato...”, quasi lo giustifica. In una società contadina in cui l’uomo nasceva senza diritti né proprietà, l’unico diritto che poteva esercitare e l’unica proprietà che poteva rivendicare era sulla donna di casa: M. è rimasta intrappolata in quell’epoca. Per lei, è sempre “colpa” di una donna. Quando il violento era suo marito, era perché era la suocera a caricarlo; quando lo erano il figlio e il nipote, era per la sorella di M., la zia zitella, che viveva a casa con loro. “Era l’unica autorizzata a partecipare alle riunioni dei masculi. Era lei che voleva mettere sotto gli altri”. E così, nella sua guerra, la sorella ha disposto dei figli e dei nipoti di M. come fossero cosa propria. “Era una donna di ’ndrangheta?”. “Mia sorella era la ’ndrangheta”. Sarà l’unica volta in cui M. pronuncerà quella parola, durante il tempo trascorso insieme.

Sangue chiama sangue. “Ho paura – confessa – ma che altro posso fare ora? A casa non posso tornare .... È una vita che sono sottomessa”, dice M. con una tale leggerezza da farti comprendere che, per lei, quella violenza non è mai stata un torto, semmai un destino a cui non potersi sottrarre. “Sono dinamiche che ritroviamo in tutte le nostre storie e, in generale, nei casi di violenza di genere”, spiega Carmen. Perché la ’ndrangheta, come racconta don Marcello Cozzi, è prima di tutto “anti-cultura”. E, anche se non la vedi, è un’ombra che ti segue sempre, ovunque tu vada. A meno che non si accenda la luce. M., a 79 anni, quella luce l’ha accesa. Grazie all’abbraccio di Carmen, oggi ha deciso di denunciare.






28.9.23

Caivano, la carabiniera Francesca Boni ha convinto le vittime a parlare: “Le due bambine cercavano l’aiuto di qualcuno”

 I  fatti  di caivano   hannno  anche un altro   protagonista       si  tratta  di  una marescialla  di  23  anni   che  ha   ascoltrato le bambine  e  le  ha  invitate  ad  aprirsi 

 da   repubblica   del  26\9\2023

La marescialla di 23 anni ha seguito i corsi del Codice rosso. “Ero lì


da appena una settimana ed era la mia prima esperienza territoriale, ho cercato di schermare tutto quello che stavo provando”


«Ho cercato di metterle a loro agio spiegando che si trovavano in un posto sicuro e che non dovevano avere paura di raccontare come erano andati i fatti perché eravamo lì per aiutarle, non per giudicarle. La bambina più grande è rimasta la maggior parte del tempo silenziosa, mentre la più piccola era più loquace, più lucida. Al comandante ho riferito che era molto razionale per avere 10 anni: è come se fosse cresciuta prima del dovuto. Mancava di quella spensieratezza che è propria dei bambini di quell’età».Francesca Boni, romana di 23 anni, è il maresciallo dei carabinieri che è riuscita ad aprire un varco nella corazza di disperazione eretta dalla due bambine vittime degli stupri di gruppo a Caivano. Uno scricciolo in divisa innamorata dell’Arma, che con pazienza, sensibilità e tanta professionalità ha saputo trovare le corde giuste per aiutare le due bambine a raccontare il baratro in cui erano finite anche grazie alla stanza di ascolto, una delle tante che i carabinieri hanno allestito nelle caserme per le vittime di abusi.

Come ha fatto?

«L’interesse è venuto in primis dalle bambine stesse: mi hanno visto giovane donna, una figura femminile in una caserma. Ho 23 anni, ma in abiti civili posso sembrare anche più piccola. Ho dato loro dei cioccolatini, una bibita e hanno chiesto di parlare con me in privato. Le ho accolte nella “stanza tutta per sè” che abbiamo in caserma a Caivano, un ambiente familiare, sembra un salottino, non è un ufficio pieno di carte. Qui evidentemente si sono sentite molto più a loro agio. Non ho fatto domande perché si vedeva che avevano qualcosa dentro che volevano dire e avevano paura di riferirlo ai genitori. Ritengo che, se ai familiari non fosse arrivato quel messaggio, le due bimbe non avrebbero mai parlato spontaneamente».

Hanno avuto più facilità parlare con lei che con i genitori?

«Penso di sì. Magari un genitore è preso emotivamente dalla questione e può avere delle reazioni come rabbia, spavento che un bambino non sa filtrare».

Lei è un carabiniere, ma non deve essere stato semplice mantenere il controllo davanti a questo orrore...

«A scuola veniamo formate per situazioni del genere e seguiamo corsi specifici sul “codice rosso” e sulla violenza di genere e sulle situazioni sensibili. Ma quando ci si trova davanti alla realtà dei fatti, davanti a persone che hanno subito delle cose così potenti, situazioni così difficili, certo il carico emotivo è grande. Nel momento in cui queste bambine mi raccontavano le vicende sicuramente dentro di me ho provato tantissime emozioni. Ma ho cercato di schermare tutto quello che stavo provando perché dobbiamo essere professionali e anche empatici e mettere nelle condizioni queste persone sensibili nel sentirsi sicure di raccontare quello che hanno subito senza sentirsi giudicate, spaventate».

Si immaginava una situazione di così alto degrado come quella che si vive da anni nel Parco Verde di Caivano?

«Queste situazioni si conoscono un po’ per sentito dire un po’ perché ci informiamo attraverso i giornali. Però a volte pensavo che queste situazioni avvenissero soltanto nelle fiction, nelle serie tv. Ho scelto di venire in Campania, è stata la mia prima destinazione, proprio perché volevo vivere una realtà importante per il mio lavoro. Certo, non mi immaginavo come primo “codice rosso una questione così delicata e ho cercato di essere il più professionale possibile. Ero lì da appena una settimana ed era la mia prima esperienza territoriale, dopo essere entrata nei carabinieri il 5 novembre 2020 e dopo la scuola. A Caivano sono da tre mesi».

Cosa le lascia questa vicenda?

«Sicuramente mi ha segnata. Anzi, è meglio dire che sicuramente non me la dimenticherò mai. Mi piacerebbe lavorare ancora per tutelare le fasce deboli».

Con le bambine come si è lasciata?

«Le bambine si erano molto tranquillizzate io le ho lasciate dando una carezza ad entrambe sulla spalla. Mi sono avvicinata a loro dicendole di stare tranquille perché da quel momento in poi l’Arma dei carabinieri sarebbe stata loro vicine. Ho fatto capire che ogni volta che sarebbero entrate nella caserma di Caivano o in qualsiasi altra si sarebbero dovute sentire al sicuro. All’inizio erano molte spaventate perché essendo così piccoline non capivano neanche la situazione. Vedevano molte attenzioni ricadere su di loro, ma non riuscivano a capire costa stava accadendo né come gestire la vicenda perché non erano neanche nella preadolescenza. Mi sono sentita una sorella maggiore. Ho una sorellina più piccola di 5 anni e sono sempre stata abituata a proteggerla a darle consigli e questo mi è venuto naturale».

Cosa pensa dei ragazzi indagati e del disprezzo assoluto dimostrato verso le due bambine?

«Spero che in qualche modo possano ravvedersi e intraprendere un cammino diverso, lontano da contesti degradati e, soprattutto, spero per le due piccole che possano dimenticare questo terribile capitolo della loro vita».



emergenza femminicidi non basta una legge che aumenti le pene ma serve una campaga educativa altrimenti è come svuotare il mare con un secchiello

Apro l'email  e tovo  queste  "lettere "   di  alcuni haters  \odiatori  ,  tralasciando  gli  insulti  e le  solite  litanie ...