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4.9.21

La 'danza' della balena sotto la tavola da paddle: le immagini dal drone

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Le incredibili immagini catturate da un drone in Argentina: Analia Giorgetti durante un giro in mare con la sua tavola da paddle si è imbattuta in una maestosa balena che le ha girato intorno, incuriosita, in quella che può sembrare una danza elegante. "E' stato un momento magico e un privilegio per me", ha affermato la donna, che nello stesso giorno festeggiava il suo compleanno. Le immagini sono state realizzate dal fotografo naturalista Maxi Jonas

31.8.21

I murales sono di pietra: dove l'arte è inclusiva A Lettomanoppello, in Abruzzo, le opere murali sono pensate per essere fruite anche da chi non può vederle.


I murales sono di pietra: dove l'arte è inclusiva  A Lettomanoppello, in Abruzzo, le opere murali sono pensate per essere fruite anche da chi non può vederle. E per 10 giorni arrivano artisti da tutto il mondo
                                                         di Francesco Collina


Bianco e nero, luce ed ombra. Questa il tema del simposio “10 giornate in pietra 2021” che si tiene dal 18 al 29 agosto a Lettomanoppello, celebre “Città della pietra” che aspira ora a diventare il primo paese addobbato con murales in pietra pensati anche per essere fruiti dai non vedenti.

All’evento partecipano 5 artisti internazionali, 2 scalpellini e altrettanti studenti dell’Accademia con il contributo dello scultore non vedente Felice Tagliaferri, ospite speciale della manifestazione. Per questa edizione, per avvicinare le giovani generazioni alla lavorazione tradizionale della pietra calcarea della Maiella, sarà presente un laboratorio in pietra curato dallo scalpellino Enrico Iacuone dove potranno partecipare scultori, bambini, o semplici appassionati. “L’arte è inclusiva da sempre - precisa Felice Tagliaferri - la mia missione è quella di farla realizzare da tutti perché chiunque ha qualcosa da dare agli altri”. di Francesco Collina immagini aeree di Andrea D'Alimonte Il servizio è stato pubblicato su Gedi Watch,ne riporto sopra il video , il magazine digitale del Gruppo Gedi: ogni settimana il racconto di attualità e personaggi dei territori, nei reportage esclusivi firmati dai nostri videomaker. Puoi trovare tutte le puntate qui: www.gediwatch.it

sottto ulteriori news sulla manifestazione prede da quest' articolo di www.terraecuore.net/

E’ tutto pronto per l’evento che si svolgerà per 10 giorni a Lettomanoppello “Città della Pietra” della Maiella con la direzione artistica di Stefano Faccini, Il tema è: “Maiella Bianca e Maiella Nera” le due facce della montagna madre, quella ‘bianca” della lavorazione della pietra alla luce del sole da parte di scalpellini e scultori e quella “nera” dei minatori che lavoravano nelle cavità sotterranee.
A questa edizione parteciperà Felice Tagliaferri, artista non vedente, di fama internazionale, per il quale l’aspetto tattile della lavorazione del marmo rivela dettagli non percepibili con il solo uso della vista. Ad affiancarlo ci saranno 5 artisti internazionali, selezionati da una giuria tecnica e popolare. Scultori di spicco nel panorama artistico italiano e straniero: Claudia Zanaga, Giuseppe Colangelo, Luca Marovino, Michele Montanaro, Yunmi Lee. Ad accompagnarli due maestri scalpellini locali, Francesco Gigante e Gianni Alberico.
E’ tutto pronto per l’evento che si svolgerà per 10 giorni a Lettomanoppello “Città della Pietra” della Maiella con la direzione artistica di Stefano Faccini, Il tema è: “Maiella Bianca e Maiella Nera” le due facce della montagna madre, quella ‘bianca” della lavorazione della pietra alla luce del sole da parte di scalpellini e scultori e quella “nera” dei minatori che lavoravano nelle cavità sotterranee.
A questa edizione parteciperà Felice Tagliaferri, artista non vedente, di fama internazionale, per il quale l’aspetto tattile della lavorazione del marmo rivela dettagli non percepibili con il solo uso della vista. Ad affiancarlo ci saranno 5 artisti internazionali, selezionati da una giuria tecnica e popolare. Scultori di spicco nel panorama artistico italiano e straniero: Claudia Zanaga, Giuseppe Colangelo, Luca Marovino, Michele Montanaro, Yunmi Lee. Ad accompagnarli due maestri scalpellini locali, Francesco Gigante e Gianni Alberico.
Al simposio parteciperanno con le loro opere anche due ragazzi, Giorgia Tiberio dell’Accademia di Belle Arti di Napoli e Matteo Marovino dell’ Accademia di Belle Arti di Carrara.
Le 9 opere realizzate saranno degli altorilievi che andranno ad addobbare il centro storico del paese e consentiranno che Lettomanoppello diventerà il primo borgo del mondo con Murales in Pietra.
L’artista Giuseppe Colangelo di Castiglione Messer Marino, ha preso parte a numerose mostre e simposi internazionali di scultura. Suoi materiali d’elezione sono marmo, terracotta, legno fino ad arrivare alla pietra della Maiella che da sempre utilizza per le sue opere. Il bozzetto ideato per le 10 Giornate della Pietra e che realizzerà durante il simposio, vuole presentarsi come una suggestione attraverso la quale ogni spettatore potrà trovare una diversa chiave di lettura. La Maiella, culla di piccoli fossili, che ad ogni spacco rivela la storia della montagna facendoci comprendere come la pietra sa trattenere il tempo. E’ un’occasione per partecipare a trovare la propria visione, oltre che prendere parte a narrazione di racconti, a laboratori della pietra, a mercatini di prodotti tipici e artigianali.


18.7.21

Il buon selvaggio La straordinaria vita di John Muir, ecologista e fondatore del parco nazionale di Yosemite Poteva essere milionario, scelse la Natura

dall'inserto robison  di questa  settimana di repubblica  

                                                    di Gabriele Romagnoli

Larger than life è un’espressione americana: indica una persona speciale e viene spesso tradotta con «incredibile» o « esagerata » . Non si rende l’idea, che è quella di estensione del confine della vita. Meglio sarebbe usare due parole, un nome: John Muir .
Lo scrittore francese Alexis Jenni gli dedica una biografia dal titolo Potevo essere milionario ho scelto di essere un vagabondo. Anche quest’ultimo vocabolo è insufficiente per definire il protagonista. Meglio fa Jenni quando scrive di lui che era « un uomo sotto forma di corrente d’aria che appare quando si crede di essere soli ». Di lui si è anche detto che è stato «ecologista ante litteram » , « padre del conservazionismo » , « fondatore del parco nazionale Yosemite » . Tutto vero, niente che sia abbastanza. Non bisogna immaginare questo barbuto di una certa stazza come un antenato di Greta, un portatore di messaggi dalla vecchia Europa (dove nacque) al nuovo continente americano ( che percorse). Non faceva proseliti, dava esempi. Avanzava per sé. Prima di poterlo seguire, agli altri toccava scovarlo. Perché la sua caratteristica principale era questa: scappava.
Da piccolo fuggiva da casa, oltre il giardino, con l’ingenuità e l’istinto che avrebbe passato al personaggio interpretato da Peter Sellers. Il piccolo John scavalcava la recinzione, negava il limite, cercava la meraviglia. Nel suo paese d’origine, in Scozia, gli hanno dedicato una statua che lo mostra bambino, arruffato, appoggiato a un bastone da cammino di quelli che si raccolgono sul sentiero. La sua vita è stata la proiezione di quell’immagine : è rimasto un ragazzino curioso, che inseguiva l’incanto con la fatica, ma senza sentirla. Lo scrittore francese Alexis Jenni lo definisce “un uomo sotto forma di corrente d’aria che appare quando si crede di essere soli . Scriverà infine il biografo che era «il dio dei bambini arrampicati e scavezzacollo, del salto mortale e del materasso di sicurezza » . Un essere benevolo, dunque, che non contempla il pericolo o la violenza, rifugge il male e la guerra (se non quella dei bottoni). Un eterno fanciullo, un buonissimo selvaggio. Muir è stato parte di un mondo e ne ha creato un altro.
Da piccolo, di notte, a letto accanto al fratello, immaginava di viaggiare, seguiva percorsi di fantasia fino a che non si addormentava. Da grande ha semplicemente realizzato un sogno. A cavallo tra due secoli ( Ottocento e Novecento) la Terra era ancora un pianeta esplorabile, bastava incamminarsi per avere sorprese. Ha ragione Jenni quando dice che per scrivere questa biografia si è rifiutato di andare allo Yosemite, che non ha voluto conoscere una California oltre quella dei film. Andandoci
oggi non vedrebbe certo i luoghi di Muir, ma la loro dilatazione a uso dei turisti, o meglio: delle foto dei turisti. Abbiamo ridotto il pianeta a una scatola cinese: vediamo la fotografia di un geyser e cerchiamo di andarci a riprendere davanti al geyser, ri- producendo esperienze.
Ai tempi di Muir la Terra era una scatola. Chiusa. Non sapevi ancora che cosa contenesse. Tutto stava succedendo. Il piccolo John divorò libri, ma decise che non gli bastavano per capire. La sua mente andava sempre oltre. Gli bastò un’infarinatura di meccanica per progettare una sveglia e poi un marchingegno demoniaco che nello stesso istante accendeva una lampada, concedeva una pausa per vestirsi, poi con una serie di scatti e cigolii porgeva un libro aperto. Dopo qualche minuto lo chiudeva, riponeva e passava a un altro, in armonia con ruote e ingranaggi post-leonardeschi che sincronizzavano l’esistenza del suo inventore ai doveri rendendolo uomo- macchina.
Di qui la prima parte del titolo: poteva essere milionario. Ma come ricorda Francesco De Gregori: «Tra bufalo e locomotiva la differenza salta agli occhi, la locomotiva ha la strada segnata, il bufalo può scartare di lato e cadere » . Questo decise la sorte di John Muir e di un bel pezzo d’America, quello di cui si innamorò e che salvò. Il « bisnonno di Steve Jobs » si lasciò alle spalle i congegni per amore di una palma nana e di mille altre specie. Divenne così famoso che il presidente Theodore Roosevelt volle campeggiare e fare trekking con lui. Sarebbe stata la perfetta trama di un film prodotto da Robert Redford: un weekend loro tre soli, il presidente, il selvaggio e la natura.
« L’uomo più libero che abbia mai incontrato », «il compagno più interessante e virile » diranno l’uno dell’altro. Sventato l’assideramento, Roosevelt il proclamò federale il parco di Yosemite. Una storia larger than life, incredibile e più.
Riesce Jenni a trovare le parole per raccontarla? A tratti. Quando non si ferma nel guado tra la tentazione giustificata di romanzare e il bisogno di documentare. Quando non lo assale il dubbio che bastino i libri scritti da John Muir stesso. E forse è davvero così. Era unico, anche nel descrivere il vento, perché era una corrente d’aria: gira le pagine, non ci resta dentro.

15.6.21

Il primario che porta i sopravvissuti del Covid a scalare le montagne




repubblica  del    12\6\2021

GENOVA - gli ex malati celebrano il ritorno alla vita arrancando in vetta. "In ospedale non riuscivamo neanche più a respirare, per noi è una vittoria" Sette chilometri di sentiero in salita, a una pendenza del 6,7%: l'opuscolo diceva due ore e passa, invece la camminata è durata molto meno. Sì, sono proprio allenati. Il prossimo appuntamento sarà una mezza maratona, tutta di corsa. Oppure un'immersione subacquea a Portofino. Un'altra sfida, qualunque sia: in palio c'è la celebrazione della vita. Perduta, ritrovata. Pensare che Roberta fino a pochi mesi fa non riusciva neppure a salire le scale di casa, da sola.



Ieri erano una trentina ad arrampicarsi lungo la montagna alle spalle di Genova, col Ponte Morandi che si intravvedeva giù a valle: mentre gli altri - i nuovi "colleghi", una ventina, appena usciti dall'inferno - li aspettavano in cima, al Santuario della Guardia. Sono tutti reduci dal Covid in forme pesanti, hanno sofferto e nascondono le cicatrici dentro: perché il contagio non finisce con un referto, no. Chi ci è passato lo sa: guarisci ma non guarisci mai del tutto. Sei vivo, va bene: però hai perso chili, ti manca il fiato, la forza. La voglia di vivere. Ma loro sono passati per la cosiddetta Palestra Covid, aperta un anno fa nel capoluogo ligure: e questo è un giorno di festa. Siamo noi: siamo ancora vivi, gridano. Nonostante il Coronavirus.
"Nell'80% dei casi restano strascichi fisici e psicologici. Debolezza, deficit di equilibrio, difficoltà a respirare, a coordinarsi. Lo stress di chi è sopravvissuto, ma non riesce a tornare alla vita normale. Tre settimane in terapia intensiva equivalgono a invecchiare oltre 10 anni. Queste persone vanno recuperate": Piero Clavario, responsabile del reparto di Cardiologia riabilitativa, sale al Santuario con gli altri e chiude la carovana. Un anno fa ha avuto l'idea. Subito approvata da Piero Bottaro, il presidente dell'Asl3. Applicare alle vittime del Covid lo stesso protocollo previsto per i malati di cuore: dal giugno del 2020 ha contattato oltre un migliaio di pazienti dell'azienda sanitaria. Una prima valutazione al telefono, aiutato da un medico e uno psicologo, poi l'incontro: elettrocardiogramma, ecografia polmonare, la visita del fisioterapista, il reumatologo e il fisiatra. "Molti li abbiamo indirizzati da questo o quello specialista. Gli altri sono stati convocati nella nostra palestra. E abbiamo cominciato ad allenarli"". Minimo 2 mesi, massimo 5: cyclette, tapis roulant, macchine per i pesi. Due ore ad ogni appuntamento, 3 volte alla settimana. "All'inizio mi odiano tutti, perché non ho pietà. Poi cominciano a recuperare: il 10% della condizione ogni mese. Quando arrivano all'80%, li lascio andare". Sì, lo detestano. Poi finisce che non vorrebbero andare più via. E la camminata di ieri è stata una emozione unica, per quelli che ce l'avevano fatta.
"Sono un'operatrice sanitaria, il Covid me lo ero preso nella Rsa dove lavoravo". Roberta, 42 anni, campionessa di kickboxing e appassionata di crossfit. Una atleta. "Dopo 3 settimane ero guarita, ma non riuscivo più a fare le scale di casa. Mi mancava la forza. Provavo a pulire casa, però dopo aver fatto il letto mi dovevo sedere. Recuperare. Mio figlio e il mio compagno non capivano, io mi sentivo sempre più giù". All'inizio la palestra non le piaceva. "Svenivo, bastavano pochi minuti alla cyclette. Tutto sembrava inutile. Ci sono voluti quasi 2 mesi, prima di riuscire ad ingranare. E mi è sembrato di tornare a vivere. Non vedo l'ora di rimettermi a correre". Luigi, 62 anni, agente penitenziario, contagiato mentre lavorava nel carcere di Marassi. "Intubato per 40 giorni, 4 mesi di ospedale e altrettanti a casa. Uno straccio, non sentivo più le gambe. Ho scoperto la Palestra Covid su internet: all'inizio un delirio, poi ho cominciato a volare". Julia, 29 anni: "La gente prima ha paura di te. Poi non capisce, che stai ancora male. Qui invece ho trovato degli amici". Sono arrivati in cima tra i primi. Si sono abbracciati. E vorrebbero immergersi al Cristo degli Abissi di San Fruttuoso, vicino a Portofino. "Però ci serve un sponsor. Altrimenti, puntiamo a una mezza maratona", dice Clavario, il primario-allenatore. Sì, è una vita ritrovata.

"La mia fuga dal Covid isolata nel Grande Nord Ma ora sogno l’Italia" L’intervista alla travel blogger Valentina Miozzo



in sottofondo IL passo e l'incanto - GianMaria Testa A volte capita che il disco o una canzone che stai ascoltando sia attinente alla storia che stai leggendo . Infatti questo è uno dei casi . La storia che vado a riportare è quella di
Valentina Miozzo di VIAGGIARE LIBERA Il Circolo Polare Artico è un punto di vista diverso sul mondo: qui si impara che di tante cose si può fare a meno (anche del sole, per un po’!) e si osservano gli effetti più evidenti dei cambiamenti climatici.
Ecco una sua intervista rilasciata a Giacomo Talignani   su  repubblica  del 15\6\2021


                             


 
Ha indossato la mascherina una sola volta, per metterla sugli occhi e riuscire a dormire: fuori, nel suo lockdown in pieno Artico, c’erano 24 ore di luce. Quando qui scattava il coprifuoco, lì l’aurora boreale.
Assembramenti? Nessun rischio: al massimo 28 persone in tutto il Paese. Così Valentina Miozzo, 28 anni, ha vissuto la pandemia al Circolo polare artico. Viaggiatrice irrefrenabile, esperta di turismo sostenibile, blogger e autrice di Viaggiare Libera, la giovane modenese, dopo la prima ondata di Covid, si è trovata a un bivio: sperare nella ripresa del turismo o partire. A ottobre 2020 ha accettato un lavoro in una guesthouse dell’Artico a Kongsfjord, estremo nord della Norvegia, 4mila chilometri da casa, dove di Covid non si è mai sentito parlare. È finita in una sorta di lockdown perenne, con limiti dettati solo dalla natura.
Il risultato è che è ancora lì, felice.

Come ci si sente a vivere il lockdown nell’Artico?
«Bene, sono appena tornata dalle Svalbard, ora sono alle Lofoten, dove resterò per i prossimi due mesi.
Anche qui di Covid non c’è traccia.
Fino a poco tempo fa ho vissuto a Kongsfjord, 28 abitanti, tanta natura e nessun rischio di assembramenti, se si escludono le renne».
Come è iniziata la sua avventura?
«A marzo 2020 dovevo partire per le Seychelles come guida, ma è stato tutto cancellato. Avendo gestito per 10 anni un agriturismo, avevo fatto domanda per questa guesthouse e mi hanno chiamata».
Ha vissuto un lockdown tutto suo.
«Sì, una sorta di lockdown perenne. Qui è molto isolato in inverno, c’è tanto ghiaccio, bufere di neve, il primo supermercato è a 40 chilometri, l’ospedale a 300. È tutto concentrato nel paesino: le notti polari sono state dure, poi è arrivata la luce costante. Difficile abituarsi».
Si è sentita sola?
«Mai. Qui ho trovato amici e Eugenia, italiana, che lavorava nella guesthouse. Insieme abbiamo anche viaggiato alle Svalbard, un posto meraviglioso. Ci tornerò».
Come è stato il suo rapporto con la pandemia?
«Per quasi 8 mesi, di Covid ho letto solo su Internet. Dove abitavo zero casi. La mascherina l’ho messa una volta, sugli occhi, per dormire. Le uniche regole erano dettate dal meteo».
Ha pensato a vaccini e green pass?
«Non ci sto capendo molto. Per ora resto qui. Poi affronterò quello che andrà fatto, forse tornerò in Italia a ottobre, dipende dalla pandemia».
Quindi non ha vissuto limitazioni?
«Qui i limiti li fornisce la natura: comanda il mare, il vento, la neve. La gente di qui mi dice che la crisi climatica si sente: la banchisa non si forma più e c’è più caldo d’estate».
Ci vuole coraggio per vivere nell’Artico?
«Mi parlano di coraggio quando viaggio da sola, io rispondo che ci vuol coraggio a viaggiare in gruppo.
Sono partita pensando di restare tre mesi e tornare a gennaio in Italia, ma se fossi tornata sarei dovuta rimanere e non avrei finito il mio lavoro. Ho deciso di restare qui».
E con il cibo come è andata?
«Mi sono adattata. Andavamo al supermercato a 40 km. Qualche volta mi è arrivato il pacco da giù con parmigiano e tortellini. Ci metteva due mesi ad arrivare, ma che gioia!».
Sta pensando di trasferirsi lì?
(Ride). «Non credo, anche se la Norvegia pensa molto al benessere delle persone. Però più viaggio più adoro il mio Paese. Il mio sogno è ricreare in Italia un agriturismo, una base-nido da dove ripartire. Di sicuro, non smetterò mai di viaggiare: soprattutto alla scoperta dell’Artico».
©RIPRODUZIONE RISERVATA f
Ho vissuto in un villaggio di 28 abitanti, dove il virus non è mai arrivato La mascherina?
La usavo solo per dormire

23.5.21

Il naturalista che salva l'ululone appenninico: "Sono così pochi che li riconosco tutti"

CASTEL DI TORA (Rieti) 
 I piedi nella pozza (immersi dopo essersi accertato che non avrebbe calpestato nulla di vivo), Andrea Pieroni draga il fondo fangoso con il retino e con le mani. Le sue dita guizzano fuori dall'acqua e si intravvede un rospetto dal ventre giallo acceso, con macchioline nere: sta immobile, convinto che il suo predatore sarà messo in guardia da quella pancia dal colore così brillante, che indica tossicità. Il viso del responsabile del
servizio naturalistico della Riserva Monti Navegna e Cervia si illumina: "Ma sei tu! Non ti vedevo da un anno, pensavo fossi morto!". Uno degli esemplari più vecchi tra gli ululoni appenninici (Bombina pachypus), che dal 2006 Pieroni monitora e cataloga con una passione che va ben oltre i suoi compiti, viene controllato meticolosamente. "È un po' magro - osserva il naturalista - probabilmente ha appena ricominciato a muoversi dopo la fase di ibernazione, quando se ne stanno sotto il fango, ma sembra in buona salute. Lui ha circa 12 anni, ma possono arrivare anche a 16". Le macchioline nere sulla pancia dell'anfibio vengono confrontate con quelle di foto precedenti per una verifica ulteriore, poi viene messo in un barattolo, fotografato di nuovo e misurato. I dati, compresa la temperatura dell'acqua nella pozza in cui è stato trovato, sono annotati insieme a quelli degli altri esemplari che Pieroni pesca e poi rilascia. "Non è un bene che io li riconosca anche senza guardare le cartelle per il confronto - si rabbuia - vuol dire che sono pochi, sempre gli stessi".
 L'animaletto che l'Italia rischia di perdere. Gli ululoni sono pochi non soltanto qui, in questo angolo di paradiso dell'Appennino laziale, ma in tutta Italia. Il piccolo rospo (non supera i 5 cm) esclusivo della penisola italiana è l'emblema della nostra perdita di biodiversità e della minaccia che incombe sugli anfibi, che sono in tutto il mondo tra le specie più a rischio. Per restare all'Europa, il 59% di anfibi è in diminuzione e per il 23% la situazione è talmente grave da doverli annoverare nella Lista Rossa Europea. L'ululone appenninico rientra appunto in questo triste 23%: "Ha subìto negli ultimi anni un rapido declino tuttora in corso - spiega Pieroni - a causa della trasformazione del suo habitat. Vive e si riproduce in ambienti montani
o collinari e la sua sopravvivenza è strettamente legata alla presenza di pozze d'acqua anche temporanee, o di piccoli bacini artificiali come vecchi lavatoi in pietra usati in pastorizia. La distruzione degli ambienti adatti alla riproduzione, l'abbandono delle tradizioni agricole di un tempo e l'eccessivo sfruttamento dell'acqua minacciano l'ululone. In più, il clima sempre più caldo fa evaporare le pozze rapidamente e la cattura per il commercio illecito dei collezionisti, soprattutto verso la Germania, non si ferma".

Specie endemica della penisola (vive dalla Liguria alla Calabria) il piccolo rospo è ora a rischio di estinzione. Un progetto della Riserva Monti Navegna e Cervia, Università Roma Tre e Fondazione Bioparco di Roma alleva le uova in cattività e poi libera gli ululoni di 1 anno nelle pozze controllate dalla Riserva. Il naturalista Andrea Pieroni: "Distruzione del suo habitat e cambio climatico minacciano la sua sopravvivenza"

La sopravvivenza appesa a un filo (d'erba). Pieroni continua la sua osservazione delle pozze, che l'ufficio tecnico della Riserva Monti Navegna e Cervia, dove restano circa un centinaio di ululoni, ha recintato per evitare che cinghiali e altri animali entrino nell'acqua bassa. Con pazienza certosina osserva i germogli dei giunchi e delle erbe acquatiche alle quali sono attaccate le uova di ululone e le conta. "Rispetto ad altri anfibi l'ululone depone poche uova - dice - poche si schiudono e la mortalità dei girini e dei metamorfosati è altissima, circa il 92%". Con un altro filo d'erba recupera un grappoletto gelatinoso dal fondo e lo posa su uno stelo: "Perché le uova si schiudano devono essere a mezz'acqua, non posate sul fango. Provo a rimetterle qui, ma chissà...". Il suo non è fatalismo, è la praticità che, dopo anni di monitoraggio e tentativi di salvaguardare i nuovi nati, ha portato a cambiare strategia. Dal 2012, infatti, un progetto tra la Riserva, l'Università di Roma Tre e il Bioparco di Roma per aumentare la popolazione abbina alle attività sul campo quelle di laboratorio: dalle pozze si prelevano le uova, che vengono allevate nei laboratori del Bioparco, poi gli ululoni metamorfosati (cioè non più girini né adulti, a un anno di vita) sono rilasciati nelle pozze e monitorati.Uova al Bioparco, adolescenza nella riserva. "Il progetto sta dando risultati - dice il naturalista mentre controlla palmo a palmo anche l'abbeveratoio, che si trova un po' più a monte - ma mi preoccupa il cambiamento del clima: l'acqua è molto diminuita e non basta che, come abbiamo fatto, in agosto si sia arrivati a rifornire le pozze". Pieroni si blocca di colpo: "Ecco, hai sentito il verso?". Naturalmente soltanto lui ha l'orecchio allenato per percepire in mezzo al cinguettio degli uccelli un "uh uh", assai forte, considerato che è prodotto da un animaletto di pochi centimetri, e tanto particolare da aver dato il nome all'anfibio. È un buon segnale, vuol dire che i maschi stanno lanciando richiami alle femmine, che però oggi non si fanno trovare: alla fine si riesce a fotografarne soltanto due.
Il naturalista si infila in un pozzetto lungo strada, ammira una biscetta d'acqua e dopo aver passato palmo a palmo il tombino emerge con un altro ululone in mano. "Meno male che l'ho trovato - dice mettendolo nel barattolo che gli si porge - questo sarebbe finito dall'altro lato della strada e chissà se sarebbe riuscito a ritrovare la via delle pozze". Nel suo sollievo è palese la preoccupazione di chi sa che con una popolazione così ridotta perdere anche un solo esemplare è una tragedia. "Oggi ne abbiamo trovati pochi, ma è ancora presto, date le temperature - conclude - e poi ci vorrebbero più fondi e più personale. Se vengo da solo riesco a catalogarne meno, mi è prezioso qualcuno che prenda nota mentre li osservo".

Però la Riserva dei Monti Navegna e Cervia crede nel progetto ed è già molto: "Dopo anni di collaborazione con il Dipartimento di Scienze dell’Università Roma Tre e la Fondazione Bioparco di Roma,- conferma il presidente della Riserva, Giuseppe Ricci  - ora c'è l’accordo con l’Università Agraria di Vallecupola, che ci ha concesso il terreno per ampliare un’area in cui intendiamo realizzare piccoli siti umidi adatti alla vita dell’ululone appenninico; in questo modo potremo proseguire con il ripopolamento di questa specie e allo stesso tempo dare una possibilità di colonizzazione di nuovi habitat alle popolazioni esistenti". E magari quando Andrea Pieroni ne tirerà qualcuno fuori dal fango potrà gioire di non riconoscerlo a prima vista. 

 



27.4.21

La natura ammantata di rosso poesia di Daniela Bionda

 Salve compagni di strada voglio parlarvi della Natura 

sono sempre stata affascinata dalla natura, una natura selvaggia, tra terra e cielo, pioggia e mare, tempeste, fiumi,  montagne e torrenti. Una natura fatta di fiori di campo e grida di uccelli, per questo ho scritto questa poesia che spero vi piaccia

buona lettura

La natura ammantata di rosso poesia di Daniela Bionda
 
Io sono la natura ammantata di rosso, che nutre la terra, fa crescere le messi, la frutta odorosa, l' erba ,
che nutre gli armenti. Io sono vento, che piega gli alberi, tempesta, pioggia battente che fa esondare fiumi e torrenti, che annaffia la terra, distrugge i raccolti. In una tavolozza di un pittore, sarei fatta di colori accesi, il rosso, il giallo, l'arancio, ma anche il marrone della terra, l'azzurro del cielo e del mare. Il grigio di un giorno di pioggia, il bianco candido della neve.
Io sono la ragazza vestita di rosso, seduta su un prato, che incrocia fili d' erba per farne corone, che osserva farfalle dalle ali lucenti. Odo un ronzio di api operose attorno ad un favo, cariche di polline, promessa di miele.
 
 Potrebbe essere un'immagine raffigurante 1 persona e attività all'aperto

25.12.16

Bonsai centenario sopravvissuto al bombardamento di Hiroshima. Ha 390 anni e nemmeno la bomba atomica è riuscita a ucciderlo

Se gli alberi potessero parlare, questo bonsai (conosciuto anche come “Hiroshima Survivor”) avrebbe molte storie da raccontare. Il vecchio bonsai di 390 anni ha visto una serie di eventi, nel corso della propria vita, davvero importanti per la storia dell’umanità. Dalla Rivoluzione Francese al primo uomo sulla Luna, dall’Indipendenza Americana alla Guerra Fredda, la storia di questa pianta è lunga quasi quanto quella di tutto l’uomo moderno. La parte più notevole è però un accadimento che coinvolge il bonsai in prima persona, ovvero la bomba nucleare lanciata dagli Statunitensi contro Hiroshima, che devastò la bellissima città giapponese. Il piccolo pino bianco si trovava a meno di 3 chilometri dal punto di impatto della bomba, custodito dalla famiglia Yamaki, e sopravvisse miracolosamente non solo alle radiazioni ma anche a schegge di vetro e detriti che vennero lanciati in tutta la città.

bonsai hiroshima 1

Piantato nel 1625 e sull’isola di Miyajima, il bonsai è un albero prezioso a causa della sua rarità e della difficoltà della sua cura. Nel 1976 il maestro bonsai Masaru Yamaki donò l’albero ornamentale al popolo americano come parte del bicentenario del Giappone. Ora è un residente permanente della collezione di Bonsai giapponese presso il National Bonsai & Penjing Museum di Washington DC. Famosissimo per la sua storia di sopravvissuto alla bomba nucleare, il bonsai (il più antico della collezione) attrae molti visitatori e curiosi.

Hiroshima, il bonsai di 390 anni che è sopravvissuto alla bomba atomica
























Un antico bonsai ha attraversato quindi   quattro secoli di storia del Giappone, fino a quando nel 1976 il suo ultimo proprietario Masaru Yamaki lo ha donato all'Arboretum’s National Bonsai and Penjin Museum di Washington


Hiroshima, il bonsai di 390 anni che è sopravvissuto alla bomba atomica                         Masaru Yamaki nel giorno della donazione del bonsai

per celebrare il bicentenario della Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti. Solo anni dopo, però, si è scoperto il valore particolarmente simbolico del gesto, taciuto dal proprietario al momento della donazione. Oltre a guerre e terremoti, infatti, il piccolo pino bianco è sopravvissuto anche alla bomba atomica lanciata dagli Usa a Hiroshima durante la Seconda Guerra Mondiale. Quando gli aerei statunitensi il 6 agosto 1945 sganciarono Little Boy sulla città nipponica, il bonsai si trovava a meno di due miglia dall'epicentro del fungo atomico. Eppure la pianta rimase miracolosamente intatta, poichè il muro del vivaio in cui si trovava all'epoca le fece da scudo. A raccontare l'incredibile storia, sono stati i nipoti di Yamaki, quando nel 2001 hanno visitato il Penjing Museum

Hiroshima, il bonsai di 390 anni che è sopravvissuto alla bomba atomica
                                    La famiglia di Yamaki in posa con il bonsai. 

per potere finalmente vedere il mitologico bonsai, di cui fino a quel momento avevano sentito parlare solo nei racconti del nonno. E ancora oggi, il bonsai continua a rimanere in vita, pur avendo ormai quasi doppiato l'aspettativa di vita massima per questo tipo di piante, duecento anni.

5.1.16

Da Carloforte la bava di lumaca per combattere brufoli e imperfezioni della pelle e la cooperativa equo solidale Vagamondi che fa ala carta dalla cacca di elefante

da  http://www.bavadilumaca.it/
E'  vero  che anche dalle cose   più "  schifose "almeno per  gli impressionabili ) si possono  ricavare    medicine  alternative  . E' il caso    di queste  due notizie  che  che riporto qua  sotto prodotti  ( Lo  so che non è una  novità    perchè  si usano : 1     come  testimonia anche la  foto   a  destra  in alto    con la bava delle lumache  ., 2)   è  in vendita  da   quasi un ventennio  nelle  botteghe del commercio equo e solidale la  carta    prodotta   dalla  cacca  degli elefanti 
 La prima   storia d'oggi  è presa   dalla  nuova  sardegna del  4\1\2016



Una coppia di imprenditori continentali ha scelto l'isola di San Pietro per far nascere una start up che punta sull'allevamento del gustoso mollusco terrestre per farne cosmetici

19.7.14

La Via Francigena percorsa in 20 anni con 250 acquerelli.


FEDERICO TADDIA
Ogni luogo è fonte di gioia e di sofferenza: per indole metto immediatamente le radici ovunque, e quando il mio cavalletto mi porta altrove sono costretta a doverle strappare». Ha l’eleganza dell’artista e la pazienza di chi sa attendere la sfumatura giusta Jannina Veit Teuten, 75 anni, pittrice inglese che ha scelto di vivere in Toscana dal 1970, e da due decenni vaga con i suoi acquerelli sulle orme di Sigerico, l’arcivescovo di Canterbury che con il viaggio a piedi verso Roma attorno all’anno 900 disegnò la Via Francigena.   
«Quando nel 1993 ho dato il via al progetto pochissime persone avevano le idee chiare su quale fosse l’itinerario
dalla bacheca  dell'autore  https://www.facebook.com/pages/Federico-Taddia/40510898249
dell’Arcivescovo: è stato faticoso trovare le informazioni corrette. Ora non saprei più contare le volte in cui sono andata avanti e indietro in treno, bus, aereo, a piedi, in bicicletta e in camper: io, i miei pennelli e i miei colori». Nato in occasione del Giubileo del 2000 il «Via Francigena project» prevedeva di raccontare per immagini chiese, borghi, case, vedute, squarci catturati dallo sguardo di Jannina. Con la realizzazione di 144 acquerelli esposti in 23 mostre organizzate lungo l’itinerario dei pellegrini. Ma l’ispirazione della ritrattista inglese che ha fatto dell’Italia la sua
sempre  dalla stessa  fonte  
prima casa, di chilometro in chilometro si è alimentata, nel desiderio continuo di mostrare, con leggerezza e sapore antico, questo cammino storico e spirituale, tanto da aggiungere altre 100 opere alla collezione. «In tanti si fermano quando mi vedono mentre ritraggo il paesaggio. Altri mi vengono a dire che i genitori, o loro stessi, sono nati dentro una certa porta o una finestra che ho dipinto. In un’epoca dove tutti con gli smartphone scattano centinaia di foto, colpisce che un acquerello, nel suo essere lento, imperfetto e bisognoso di fatica e concentrazione, sappia ancora suscitare immedesimazione. E io felice di essere la viandante di queste emozioni». 

Luigi, che cerca e raccoglie la poesia nei sassi di fiume

ecco perchè  raccolgo e mi faccio portare  sassi  e pietre 

la stampa 27/08/2013 L’ULTIMA STORIA
ZEVIO (VERONA)
«Ecco, questa è la mia Ricerca». Ha gli occhi illuminati dalla gioia e dall'emozione Luigi mentre entra nel suo vecchio fienile come se stesse varcando la soglia di un antico e solenne tempio. Un fienile diroccato, incastonato tra moderne case, dove nel tempo ha raccolto, catalogato e classificato decine di migliaia di sassi. Scelti, uno a uno, nel fiume Adige. Un antro magico e suggestivo, che ti toglie il fiato, dove tutto sembra pericolante e lasciato al caso.   
E invece segue una logica. O meglio, come ti illustra, segue una poesia. Da cogliere senza pregiudizi o la presunzione di trovare significati. Luigi Lineri oggi ha 76 anni, vive a Zevio in provincia di Verona, e ricorda come se fosse ieri quel primo maggio del 1963 in cui, accompagnando un amico a cercare delle selci nel fiume, raccolse un sasso con un buco in mezzo. «Poteva essere un’arma primitiva o un vecchio ciondolo – ricorda – ma mi spinse a guardarmi intorno e ad accorgermi come d’incanto che c’erano forme che si ripetevano ritmicamente: sassi che andavano letti ed interpretati, che comunicavano messaggi».  


Per Luigi tradurre quel linguaggio diventa una sorta di missione a cui dedicare il resto dell’esistenza. Abbandona il lavoro di commerciante e sceglie quello part time da inserviente ospedaliero per avere più tempo libero, e appena i contributi versati glielo permettono opta per il prepensionamento. Il fiume diventa la sua seconda casa, mentre la sua prima casa si trasforma nel deposito di quei sassi in cui lui  
  sempre  dalla  galleria  fotografica  della stampa   
intravede teste di pecora, teste di pesce, bovini, profili di donna, falli maschili e becchi d’uccello.  
«In tanti mi davano, e mi danno ancora, del matto: ma sono io a sorprendermi ogni volta in cui una persona non riesce a scorgere queste figure levigate nella pietra, che sono sicuramente il frutto di mani antiche e sapienti. Simboli ancestrali, segnali di passaggio o forme rituali che hanno preceduto l’avvento dell’alfabeto: nel fiume è nascosto il mistero della natura e della vita».   
L’incredibile fienile di Luigi è meta di curiosi e appassionati, che non credono ai loro occhi nello scorgere la quantità di sassi accatastati, rigorosamente suddivisi per somiglianza, senza lasciare un centimetro libero nelle pareti e con la sensazione costante che tutto possa crollare da un momento all’altro. «C’è finalmente un interesse nuovo verso la mia Ricerca, ed è per questo che mi sto concentrando nell’impaginazione: è ora di fare pulizia e sintesi. Questo è un grande poema, ogni pietra è una lettera: ora vanno costruire le parole e le frasi. Poi chi vorrà potrà leggere e capire».   
L’attenzione al lavoro del pescatore di sassi è testimoniato anche da alcune mostre organizzate in passato, da una tesi di laurea a lui dedicata e ora da un prestigioso riconoscimento. Il radicamento al territorio, insieme alla dedizione, allo scrupolo e la perseveranza nel realizzare il proprio personale museo sono infatti le motivazioni alla base del Premio europeo alle passioni «La seconda luna», che Luigi riceverà sabato prossimo a Laives, in provincia di Bolzano.   
Un traguardo importante, che ripaga anni di sacrifici, silenzio e ostinazione, accompagnati dagli ironici commenti dei vicini e dalla pazienza infinita della moglie. «È stata una vita difficile e totalmente influenzata dal richiamo del fiume e di questi manufatti del passato – racconta sorridente la moglie Tosca, 70 anni –. Sono una donna con i piedi per terra: mi ero innamorata di un commerciante che mi garantiva uno stipendio e invece mi sono trovata a dividere il tetto con un visionario collezionista di sassi. Nel 1988, come regalo di compleanno, gli avevo fatto firmare un foglio, che ancora conservo, in cui mi prometteva solennemente di non perdere più tempo nell’Adige: ma il giorno dopo era già con i piedi a bagno. Anche ora, dopo cinquant’anni di vita insieme, mi racconta bugie per andare al fiume, e io per non arrabbiarmi preferisco uscire di casa quando lui torna con i ciottoli nascosti nella borsa della spesa. Ma che dire: meglio un uomo così di uno che va a buttare via il suo tempo al bar».   
Per Luigi il lavoro va avanti. Insieme alla classificazione, puntuale e maniacale, di quanto stipato nel fienile, ora la ricerca è concentrata sui pezzi più piccoli, che racchiudono una perfezione e una manualità più evoluta. Tentando di rendere comprensibile, anche ai più scettici, il suo operato. «Non essere capito è il suo vero cruccio – commenta la moglie – ma forse non è ancora arrivato il tempo».   
Ma lui non sta più ascoltando, perché l’attenzione è già stata calamitata da una pietra. Una normale pietra apparentemente identica ad altre mille, ma guai a farglielo notare: «Come fai a non vedere l’amore che è nascosto qui dentro?», mi sussurra con sguardo avvolgente. E poi mi spiega: «Questa è una donna che abbraccia un uomo: l’emblema dell’amore e della procreazione. Questo è l’inizio di tutto».  


18.5.14

"Non sono un artista io documento intervista al maestro della fotografia Gianni Berengo Gardin e Laurea ad honorem a su puzonarju, fotografo dei rapaci domenico ruiu

la  prima storia    viene da       rainews  24


Parlas  de . "Il libro dei libri" ultima fatica  uscita  di recente  di Gianni Berengo Gardin, edito da Contrasto. Riunisce un'ampia raccolta della produzione editoriale di un maestro della fotografia italiana, che si racconta in questa intervista di Cristina Bolzani. 

La seconda  dalla  nuova  sartdegna  online  

Laurea ad honorem a su puzonarju, fotografo dei rapaci Dopo quarant’anni di attività documentaristica, il 28 il riconoscimento dell’Università di Sassari-Nuoro a Domenico Ruiu



 NUORO. Laurea magistrale ad honorem a su puzonarju Domenico Ruiu  ( foto  a  destra  ) Sassari, dipartimento di Agraria, attraverso il corso gemmato nuorese in Scienze ambientali e forestali. Una laurea conquistata sul campo, nel vero senso della parola, per il fotografo naturalista, o meglio: «naturalista fotografo», come già nel 1993 lo definiva Fulco Pratesi nella sovraccoperta di uno dei tanti capolavori firmati da Ruiu, I miei rapaci. E proprio i “suoi rapaci”, il loro ruolo ecologico e soprattutto la loro conservazione, saranno i protagonisti della lectio doctoralis che su puzonarju terrà il prossimo 28 maggio, alle 11,30, nell’aula magna dell’ateneo turritano, davanti al rettore Attilio Mastino, al direttore del dipartimento di Agraria Giuseppe Pulina e al presidente del corso di laurea in Scienze ambientali e forestali Pietro Luciano.
. Dottore, d’ora in avanti. Così vuole l’università di
Una laurea che arriva dopo quasi quattro decenni spesi a documentare con passione sconfinata l’ambiente naturale della Sardegna e non solo. Classe 1947,
diploma in Ragioneria, una vita da impiegato pubblico, Domenico Ruiu ha iniziato a girare in lungo e in largo armato di reflex nel 1977. Ma è da sempre, fin da quando era un adolescente che passava le estati all’Ortobene, che questo eterno ragazzino puzonarju che ora scrive libri e usa il computer si lascia andare alle emozioni forti davanti a un comunissimo esemplare di passerotto o a un maestoso e raro avvoltoio monaco, un gipeto, una poiana, un gheppio, uno sparviero, un astore, un falco pellegrino, un’aquila reale... oppure davanti a un grifone. Sua maestà il grifone. Il rapace che ha segnato l’esordio editoriale di Domenico Ruiu, nel 1981. Caro grifone, il titolo di quel primo libro che gli valse anche un servizio sulle pagine di Epoca. Numerosi i saggi fotografici pubblicati nel corso degli anni.



Dopo Caro grifone sono arrivati titoli come Compagni di viaggioSupramonteIl mufloneIl fenicotteroI miei rapaciSu puzonarjuSu MonteObiettivo aquilaLa Sardegna, fino alle ultime due novità, l’impegnato Ali sul fiume, sulle tematiche ambientali della valle del Rio Posada stravolta dall’alluvione di novembre scorso, e il monumentale Il fotografo dei rapaci. The photographer of birds of prey
Librone da collezione, quest’ultimo, tiratura limitata, 1.250 copie numerate e firmate dall’autore. 
È proprio nel corso della presentazione di questo volume, nell’università di Nuoro a marzo del 2013, che è saltata fuori la prima idea di attribuire la laurea magistrale ad honorem a Domenico Ruiu. Lui si era subito seduto, quasi accasciato: «In qualsiasi modo vada a finire, grazie» aveva detto convinto che la proposta non sarebbe andata in porto. Poi, invece, è arrivato il sì unanime del senato accademico. Due giorni fa il decreto ministeriale.

Aggiungo  a   quanto  già detto   dall'ottimo articolo  ivi     riportato   che  Ruiu    se  lo merita , proprio tale riconoscimento  . Infatti  nelle sue  foto  c'è  una  conoscenza   del territorio  fatta  sul campo  e   non come  certi burocrati  solo  sulle carte  e  o  sul pc  . Finalmente  si dà la laurea  honoris  causa  ad uno che  se  lo merita e non  ad i soliti noti  , raccomandati  . Quello che  non  capisco , ma  come spesso accade  la risposta  vola  nel vento  ,  è  come mai   gli venga  concessa  non   fin dal 3  libro  ma   ora  . 
Un  fotografo  che   applica   quello che dice   Berengo  Gardin , vedere   intervista  riporta   nelle righe  precedenti  . 

Il 29 dicembre 2020 veniva uccisa Agitu Ideo Gudeta, la regina delle capre felici.

Il 29 dicembre 2020 veniva uccisa la regina delle capre felici.È stata ferocemente uccisa Agitu, la regina delle capre felici, con un colpo...