Visualizzazione post con etichetta la vita. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta la vita. Mostra tutti i post

14.10.22

viaggio o avventura ?

leggi prima

 


- A  volte il  nostro cammino  ci  è posto davanti  a poteri  più grandi  dei nostri  . Allora  è  nostro compito  lasciare  che i piedi  vadano  dove  il cuore   non desidera  andare  .....

- Quindi  vuoi   dire che  dobbiamo  ....

 - qualunque  periglio  ci  attende durante  la  via  

 - Sembra   che    quello che scrivi non è un viaggio   una  specie d'avventura  

 - Infatti  da  soli  è  un viaggio  (   o almeno un certo tipo  di viaggio  ) e  basta  ... 

 - ...  le avventure  vanno condivise  

- precisamente  .

-   Adesso   andiamo  avanti   che mala tempora  currunt 


 . Già  partiamo, partiamo che il tempo è tutto da bere\ e non guardiamo in faccia nessuno che nessuno ci guarderà\Beviamo tutto, sentiamo il gusto del fondo del bicchiere\ e partiamo .....

- ..... che il tempo potrebbe impazzire\e questa pioggia da un momento all'altro potrebbe smettere di
venir giù.\E non avremmo più scuse allora per non uscire.\Ma che bel sole, ma che bel giallo, ma che bel blu !

 - Ecco ....    pedala, pedala che il tempo potrebbe passare\e questa pioggia paradossalmente potrebbe non finire mai.\E noi con questo ombrelluccio bucato che ci potremmo inventare ?

 - 🤣

 - 😀




2.12.21

imparare dale piccole cose e dai classici










Impariamo dalle pietre di Roma Nascondono la nostra storia e rappresentano anche la relazione indissolubile tra l’elemento naturale e la cultura umana
                                          di   Emanuele Coccia


La via Appia a Roma 


C'è qualcosa di strano e di magico nella traiettoria delle pietre a Roma. Come in nessun altro luogo al mondo, in questa città la memoria delle pietre sembra eguagliare quella delle montagne o delle valli: i palazzi, i templi i monumenti vivono così a lungo da avere la stessa età di un fossile e l'arte improvvisamente diventa geologia. È come se bastasse allungare la prospettiva temporale per accorgersi che quello che chiamiamo cultura è solo una degli infiniti modi attraverso cui la natura produce forme.
È come se a Roma fosse impossibile pensare che l'uomo sia qualcosa di diverso dalle forze che muovono le grandi placche tettoniche e che ridisegnano il volto del pianeta: è solo una loro versione locale e accelerata. C'è qualcosa di liberatorio in questa scoperta. La geologia contemporanea ha da qualche anno avanzato l'idea che l'eccesso di operazioni distruttive compiute dalla specie umana sul pianeta ne ha cambiato radicalmente il volto: non c'è più un solo centimetro quadrato della sua pelle che non sia direttamente il frutto della manipolazione umana o che non testimoni della presenza dell'uomo.
Si è chiamato Antropocene quest'epoca in cui guardando il pianeta si scorge solo e soprattutto una delle sue specie. A Roma è possibile fare un'esperienza simile e opposta: passeggiando tra le sue rovine si scopre che ciò che è in gioco in qualsiasi manufatto umano è qualcosa di planetario, che in ogni nostro minimo artefatto è sempre la Terra ad esprimersi e a prendere forma.
Nella scoperta che arte e natura sono non solo coetanee ma sorelle gemelle nate di una stessa madre, ne va qualcosa di più del solito piatto di lenticchie per la conquista della primogenitura. Perché, se il Colosseo è fatto della stessa sostanza dei sette colli e viceversa, allora la divinità o almeno la sacralità che siamo abituati a riconoscere alle nostre rovine passa da queste al suolo che occupano e da questo di nuovo a uno qualsiasi degli oggetti che fabbrichiamo.
Quello a cui è difficile resistere a Roma è la fede nella divinità delle pietre: la vaga intuizione che tutta la materia della Terra è qualcosa di divino, e che la sua divinità non dipende dal fatto di essere una montagna, una donna, un monumento ai caduti o un albero. È come se in questa città in cui mille religioni si sono incontrate si scoprisse che gli dei più importanti sono le pietre di cui è fatta. È forse a causa di questa strana prossimità magnetica con Roma e allo sguardo sul mondo umano che questa città impone a chi ci vive e la frequenta che il pensiero in Italia oggi sembra fortemente caratterizzato da una nuova vena naturalista, almeno osservato da chi, come me, in questo Paese non ci abita.
È come se un insieme di voci delle età più diverse (che quindi non sono l'espressione di una generazione in particolare, ma di un movimento più profondo), provenienti da discipline e pratiche molto distanti come possono esserlo la chimica dei materiali o l'architettura, la filosofia o l'arte si fossero date un appuntamento segreto per poter esprimere da punti di vista diversi una medesima idea: quella medesima intuizione che Roma incarna nelle sue pietre.
Non si tratta della versione locale e quasi folklorica della moda ecologista che sta attraversando tutto il pianeta. Non lo è per una ragione precisa: perché per queste voci la questione è meno quella dell'armonia dei viventi e delle loro comunità che quella della vita della materia, indifferentemente da tutte le opposizioni con cui possiamo provare a pensarla. In questa materia Laura Tripaldi, giovanissima studiosa di nanotecnologie all'università di Milano Bicocca, è sicura di riconoscere l'esistenza di una mente e non in senso metaforico. La materia non è mera estensione geometrica che si oppone a un io pensante, come avevano preteso Cartesio e quasi tutti gli occidentali con lui: è una forma di intelligenza, certo diversa dalla nostra, ma non per questo meno spirituale, meno complessa, meno libera. In un libro edito recentemente da Effequ (Menti parallele. Scoprire l'intelligenza dei materiali) Tripaldi chiede di spiegare cosa sia la materia a un ragno che secerne seta. In questo modo ottiene due grandi rivoluzioni.
In primo luogo, si capisce che l'intelligenza e la sopravvivenza del ragno è legata all'intelligenza della materia che usa - la seta appunto. In secondo luogo, la seta, una fibra proteica capace di adattarsi in maniera inedita in funzione dei contesti, dimostra che la materia ha un comportamento e dovrebbe per questo essere oggetto dell'etologia più che della chimica. La chiave per comprendere il comportamento della materia è la nozione di interfaccia.
Qualche anno fa, un libro di Branden Hookway aveva dimostrato che l'idea di interfaccia viene dalla meccanica dei fluidi e definisce la soglia in cui una materia è assieme soggetto e oggetto di sé: uno stato in cui la materia ha la stessa postura di un vivente autocosciente. Tripaldi sviluppa un'idea simile: la materia è intelligente quanto più diventa interfaccia nei confronti di se stessa e del resto del mondo perché, così facendo, aumenta la sua capacità di adattarsi al contesto e quindi la sua stessa libertà.
È solo pensando la materia come mente e madre che ci genera che riusciremo a capire la nostra stessa intelligenza: a partire da questa stessa tesi, Ingrid Paoletti, professore associato di tecnologia dell'architettura al Politecnico di Milano invita a un vero e proprio "attivismo materico". Nel manifesto Siate materialisti!, pubblicato da Einaudi, Paoletti articola le conseguenze politiche di questa nuova sensibilità: piuttosto che preoccuparsi di distinguere moralmente le buone e le cattive materie, sentirsi vicini o gemelli di qualsiasi materia significa ammettere che "non esistono demoni e santi tra le materie".
A chi pensa che la soluzione del problema ecologico sia l'economia delle materie e la separazione netta tra ciò che vive e ciò che non lo fa, Paoletti oppone la necessità di riconoscere "il continuum tra materiale e immateriale che si influenzano a vicenda", "l'omeostasi tra naturale e artificiale, tra corpo e spirito". L'equazione inedita del libro è quella che per immaginare una società più equa è necessario imparare a sentire che la materia "è viva nella sua microstruttura, viva quando è realizzata con materiali viventi, veramente viva quando la investiamo con la nostra intenzionalità". Ma si farebbe male a confondere questa svolta radicale del pensiero italiano, finalmente lontano dalle risacche della filosofia sociale a cui il Novecento l'aveva spiaggiato, con una forma banale di materialismo. Cercare di far coincidere l'intelligenza, la vita e persino lo psichismo con tutto quello che si trova davanti a noi e non dentro di noi è il sintomo di un atteggiamento che ha in filosofia un nome diverso: "panteismo".
Un libro di Emanuele Dattilo mostra che si tratta di qualcosa di molto più antico e diffuso di quanto si possa credere. Panteista, spiega Dattilo, è chi mette al centro della propria esperienza del mondo l'idea di materia non per negare lo spirito o l'anima, ma per ritrovare l'unità viva e dinamica del cosmo. Non si tratta più di opporre la materia alla coscienza ma di fare del pensiero, come aveva suggerito Poe, la materia che permea ogni cosa ed è in sé ogni cosa: e in nulla questa coincidenza si dà a conoscere in modo più trasparente che nel desiderio. Panteista è chi riconosce che il desiderio - "l'essenza della religione" secondo Feuerbach - è la materia di cui sono fatti gli dei: filosofo - letteralmente colui che conosce grazie al desiderio - è allora solo chi riesce a cogliere in ciascuna delle forme della materia uno degli infiniti nomi di Dio.
Questi tre libri sembrano rinnovare l'antica tradizione alchemica che faceva dello scopo del pensiero la sintesi della pietra capace di trasformarsi in tutte le materie del mondo. Le pietre di Roma, in fondo, ne sono un esempio perfetto. Abbiamo bisogno di una nuova età della pietra - o forse non ne siamo mai usciti. Siamo tutte e tutti Flintstones, e non è affatto una cattiva notizia.

29.11.21

fregatevene se strappare lungo i bordi è in romanesco o romanesco italianizzato e vedetelo è un ottima serie ve lo dice unsardo che non capisce il dialetti il romano

  Incuriosito , dopo  il mezzo flop      del film la  profezia dell'armadillo   ,   ho  voluto  dare    una seconda   possibilità  a  una  trasposizione         cinematografica    delle  opere  di Zero calcare  .
 La serie   di Netflix   strappare  lungo i bordi   a  differenza  del film prima  citato   mi è  piaciuto   tantissimo  . Essa è  una      serie   molto poetica ,   auto  critica  e auto ironica ,  toccante  e  delicato  nell'affrontare    un tema caldo    come il suicidio   . Una bella l’educazione sentimentale  quella  espressa  in  questa  serie  di di Zerocalcare. Commuove e diverte, educa nel senso migliore: senza eroismi e moralismi pedanti. Leggo che ha grande successo e ne sono contento, perché Strappare lungo i bordi è insieme a Peanuts e aThe Catcher in the Rye (Il giovane Holden di J.D. Salinger, ndr) un racconto terapeutico che fa bene a tutti. Nel suo viaggio individuativo (non c’è bisogno del drago junghiano, basta un treno per Biella), Zero dialoga di continuo con la sua coscienza-armadillo che lo asseconda e lo sfotte, infierisce ma non lo abbandona. È un oggetto interno.

Una scena della serie tv Strappare lungo i bordi
di Zerocalcare (su Netflix): Zero è in auto con l’amica d’infanzia Sarah, che compare anche  nei suoi fumetti 

«Cintura nera de come se schiva la vita», Zero è terrorizzato dai sentimenti, più li prova più li nega. Tutto lo fa sentire in colpa, il peso è enorme, ma si vede che dentro c’è un fuoco, è che lui non sa come accenderlo, sospeso sempre tra l’amore e l’accollo. Abitato da grandiosità segrete come ogni fragile narcisista adolescente, Zero (omen nomen) teme il confronto perché teme il giudizio, perché teme il rifiuto. È infatti sentendoci nani che ci pensiamo giganti, convinti che tutto ruoti intorno alle nostre incertezze. Allora grazie Sarah per la tua storia zen dei fili d’erba.  Ora mi chiedo ma davvero    come ho già detto precedentemente  ,  qualcuno ha sbroccato per il romanesco di Zero? Li mortacci, non si strappa la lingua all’artista. A proposito, Strappare lungo i bordi parla dell’illusione dei percorsi obbligati, quelli che crediamo ci esonerino dall’ascolto, dall’invenzione di altre tracce, dalla possibilità di cambiare il disegno previsto. Il foglio ha due rischi: si ingiallisce o si lacera. Le linee di confine, border-lines, sono territori psichici sempre interessanti: nel vocabolario clinico segnano il passaggio della personalità verso territori di sofferenza, in quello di Zero e dei suoi amici adorabili separano il terreno della paura da quello della vita. Prevedono cicatrici (mica trasferelli) e si tracciano strada facendo. Il disegno arriva sempre dopo.E' incredibile come si passi dall' ammazzarsi dalle risate alla commozione vera, genuina, in pochi minuti. Uno spaccato generazionale irreverente, esilerante, emozionante ma anche tanto, terribilmente onesto, privo fi inutili paraculate e finti moralismi. Strappare lungo I bordi e' destinato a diventare un cult ... se non lo e' già. , un racconto emozionante e divertente, a tratti crudo, un pugno nello stomaco. Per me comunque un inno alla vita.I diversi strati, dell’interiore e dell’esteriore, del dentro e del fuori, del ricordo e del presente, del dolore e della catarsi, vengono finalmente visti dall’alto e accolti nella loro imperfezione e parzialità . Infatti .... cazz ..... stavo per spoilerare il finale.
 La  consiglio  1)  è una serie che rimane in equilibrio tra il comico e il drammatico. Durante l'intera narrazione si ride in modo intelligente: i personaggi regalano al pubblico delle divertentissime battute che fanno riflettere. Durante gli ultimi (amari) episodi, il sorriso lascia posto alle lacrime


 Una coinvolgente altalena di emozioni. 2) Strappare lungo i bordi è una serie che rimane in equilibrio tra il comico e il drammatico. Durante l'intera narrazione si ride in modo intelligente: i personaggi regalano al pubblico lascia posto alle lacrime delle divertentissime battute che fanno riflettere. Durante gli ultimi (amari) episodi, il sorriso
Una coinvolgente altalena di emozioni. 3) Gli spettatori, infatti, si confrontano (  almeno che   non  la  si  guardi   solo per  moda   e acriticamente  )  costantemente con personaggi totalmente differenti, che rappresentano alcuni degli innumerevoli atteggiamenti e stili di vita dei giovani di oggi:

  • Zerocalcare: il protagonista della storia è un personaggio fortemente autocritico costretto a confrontarsi con dubbi esistenziali.
  • Sarah: una ragazza in grado di mantenere sempre la calma. Non intende rinunciare ai propri sogni, nonostante le difficoltà. Affronta anche le situazioni più impegnative in modo razionale.
  • Secco: è il menefreghista per eccellenza. Non ha obiettivi o sogni nel cassetto. Prende tutto con estrema leggerezza. La sua risposta è sempre e solo una: "S'annamo a pija er gelato?".

Mi trova  d'accordo    il voler    precisare da parte  di Zero  Calcare    che le polemiche attorno al “romanesco”, su cui sono intrise ascissa e ordinata di senso linguistico culturale di Strappare lungo i bordi, non meritano nemmeno di essere ascoltate: “La serie la si può criticare per mille motivi: può essere brutta, può essere che la mia recitazione sia inadeguata. Ma la questione del romanesco è ridicola, non vale nemmeno la pena discuterla. Chiunque sia capace di andare a fare la spesa da solo è in grado di capire Strappare lungo i bordi. Infatti se questa storia non fosse stata in dialetto romanesco avreste perso l'essenza, la quotidianità e il modo di fare di un romano di borgata. Insomma sarebbe stata mediocre e impersonale. E poi Dicevano così anche di Brancaleone, nessuno lo voleva produrre ... Poi hanno girato anche un secondo film.Lo capivano tutti
Quindi le persone  che lo criticano solo per  questo  : 1) possono essere o hanno bisogno di un pretesto per andare sui giornali.,  2) poca  voglia  di sforzarsi a capire  una  variante dell'italiano   ovvero un dialetto .
Ora  

Strappare lungo i bordi  (QUI la nostra recensione) è un avvincente viaggio alla ricerca di sé, di quella consapevolezza necessaria per affrontare una vita priva di libretto di istruzioni, un percorso che ci si illude di poter controllare, magari seguendo una linea pre-tagliata ma che è inevitabilmente soggetto a deragliamenti e lacerazioni.
Nel corso dei suoi sei episodi, micro-film in cui il protagonista Zero sviscera ogni aspetto della sua insofferenza, lo spettatore ha l’occasione di ripercorrere le tappe della propria giovinezza, rielaborando le stesse domande esistenziali del protagonista, un ragazzo introverso e sensibile, poco avvezzo ad entrare in profonda empatia con gli altri per la sola paura di accettare quel lato imprevedibile che – nel bene o nel male – rende la vita un’esperienza degna di essere vissuta, nonostante le inevitabili cicatrici che comporta. ...... 
potrei  continuare  a  citare  l'articolo  ma  rischierei  di spoilerare  ( come stavo per  fare  prima all'inizio del post  con il finale )     troppo  è rovinarvi l'eventuale  visione   .,  comunque  se  siete sadici   lo  oltre   gli  url  citati nelle   sue  righe    trovi  qui https://www.cinematographe.it/focus-serie/strappare-lungo-i-bordi-storia-vera/  il resto  dell'articolo .Le   mie  impressioni  collimano  con  il   commento lasciato  sul  promo    dellla  serie   




Serie meravigliosa! Tempi comici perfetti, proprio quando può risultare il tutto troppo serioso c’è una battuta che smorza l’atmosfera e cattura l’attenzione dello spettatore facendolo riflettere sul fatto che anche temi tristi, orribili, possono essere affrontati con un pizzico di leggerezza, e che in fondo tutti siamo fili d’erba in un campo!

 per  chi  come  me  avesse  difficoltata ( alcune le   ho capite  al  volo ,  dopo 4 serie  ed i libri    di rocco  schiavone  )  qui trova  un  glossario   con l'espressioni usate nella serie  

  Peccato che   le  polemiche  stupide  (   di cui  ho accennato nel post   i soliti idioti che attaccano o criticano “Strappare lungo i bordi” di Zero calcare solo perchè parla romano e non sulla sostanza   abbiano creato una  crisi  nell'autore     come riporta      quest'articolo  de il messaggero 


Zerocalcare su Strappare lungo i bordi: «Dopo la serie la mia vita è diventata invivibile. La polemica sul romanesco è ridicola»
«La seconda stagione? La mia vita è diventata invivibile, ma se trovo un modo di sopravvivere, la faccio»

                         Ilaria Ravarino 28 Novembre 2021, 09:20 



Zerocalcare su Strappare lungo i bordi: «La polemica sul romanesco della serie è ridicola»
Arriva in ritardo, con il fiatone, l'aria sconvolta: «Ho fatto il chioppo», dice, mimando l'impatto della sua macchina contro qualcos'altro. Ma appena prova a spiegare la dinamica dell'incidente, le persone che l'aspettano per il firmacopie, in libreria, scoppiano in un caloroso applauso. La vita di Michele Rech, 37 anni, fumettista, in arte Zerocalcare, è cambiata nel giro di una settimana. La sua serie tv, Strappare lungo i bordi, è la più vista su Netflix. Il suo ultimo libro a fumetti, Niente di nuovo sul fronte di Rebibbia (raccolta di storie uscite sui giornali e un inedito sul dietro le quinte della serie), provoca file bibliche in libreria. E le etichette si sprecano: simbolo di una generazione, bandiera degli oppressi, alfiere della romanità, ultimo intellettuale d'Italia. «È andata oggettivamente super bene dice lui - ma non me la sto vivendo benissimo. Conto che sbollisca. Lo spero». Si stupisce di avere successo in tutta Italia?«No, ho sempre avuto pubblico anche fuori dalla mia città. Non così ampio, ovviamente».
Zerocalcare, la forza di un dialetto che smonta le nevrosi
È stato criticato per la scelta del romanesco. Pentito?
«La serie la si può criticare per mille motivi: può essere brutta, può essere che la mia recitazione sia inadeguata. Ma la questione del romanesco è ridicola, non vale nemmeno la pena discuterla. Chiunque sia capace di andare a fare la spesa da solo è in grado di capire Strappare lungo i bordi. Le altre persone o sono in malafede, o hanno bisogno di un pretesto per andare sui giornali».
La cultura italiana è romanocentrica?
«Mi pare evidente che in giro ci siano mille cose diverse in mille dialetti. Qualcuno è meno rappresentato degli altri? Mi dispiace. Ma veramente quello del romanocentrismo è un dibattito che sta fuori dal mondo. Alla gente normale non frega nulla».
Si sente, come è stato definito, l'ultimo intellettuale d'Italia?
«Non è un titolo di cui mi vanto e non mi ci riconosco assolutamente. Appena l'ho saputo ho pensato: mo' mi rovinano. E infatti sono arrivati gli haters».
Dicono che guadagna come Chiara Ferragni: è vero?
«Spero per lei di no. Ho un tenore di vita che mi va bene. Se anche guadagnassi cento volte di più, quei soldi non saprei come spenderli».
Dai centri sociali a Netflix: il capitalismo ha vinto?
«In una società capitalista il capitalismo vince sempre. Io cerco di rimanere onesto con le persone, di essere coerente. Non rinuncio, pur di ottenere un pubblico più ampio, alla radicalità dei contenuti o al supporto delle cause che sostengo. Ma insomma: questo è il mio lavoro, non è la mia missione. Né ho mai pensato che il mio lavoro fosse trovare la soluzione al capitalismo».
«"Strappare lungo i bordi" troppo romanesco», Zerocalcare risponde alle polemiche sulla serie cult. «Come ve va de ingarellavve...»
C'è chi ha notato che vive in periferia, ma ha frequentato una costosa scuola francese. Le dà fastidio?
«Da quando ho due mesi abito a Rebibbia. Sono francese e quindi ho fatto la scuola francese. Rebibbia poi non è il ghetto. E io non mi sono mai dipinto come uno del ghetto. Non vedo perché mi debba giustificare».
Mattia Torre (uno degli autori di Boris, ndr) ha raccontato prima di lei la stessa generazione. È un modello?
«Sì, ma inarrivabile. Mattia Torre per me ha fatto le cose più belle prodotte in Italia negli ultimi trent'anni. Non oso accostarmici, le sue cose per me sono un modello assoluto. Quanto a me, credo che le persone che si riconoscono nei miei fumetti siano quelle più impicciate. I miei personaggi parlano poco alle persone risolte. Evidentemente la nostra è una generazione impicciata».
Ora la leggono anche i bambini: che ne pensa?
«Che è buffo. Mi chiedo cosa gli arrivi. Alcuni temi sono molto adulti. Però è vero che quel senso di ansia rispetto al deludere la maestra di cui parlo nella serie io stesso l'ho provato da bambino. E avrei voluto che qualcuno mi dicesse di non preoccuparmi, che se si va male a scuola non si spezza il cuore dell'insegnante».
Il prossimo fumetto?
«Esce tra maggio e giugno, e racconterò del mio viaggio in Iraq. Sicuramente un tema che mi interessa di più della polemica sul romanesco».
La seconda stagione della serie si fa?
«Da quando è uscita la serie la mia vita è diventata cosi invivibile che o trovo una centratura, oppure non mi va di stare ingolfato in mezzo alle polemiche. Non c'è niente al mondo che mi costringa a farlo. Sta a me. Ma se trovo un modo di sopravvivere, la faccio».

Lo capisco  ma  sarebbe  un peccato  , non solo  per  chi non lo  conosce  ancora  bene  ,   che   zero  calcare   lasci  una  cosa  incompleta  ,  infatti  mancano ancora le  vicende    di " cinghiale  "  uno dei protagonisti   delle sue  storie  .  
il romanesco è sulla bocca di tutti. Dagli stornelli al teatro di strada sino alla commedia all'italiana, nelle  serie  tv sempre sul crinale fra serio e faceto, il dialetto romano è capace di stupire e stordire il pubblico, altissimo o greve, partendo dal popolo ma capace di pungere tutti. Ma  allo  stesso  tempo  d'infastidire   ,  forse per la  pronuncia  . Caratteristiche che lo rendono anche inviso  ai  puristi, come dimostra la polemica nata sull'onda del grande successo riscosso da Strappare lungo i bordi, la prima serie tv creata dal disegnatore Zerocalcare, in streaming su Netflix. C'è davvero chi avrebbe voluto che Michele Rech - in arte Zerocalcare (Arezzo, 1983) usasse l'italiano corrente per raccontare il mondo attorno a Rebibbia, cogliendo la società dei 30-40 enni e le sue disillusioni. Invece, Strappare lungo i bordi, composta di sei puntate da venti minuti, è un omaggio all'essenza capitolina e mentre la polemica sull'eccessivo uso del dialetto montava sui social, il disegnatore entrava a gamba tesa, twittando,

 gettando altra benzina sul fuoco.






See non l' avesse fatta con l' accento romano non sarebbe stata la stessa cosa, e  come   se la serie  Gomorra  fosse  solo in Italiano «A ben vedere racconta il linguista Luca Serianni la forza di questa parlata è proprio la sua potenza dirompente, il gusto della battuta, la capacità di non prendersi e non prendere mai nulla troppo sul serio, scrollandosi dalle spalle il mondo intero con una smorfia». E mentre il web si schiera ma l'appoggio per Zerocalcare è pressoché univoco in città si terrà Roma, un nome, più lingue, il terzo incontro della rassegna Conversazioni romane (  svoltatosi  veneri scorso   a Palazzo Firenze, in collaborazione con la Società Dante Alighieri e la Fondazione Marco Besso) in cui proprio Serianni, autore del saggio Le mille lingue di Roma (Castelvecchi), ripercorrerà le fasi più salienti del plurilinguismo romano, dall'antichità ai giorni nostri.

Ecco  che  quindi    Netflix incassa un altro grande successo dopo Squid Game (in questo stranamente  caso nessuno si era lamentato che fosse in coreano, senza doppiaggio ), il nuovo albo di Zerocalcare - Niente di nuovo sul fronte di Rebibbia, edito da Bao Publishing - è già in classifica, sempre con largo uso di romanesco, sfoderando un'ironia abrasiva, una certa vena di cattiveria che corre accanto al riso - ora omaggiando ora smontando il sacro - come Sordi ne Il Marchese del Grillo. Un'universalità che ritroviamo solo nel napoletano di Troisi e nel siciliano di Camilleri. «Il romano è mattatore precisa Serianni quella lingua cade sulle sue fattezze, talvolta rozza e volgare ma sempre capace di indurre al gioco, allo scherzo, lasciando affiorare con forza un elemento dissacrante che infine si rivela liberatorio». Piaccia
o meno, il romanesco ha una sua carica esplosiva ma proprio la sua forza può risultare un limite? Edoardo Albinati, scrittore romano e vincitore del Premio Strega con La scuola cattolica (trasposto al cinema, diretto da Stefano Mordini e vietato ai minori di 18 anni) non ha dubbi: «Per Zerocalcare era inevitabile l'uso del romanesco. E non mi riferisco al racconto di Rebibbia, piuttosto alla sua capacità di cogliere quella nevrosi umoristica, arrabbiata e urticante».



  mi fermo qui  altrimenti rischio  d'essere troppo prolisso e  di alimentare    ulteriormente  polemiche    già  di per  sè sterili  e   di   fare  spoiler  .  buona  visione  


17.4.18

storie di bullissimo , di stalker

 in sotto  fondo 

una delle tante  storie  di bullismo  

MANTOVA. «Paolo, Paolo... apri la porta, ti prego, apri...». Ha bussato e implorato per venti, trenta interminabili secondi. Poi, capito che il ragazzino non avrebbe risposto, perché non poteva o non voleva, l’insegnante è corsa a dare l’allarme. Paolo (naturalmente non è il suo vero nome, ndr), studente dodicenne, è stato trovato a terra, nei bagni della scuola media, in stato di semincoscienza. La scena appariva come quella di un tentativo di suicidio per ingestione di farmaci. A farlo pensare sarebbe stato un biglietto lasciato dal ragazzo – circostanza questa che ufficialmente nessuno ha voluto confermare – una sorta di motivazione di un gesto, il suicidio, in realtà mai tentato.A smentire che ci sia stata un’ingestione di farmaci sono state le visite mediche a cui Paolo è stato sottoposto dal personale dell’elisoccorso durante il trasporto all’ospedale Poma e in seguito. Quale l’origine di quello che appare un suicidio simulato o, tradotto, una drammatica richiesta di aiuto? Presunti atti di bullismo di cui Paolo potrebbe essere rimasto vittima. Su questo si stanno interrogando sia la scuola che i carabinieri. Sulla vicenda al momento è stato sollevato – comprensibilmente, vista la delicatezza del caso – uno spesso muro di riserbo.«Non posso riferire nulla – è il commento laconico rilasciato dal provveditore agli studi, Novella Caterina – poiché i fatti e la dinamica sono ancora oggetto di accertamento da parte delle forze dell’ordine. Posso dire solo che provveditore e dirigente scolastica, in continuo contatto, stanno seguendo il caso con la massima attenzione e collaborazione con le autorità competenti».Paolo è stato ricoverato nel reparto di Pediatria. Le sue condizioni fisiche erano buone, non così invece il suo stato emotivo, sebbene lo abbiano subito raggiunto i genitori. Il ragazzino sarebbe stato anche visitato da uno psicologo. Sarà innanzitutto a scuola, comunque, che si scaverà sulle cause dell’accaduto. Ai carabinieri spetterà l’invio di una relazione alla Procura dei minori.

proviamo    a metterci  nei panni non solo dele vittime  ma  di chi  ha praticato e  il perchè lo  ha  fatto il bullismo  o nonnismo  o viceversa vedere  il video  di  questo  Cortometraggio sul tema del bullismo diretto dal regista Giuseppe Sorce di Bagheria realizzato a conclusione del progetto "Why not2" Crescere è confronto" dalla scuola media L. Pirandello e dalla scuola elementare F. P. Tesauro di Ficarazzi (PA). Testi di Loredana Caltagirone. Produzione Opera Fotografia. www.operafotografia.it 
Perchè  chi o ha  subito lo ha   fatto a sua  volta  come il sottoscritto  non in maniera  violenta   ma psicologica  
  




c..   quando  io facevo lo stalker 😁🤗🙂😸 non  c'era  tutti questoi mezzi 


Stalker spiava l’amata usando un drone
Le vie della persecuzione possono essere infinite: chiesto il processo per un 53enne di Saonara          di Cristina Genesin














SARMEOLA. 
Le vie della persecuzioni possono essere infinite. Non bastano pedinamenti, chiamate telefoniche e valanghe di sms. Non bastano neppure riprese fotografiche o video. L’ultima frontiera dello stalking passa attraverso il drone impiegato da F. Z. , 53 anni di Saonara, per spiare ogni istante di vita della donna di cui sperava di conquistare il cuore. Una donna 54enne che, fin da subito, era stata chiara: non era interessata a un legame con lui. Quando, dopo la seconda denuncia, era arrivata la nuova segnalazione della vittima che lamentava l’impiego del drone per spiarla, in procura faticavano a crederci. Nella foto trasmessa dalla signora il drone era ridotto a puntino nero nel cielo azzurro sopra la sua casa. Alcuni giorni più tardi, il 15 settembre scorso, la conferma che la donna aveva ragione: bloccato dalla polizia mentre la stava pedinando, nell’auto di F. Z. è stato sequestrato il drone oltre a due videocamere, due tablet, un coltellino. Ora l’uomo rischia di finire a processo: il pm Daniela Randolo ha chiesto il rinvio a giudizio per stalking, ovvero atti persecutori. L’imputato – sotto posto alla misura del divieto di avvicinamento alla vittima e ai luoghi da lei frequentati – è difeso dagli avvocati Michele Grinzato e Chiara Gaiani; la vittima è tutelata dal penalista Federico Bessega.
Nel 2016 inizia la persecuzione. Scatta una prima denuncia, poi ritirata di fronte a un impegno sottoscritto da lui davanti ai carabinieri di non ripetere quei comportamenti. Tempo qualche mese e lo stalker riprende a farsi vivo in modo più ossessivo: si piazza per ore davanti alla sede dell’ufficio della vittima benché ripreso dalle telecamere fisse; la segue quando esce di sera con le amiche; addirittura si stende per terra davanti alla sua auto in sosta mentre la donna va a riprendere
la vettura nel parcheggio dopo la serata in un locale. Viene riproposta la querela e poco dopo appare il drone che la vittima fotografa. Drone sequestrato nell’auto dello stalker la sera del 15 settembre scorso in occasione dell’ennesimo pedinamento


20.3.17

la storia di Veronica Puggiioni dalla depressione al canto


da l'unione sarda  CRONACA » CAGLIARI 20\3\2017  12:21 - ultimo aggiornamento alle 12:53

"Io, miracolata da padre Puggioni": la storia di Veronica, dalla depressione al canto


Veronica Pisano
Diventare una cantante era il suo sogno più grande: "Fin da piccola - racconta Veronica Pisano, cagliaritana - ogni occasione in cui stavo con la mia famiglia era contornata da momenti di canto, fino a quando tutti i miei sogni si sono infranti".A "salvarla" da una depressione profonda è stato un "miracolo", come lo definisce, da parte di padre Giovanni Puggioni."I miei genitori si sono separati, e questo ha determinato il tracollo economico e affettivo della famiglia. Sono passata da una situazione agiata a una di povertà e sono caduta in uno stato di solitudine e sconforto".Tra i suoi ricordi di fine anni Novanta, l'immagine di sua madre "distrutta dal dolore e dalla disperazione nell'impossibilità di provvedere al sostentamento mio e della mia sorellina"; pensieri cupi, "non riuscivo a vedere il mio futuro", accompagnavano Veronica ed era sopraggiunta "una brutta depressione, per cui credevo che la soluzione migliore fosse fuggire da questo mondo".
Poi qualcosa è cambiato, "mi sono guardata intorno e mi sono resa conto che tante persone avevano più bisogno rispetto a me, e ho iniziato a frequentare l'associazione onlus Operazione Africa di padre Giovanni Puggioni".
Veronica ha riscoperto così "l'impegno e la forza di vivere aiutando il prossimo. Padre Giovanni è stato capace di leggermi nel cuore, spalancando una finestra sulla mia vita futura, profetizzando la mia carriera di cantante".
A vent'anni Veronica ha cominciato a studiare canto e la "profezia" del sacerdote si avvera nel 2014 "con l'incontro con il chitarrista e compositore Maurizio Gastaldi".
"Voglio raccontare questa mia esperienza per tutte le persone che si sentono sole e vittime dello sconforto - spiega Veronica - La vita, anche se a volte è ingiusta e ingrata, merita di essere vissuta perché il futuro ci riserva cose bellissime".


Veronica Pisano: "Volevo dire addio, Padre Puggioni mi ha salvato"

La bravissima cantante sarda Veronica Pisano racconta su Cagliari Online la sua storia più sofferta: "Nel 1997 per problemi familiari, senza soldi nè amici, pensai di buttarmi dalla finestra:Padre Puggioni con una profezia mi salvò: mi disse che sarei diventata una cantante. Vorrei dire a tutti i giovani che in questo momento si trovano nel buio e soli, di avere pazienza, che tutto arriva prima o poi, anche la felicità"

Autore: Redazione Casteddu Online il 13/03/2017 16:22 
Veronica Pisano: "Volevo dire addio, Padre Puggioni mi ha salvato"
Nel 1997 si separarono i miei genitori, morirono i miei nonni paterni e mia madre perse il lavoro. All' inizio non mi rendevo conto, ma ero sempre più triste. Solo la musica e la speranza che sarei diventata una cantante mi consolava. A 19 anni in preda alla disperazione pensai di buttarmi giù dalla finestra; non avevo amici, ne soldi, ne più una famiglia unita. Mi sentivo sola e in preda alla disperazione.L' anno successivo , nel 1999 conobbi Padre Giovanni Puggioni, che mi raccontò i miei pensieri cattivi, nonostante non gliene avessi mai parlato,mi predisse il futuro ,dicendomi che sarei diventata una cantante, avrei inciso dei dischi e avrei imparato e cantato in un' altra lingua. Dopo quel colloquio andai via felice e iniziai a studiare francese e spagnolo. Ma niente, più passavano gli anni e più perdevo la speranza. Nel frattempo studiavo canto. Nel 2011 mi sono iscritta alla Scuola Civica di Musica di Cagliari in Canto Moderno, nello stesso anno ho conosciuto Maurizio Gastaldi (chitarrista e compositore ), improvvisamente è nata in me la voglia di ascoltare musica sarda. Nel 2014 nasce la nostra collaborazione fino ad oggi, con due album in attivo e un singolo. Se Padre Giovanni Puggioni quel giorno non mi avesse consolato a quest' ora non sarei qui a raccontarlo. Vorrei dire a tutti i giovani che in questo momento si trovano nel buio e soli, di avere pazienza, che tutto arriva prima o poi, anche la felicità. 













merita di essere vissuta perché il futuro ci riserva cose bellissime".

13.2.17

L’incredibile parabola di Luca Mechini: padre esponente del Pci, madre intellettuale nel 1989 la famiglia inizia un declino che le fa perdere tutto. Ma non la dignità





L’incredibile parabola di  Luca Mechini: padre esponente del Pci, madre intellettuale nel 1989 la famiglia inizia un declino che le fa perdere tutto. Ma non la dignità

 di Francesca Ferri






Luca Mechini, 58 anni

GROSSETO. Budapest, 4 novembre 1966. Una Peugeot sfreccia per le strade. Sul sedile posteriore un bambino italiano di 8 anni sta andando alla scuola francese accompagnato dal suo autista. «Luca, ci sono brutte notizie dalla tua Firenze. C’è stata un’alluvione», gli dice l’uomo.
Grosseto, 4 novembre 2016. Su una panchina del binario 1 della stazione un uomo cerca di prendere sonno, la schiena trafitta dalla seduta di metallo, la testa appoggiata a un fagotto con le sue cose. I treni gli passano accanto e si allontanano, e così i passeggeri, giornale sotto il braccio che titola: «Alluvione, il giorno del ricordo».
I ricordi, per Luca Mechini, 58 anni, hanno un prima e un dopo, segnato più o meno alla metà di questo cinquantennio: 9 novembre 1989. La sua storia è un groviglio con la Storia e con l’evento che ne ha cambiato le sorti nel secondo Novecento: la caduta del muro di Berlino. Per Luca ogni martellata, ogni pezzo di cemento frantumato è un pezzo che cade della sua agiata quotidianità fatta di relazioni internazionali, incontri con capi di Stato e artisti, viaggi in mezzo mondo, una mezza dozzina di lingue parlate, musica rock. Dietro la curva a gomito della Storia lo aspetta un’altra vita, fatta di ristrettezze economiche, notti in strada, dormitori per senzatetto. Ma accanto a sé, inseparabili amiche, la dignità e una cultura che inaspettata in quello che, incrociato alla stazione, chiameresti «barbone». Perché in fondo Luca un barbone non lo è.
Gli anni ’60 a Budapest. Luca è originario di una famiglia fiorentina benestante, conosciuta e apprezzata. Il padre, Rodolfo Mechini, dopo una rapida carriera in via delle Botteghe Oscure, nel 1964 diventa presidente della Federazione mondiale della Gioventù democratica, considerata l’erede della Gioventù Comunista Internazionale.


Una veduta di Budapest



La Federazione ha sede a Budapest ed è qui che nel 1964 la famiglia Mechini, Rodolfo, la moglie Fiorenza Orlandini, e il piccolo Luca, si trasferisce. La famiglia vive nell’agiatezza e in una rete di relazioni sociali di altissimo livello. «Non era una questione di soldi ma avevamo tutto, tutto ci era fornito dai governi», racconta in un italiano che durante l’intervista si rivelerà di una rara ricchezza lessicale, maglione chiaro, una rivista d’arte fra le mani, un borsone di vestiti appoggiato dietro. «Perché nell’armadietto del dormitorio tengo i libri», dice. Poi torna subito a 53 anni fa.
A tu per tu con la Storia. «Mio padre – racconta – era una figura di primo piano perché la Federazione era un’organizzazione molto importante all’epoca. Nella sua vita ha visitato 104 Paesi, ha incontrato personaggi come Ho Chi Minh in Vietnam. Era vicino ad Ahmed Ben Bella ad Algeri, dove siamo stati un anno fino al colpo di Stato che lo depose. Ovunque era ricevuto con tutti gli onori».
La carriera nel Pci. Finita l’esperienza ungherese, negli anni Settanta i Mechini sono a Roma. Rodolfo è collaboratore di Enrico Berlinguer e lavora gomito a gomito con Giorgio Napolitano. La madre edita “Ungheria oggi” del centro culturale Italia-Ungheria, associazione foraggiata dal Partito comunista, e organizza conferenze con studiosi di primissimo piano. Luca frequenta il liceo Chateaubriand «insieme ai figli di tanti attori, da Elsa Martinelli a Audrey Hepburn», dice.


Enrico Berlinguer



La Dolce vita a Punta Ala. Le vacanze i Mechini le passano a Punta Ala. La villa, costruita negli anni Settanta, era frequentata da amici: architetti, politici, artisti. Sono estati trascorse in barca, anni spensierati che proseguono per quasi tutto il decennio successivo. Rodolfo, lasciata la politica, diventa consulente per le grandi aziende che guardano a est. Luca si laurea in Storia contemporanea alla Sapienza e dal 1988 si occupa di rock alternativo e scrive per “L’osservatore di Arezzo”. Finché la Storia non ci mette lo zampino.
Il crollo del Muro di Berlino. La cesura ha una data precisa: 9 novembre 1989. «Una volta crollato il Muro di Berlino – ricorda Luca – furono interrotte le fonti di finanziamento dall’Ungheria. Il tesoriere del Pci, Marcello Stefanini, annunciò che tutti i centri culturali avrebbero dovuto chiudere». Intanto il padre di Luca vede scemare il lavoro. «Tutti i quadri del partito in Ungheria si erano riciclati in imprenditori – racconta Luca – e quindi le aziende si rivolgevano direttamente a loro. È stata questa la dinamica che ha portato alla fase calante».


I berlinesi sul Muro nell'inverno del 1989 (archivio Ansa)



I prestiti dalle banche. La famiglia cerca di andare avanti e resiste per cinque anni. «All’inizio il problema finanziario non lo si percepiva – spiega Luca – perché mio padre era ricorso massicciamente alle banche». I debiti, però, vanno ripianati. E a metà anni Novanta la situazione si fa drammatica. «Nel 1994 eravamo esposti per una cifra considerevole», dice Mechini. Decine e decine di migliaia di euro.
Una via d’uscita nell’arte. I Mechini stringono i denti e cercano di ripartire. Grazie alla conoscenza a Follonica del critico d’arte Maurizio Vanni, Luca apre una galleria d’arte a Roma e si mantiene con le mostre con l’aiuto della madre e dei suoi rapporti con politici e artisti di tutta Europa. È il 1995. Due anni dopo la casa di Firenze viene venduta per ripianare parte dei debiti con le banche. Ma non basta.


Una foto dei primi anni Settanta che ritrae la madre di Luca Mechini, Fiorenza (seconda da sinistra), con Giorgio De Chirico (terzo da destra), l'ambasciatore romeno e il padre di Luca, Rodolfo (primo da destra)



Verso il baratro. Mechini, che già dagli anni Ottanta prendeva piccoli prestiti da privati, comincia a chiedere cifre sempre più importanti che fatica a restituire per i tassi applicati. Quando nel 2007 il padre muore e la galleria viene chiusa, il fondo del baratro è lì, a un palmo di mano. Via via se ne vanno la casa di Firenze, venduta all’asta, poi lo stipendio, pignorato, poi arriva il pignoramento della villa di Punta Ala. È il 2009. Restituire i soldi presi in prestito diventa un’impresa impossibile. «La persona a cui mi ero rivolto ci telefonava in continuazione, veniva sotto casa. Fummo costretti a lasciare Roma e a trasferirci a Punta Ala», racconta.
L’accordo e la speranza infranta. Ma in qualche modo bisogna tenere duro. Luca stringe i denti e accetta di firmare una sorta di accordo con chi gli aveva prestato i soldi. La scorsa primavera le cose sembrano sistemarsi, ma è solo la quiete prima della tempesta. «Vendemmo la villa e dovevamo uscire di casa il 23 marzo 2016. Ma un paio di giorni prima mi fu detto che c’erano altre spese da pagare. A quel punto mi sono sentito male».
«Le hanno tolto la casa». Mentre la madre, 83 anni, non potendo stare da sola viene trasferita nella casa di riposo Ferrucci di Grosseto, Mechini viene ricoverato all’ospedale di Castel del Piano. Ed è qui che scopre di non avere più un tetto sulla testa: «Me lo disse una dottoressa. Mi disse che mi avevano tolto la casa», dice.
Prima notte al dormitorio. Viene dimesso il 31 marzo; nel referto c’è scritto che la sera si sarebbe dovuto presentare volontariamente al dormitorio di Grosseto. Prende un autobus, arriva in città, va subito a trovare la madre. Poi incontra gli operatori del Coeso che lo accompagnano al dormitorio. Spera nell’aiuto promesso da un pellegrino della Francigena ma questi sparisce. Si corica tra sconosciuti. Il suo mondo è definitivamente crollato.
«Una pensioncina». «Non volevo rimanere al dormitorio – dice –. Con gli ultimi soldi mi sono pagato qualche notte in albergo. Poi qualche soldo me lo hanno donato delle persone che conoscevo di Punta Ala. Ho trovato una pensioncina. Ma i soldi mi servivano anche per la benzina».
La prima notte in auto. Il 3 aprile Luca va al bancomat a ritirare contanti, ma la scheda gli viene risucchiata. «Non avevo più soldi per l’albergo – dice – . Finii a dormire in macchina, una Fiat Stilo, a Punta Ala davanti a un bar che conoscevo». Un periodo Mechini lo trascorre anche alla casa di riposo Ferrucci con la madre, ma a inizio luglio deve andarsene. E finisce di nuovo a dormire in auto. Intanto i servizi sociali si attivano per trovargli una casa in emergenza abitativa a Buriano «ma aveva dei problemi» dice Mechini. Che si ritrova di nuovo in auto. Questa è la sua “casa” per tutto il settembre 2016. «Stavo un po’ parcheggiato al Parco Giotto – racconta – e un po’ dietro al Ferrucci, così ero vicino a mia madre che andavo a trovare ogni giorno. Fino al 10 ottobre».
Dall’auto alla panchina. Quel giorno Luca vede arrivare due vigili urbani. «Evidentemente qualcuno li aveva chiamati. Avevo l’assicurazione scaduta e mi sequestrarono la macchina», dice. Un pausa. «A quel punto la vita si è rivelata molto difficile». Luca finisce in strada. Il ragazzino che andava a scuola con l’autista, che amava la musica, l’arte, che parlava francese, ungherese, arabo e una manciata di altre lingue, si ritrova sulla panchina del binario 1 della stazione di Grosseto. «Chiesi alla polizia se potevo stare lì. Mi dissero: “Nessun problema, non c’è bisogno di prenotare”», sorride. Una sera la panchina della stazione, una sera quella della fermata dell’autobus «svegliandomi alle 4 di notte congelato dal freddo». Un paio di notti nella sala d’attesa del pronto soccorso «ma poi mi fecero allontanare». È di nuovo fuori. Il giorno dalla madre, la notte nel gelo dell’inverno. «Paura? No, non c’è tempo – dice con una calma inaspettata –. Dovevo pensare a coricarmi, a stare tranquillo, a sperare che il freddo non avesse la meglio. È un disagio apicale, che non auguro al peggior nemico».
La carità degli sconosciuti. Luca però riceve anche la carità di tanti sconosciuti. «Un signore al parco Giotto mi ha dato 10 euro, una signora al pronto soccorso 10, un operatore sanitario 13, l’assistente sociale 50 più 50 più 10 più 3 euro», ricorda con una memoria impressionante. Che effetto gli fa ricevere l’elemosina? «Mia madre a Roma si fermava sempre a Fontana di Trevi a parlare con una barbona e una volta mi disse: falle il gesto di baciarle la mano», sorride tranquillo.
«Una mano ai rifugiati». Negli ultimi giorni Luca è tornato al dormitorio, dove oltre alla Caritas e al Coeso, ha conosciuto gli operatori della Ronda della carità e solidarietà di Grosseto. Forse c’è ancora la possibilità di entrare in un appartamento messo a disposizione da Comune e Coeso. E forse c’è la possibilità di dare qualcosa. «Ho chiesto di poter assistere i rifugiati francofoni africani – butta lì alla fine dell’intervista –. È per un interesse mio verso la situazione geopolitica dell’Africa. Sembrava cosa fatta ma aspetto ancora una risposta».

10.4.16

notti d'ospedale di © Matteo Tassinari

No

Di      notte il
dolore     è gonfio

di Matteo Tassinari
Alle due di notte fisso ancora il soffitto e ascolto i lamenti dei malati. Il mio amico di stanza dorme di un sonno stanco e gravoso da sopportare. Sono i principi attivi (cinque) che gli circolano nel sangue attraverso diverse sacche di flebo, da mattino a sera, che non l’aiutano e giustamente, si lamenta dal dolore.
                    La malattia è     il                     business  più   grande nella nostra  economia
Ma la notte abbonda la sua consistenza desolante con le sue freddezze e scheletriche immaginazioni. Tutto quel che ci circonda si dilata proprio quando un gemito si fa spazio fra i corridoi illuminati a neon spenti, gremendo spazi vuoti dove corrono le emergenze, perché è di notte che il tormento alza il volume dell'odissea. Non so quanto tempo passa che avverto l’amicizia del water. La prostata fa il suo lavoro, mentre impiego qualche minuto per arrivare ad espellere l’ultima goccia possibile d’urina dalla vescica.
Questi sono gli orgasmi rimasti in un periodo affannoso per quanto difficoltoso. Ma la notte in ospedale non scema affatto le sue mestizie, semmai le aggrava, le allarga fino ai ponti dell'acutizzazione di ogni singola particella corporea malata. Le rafforza, le ingrossa, le addiziona, le incrementa senza alcuna spiegazione se non futile o vacua. A volte penso: chissà come moriva la gente prima dell’invenzione di tante malattie. Mi accontento del pensiero di Louis Pasteur: "Noi beviamo, mangiamo o respiriamo il 90 per cento delle nostre malattie". 
Sono le tre!
quando parte imperturbabile il prurito su tutto il tessuto corporeo dovuto ad una forma di Vasculite a causa della riattivazione del sangue. Prendo la spazzola comprata in ferramenta dalle setole coriacee, per assicurarmi un deciso quarto d’ora di pace pur sapendo che un quarto d’ora dopo il prurito alienante tornerà. Il sangue, come saprete, va dovunque. Gli piace così, girare a zonzo. Solo che grattarsi al centro della schiena, bisogna essere artisti autentici e io ci riesco perché ho le braccia lunghe e la schiena pure. La stamina viaggia dappertutto alla stessa velocità di una qualsiasi connessione Internet senza intoppi. È la vita. A volte credi che due occhi ti guardino e invece non ti vedono neanche. A volte credi d'aver trovato qualcuno che cercavi e invece non hai trovato nessuno. Succede. E se non succede, è un miracolo. Ma i miracoli non durano. L’uomo può essere il capitano del suo destino, ma anche vittima della sua glicemia.
Crema Nivea a volontà
Gratto. Gratto. Gratto, mi accorgo però che quel che gratto non è più prurito, ma è diventato bruciore. Basta. Appoggio la spazzola sul comodino, altrimenti va a finire che vedo il sangue. Con una spugna passo sul corpo acqua fisiologica cercando di lenire le parti più lese per poi darmi un poco di Nivea. Del resto, il rapporto che ho con le creme, da il senso di accedere alla solitudine mentre una malattia immaginaria trovo che sia peggiore di una vera malattia. Continuando nei meandri della mia mente arrivo a pensare che ci sia tanta salute nella malattia. Si, proprio così, com'è vero che non il medico, ma un altro malato capisce la sofferenza di un malato.
Gli antistaminici sono acqua 
fresca. Solo il Cortisone metterebbe a tacer tutto, ma a causa di effetti collaterali talmente insopportabili che preferisco tenermi il prurito rinunciando al Cortisone e i suoi fuochi d’artificio. Passa il tempo. Non so quanto, intanto la scienza si consulta mentre il paziente può solo sopportare. Fu per questo che Sigmund Freud una volta disse: "Non si muore perché ci si ammala, ma ci si ammala perché fondamentalmente bisogna morire"? Nulla di originale...
Un po’ dormo, un po’ no,
nel mezzo mangio un’arancia. Sono le quattro di notte e penso a Bowie e capisco ancora più profondamente che una generazione, con lui, se n’è andata davvero. Penso a Gesù, l’unica risposta a tanta tribolazione. Pensieri anarchici, forse bakuniani, contestatori, ribelli e sovversivi, che sfiorano le meningi a 38 di febbre. Dormo un’oretta forse più.
La    sapienza
dei    malati
Sono le cinque e mi aspetto da un momento all’altro le luci del mattino e penso che tra un’ora, decisa, entrerà un’infermiera a prelevare un po’ di sangue da me e dal mio amico, per vedere a che punto stanno i cd4 e la Viremia, e penso che gran parte di quello che i medici sanno è insegnato loro dai malati, consapevole del fatto che il miglior medico è colui che con più abilità sa infondere la speranza. Diceva Jannacci, medico pure lui: "da medico ragiono esattamente così, la vita è sempre importante, non soltanto quando è attraente ed emozionante, ma anche se si presenta inerme e indifesa". Come ho sempre pensato che ogni medico dovrebbe essere ricco di conoscenze e non soltanto di quelle che sono contenute nei libri, ma i suoi pazienti dovrebbero essere i suoi libri. In buona sostanza, la malattia è un conflitto tra la personalità di entrambi e l’anima.
          Mi metterà
la “Farfalla” 
Mi metterà la “Farfalla” (un ago che s’infila nel braccio) per non forare troppe volte la pelle e avere una via d’accesso costantemente pronta per gli aghi da dove passa tutta la chimica. E’ un condotto che mi porto attaccato alla perfezione al braccio per quattro o cinque giorni, per poi cambiarlo affinché non infetti la vena in questione. Che invenzione fantastica la “Farfalla”. Se non ci fosse saremmo pieni di flebiti, noi uomini spaventati. E quasi l’alba e l’infermiera di turno sta per iniziare il suo pellegrinaggio lungo la corsia. Eccola. Prima di vederla, vedo la luce al neon dell’anticamera, affinché troppa illuminazione non ci crei fastidio per noi esseri dormienti e stanchi di mille tempeste dove si sono persi senza domande. 
Buona notte a tutti
BUONGIORNO! E’ il caloroso saluto della nostra amica infermiera, la risposta è un po’ più sonnolenta. Si sente appena ed è assai impasticciata quanto mescolata a chissà quali sogni. E’ partita la giornata di un reparto per persone con malattie infettive e anche di più. La giornata passa, ritorna la notte, la storia e circa simile a quella precedente. Buona notte, ricomincia il calvario. 


emergenza femminicidi non basta una legge che aumenti le pene ma serve una campaga educativa altrimenti è come svuotare il mare con un secchiello

Apro l'email  e tovo  queste  "lettere "   di  alcuni haters  \odiatori  ,  tralasciando  gli  insulti  e le  solite  litanie ...