L’incredibile parabola di Luca Mechini: padre esponente del Pci, madre intellettuale nel 1989 la famiglia inizia un declino che le fa perdere tutto. Ma non la dignità





L’incredibile parabola di  Luca Mechini: padre esponente del Pci, madre intellettuale nel 1989 la famiglia inizia un declino che le fa perdere tutto. Ma non la dignità

 di Francesca Ferri






Luca Mechini, 58 anni

GROSSETO. Budapest, 4 novembre 1966. Una Peugeot sfreccia per le strade. Sul sedile posteriore un bambino italiano di 8 anni sta andando alla scuola francese accompagnato dal suo autista. «Luca, ci sono brutte notizie dalla tua Firenze. C’è stata un’alluvione», gli dice l’uomo.
Grosseto, 4 novembre 2016. Su una panchina del binario 1 della stazione un uomo cerca di prendere sonno, la schiena trafitta dalla seduta di metallo, la testa appoggiata a un fagotto con le sue cose. I treni gli passano accanto e si allontanano, e così i passeggeri, giornale sotto il braccio che titola: «Alluvione, il giorno del ricordo».
I ricordi, per Luca Mechini, 58 anni, hanno un prima e un dopo, segnato più o meno alla metà di questo cinquantennio: 9 novembre 1989. La sua storia è un groviglio con la Storia e con l’evento che ne ha cambiato le sorti nel secondo Novecento: la caduta del muro di Berlino. Per Luca ogni martellata, ogni pezzo di cemento frantumato è un pezzo che cade della sua agiata quotidianità fatta di relazioni internazionali, incontri con capi di Stato e artisti, viaggi in mezzo mondo, una mezza dozzina di lingue parlate, musica rock. Dietro la curva a gomito della Storia lo aspetta un’altra vita, fatta di ristrettezze economiche, notti in strada, dormitori per senzatetto. Ma accanto a sé, inseparabili amiche, la dignità e una cultura che inaspettata in quello che, incrociato alla stazione, chiameresti «barbone». Perché in fondo Luca un barbone non lo è.
Gli anni ’60 a Budapest. Luca è originario di una famiglia fiorentina benestante, conosciuta e apprezzata. Il padre, Rodolfo Mechini, dopo una rapida carriera in via delle Botteghe Oscure, nel 1964 diventa presidente della Federazione mondiale della Gioventù democratica, considerata l’erede della Gioventù Comunista Internazionale.


Una veduta di Budapest



La Federazione ha sede a Budapest ed è qui che nel 1964 la famiglia Mechini, Rodolfo, la moglie Fiorenza Orlandini, e il piccolo Luca, si trasferisce. La famiglia vive nell’agiatezza e in una rete di relazioni sociali di altissimo livello. «Non era una questione di soldi ma avevamo tutto, tutto ci era fornito dai governi», racconta in un italiano che durante l’intervista si rivelerà di una rara ricchezza lessicale, maglione chiaro, una rivista d’arte fra le mani, un borsone di vestiti appoggiato dietro. «Perché nell’armadietto del dormitorio tengo i libri», dice. Poi torna subito a 53 anni fa.
A tu per tu con la Storia. «Mio padre – racconta – era una figura di primo piano perché la Federazione era un’organizzazione molto importante all’epoca. Nella sua vita ha visitato 104 Paesi, ha incontrato personaggi come Ho Chi Minh in Vietnam. Era vicino ad Ahmed Ben Bella ad Algeri, dove siamo stati un anno fino al colpo di Stato che lo depose. Ovunque era ricevuto con tutti gli onori».
La carriera nel Pci. Finita l’esperienza ungherese, negli anni Settanta i Mechini sono a Roma. Rodolfo è collaboratore di Enrico Berlinguer e lavora gomito a gomito con Giorgio Napolitano. La madre edita “Ungheria oggi” del centro culturale Italia-Ungheria, associazione foraggiata dal Partito comunista, e organizza conferenze con studiosi di primissimo piano. Luca frequenta il liceo Chateaubriand «insieme ai figli di tanti attori, da Elsa Martinelli a Audrey Hepburn», dice.


Enrico Berlinguer



La Dolce vita a Punta Ala. Le vacanze i Mechini le passano a Punta Ala. La villa, costruita negli anni Settanta, era frequentata da amici: architetti, politici, artisti. Sono estati trascorse in barca, anni spensierati che proseguono per quasi tutto il decennio successivo. Rodolfo, lasciata la politica, diventa consulente per le grandi aziende che guardano a est. Luca si laurea in Storia contemporanea alla Sapienza e dal 1988 si occupa di rock alternativo e scrive per “L’osservatore di Arezzo”. Finché la Storia non ci mette lo zampino.
Il crollo del Muro di Berlino. La cesura ha una data precisa: 9 novembre 1989. «Una volta crollato il Muro di Berlino – ricorda Luca – furono interrotte le fonti di finanziamento dall’Ungheria. Il tesoriere del Pci, Marcello Stefanini, annunciò che tutti i centri culturali avrebbero dovuto chiudere». Intanto il padre di Luca vede scemare il lavoro. «Tutti i quadri del partito in Ungheria si erano riciclati in imprenditori – racconta Luca – e quindi le aziende si rivolgevano direttamente a loro. È stata questa la dinamica che ha portato alla fase calante».


I berlinesi sul Muro nell'inverno del 1989 (archivio Ansa)



I prestiti dalle banche. La famiglia cerca di andare avanti e resiste per cinque anni. «All’inizio il problema finanziario non lo si percepiva – spiega Luca – perché mio padre era ricorso massicciamente alle banche». I debiti, però, vanno ripianati. E a metà anni Novanta la situazione si fa drammatica. «Nel 1994 eravamo esposti per una cifra considerevole», dice Mechini. Decine e decine di migliaia di euro.
Una via d’uscita nell’arte. I Mechini stringono i denti e cercano di ripartire. Grazie alla conoscenza a Follonica del critico d’arte Maurizio Vanni, Luca apre una galleria d’arte a Roma e si mantiene con le mostre con l’aiuto della madre e dei suoi rapporti con politici e artisti di tutta Europa. È il 1995. Due anni dopo la casa di Firenze viene venduta per ripianare parte dei debiti con le banche. Ma non basta.


Una foto dei primi anni Settanta che ritrae la madre di Luca Mechini, Fiorenza (seconda da sinistra), con Giorgio De Chirico (terzo da destra), l'ambasciatore romeno e il padre di Luca, Rodolfo (primo da destra)



Verso il baratro. Mechini, che già dagli anni Ottanta prendeva piccoli prestiti da privati, comincia a chiedere cifre sempre più importanti che fatica a restituire per i tassi applicati. Quando nel 2007 il padre muore e la galleria viene chiusa, il fondo del baratro è lì, a un palmo di mano. Via via se ne vanno la casa di Firenze, venduta all’asta, poi lo stipendio, pignorato, poi arriva il pignoramento della villa di Punta Ala. È il 2009. Restituire i soldi presi in prestito diventa un’impresa impossibile. «La persona a cui mi ero rivolto ci telefonava in continuazione, veniva sotto casa. Fummo costretti a lasciare Roma e a trasferirci a Punta Ala», racconta.
L’accordo e la speranza infranta. Ma in qualche modo bisogna tenere duro. Luca stringe i denti e accetta di firmare una sorta di accordo con chi gli aveva prestato i soldi. La scorsa primavera le cose sembrano sistemarsi, ma è solo la quiete prima della tempesta. «Vendemmo la villa e dovevamo uscire di casa il 23 marzo 2016. Ma un paio di giorni prima mi fu detto che c’erano altre spese da pagare. A quel punto mi sono sentito male».
«Le hanno tolto la casa». Mentre la madre, 83 anni, non potendo stare da sola viene trasferita nella casa di riposo Ferrucci di Grosseto, Mechini viene ricoverato all’ospedale di Castel del Piano. Ed è qui che scopre di non avere più un tetto sulla testa: «Me lo disse una dottoressa. Mi disse che mi avevano tolto la casa», dice.
Prima notte al dormitorio. Viene dimesso il 31 marzo; nel referto c’è scritto che la sera si sarebbe dovuto presentare volontariamente al dormitorio di Grosseto. Prende un autobus, arriva in città, va subito a trovare la madre. Poi incontra gli operatori del Coeso che lo accompagnano al dormitorio. Spera nell’aiuto promesso da un pellegrino della Francigena ma questi sparisce. Si corica tra sconosciuti. Il suo mondo è definitivamente crollato.
«Una pensioncina». «Non volevo rimanere al dormitorio – dice –. Con gli ultimi soldi mi sono pagato qualche notte in albergo. Poi qualche soldo me lo hanno donato delle persone che conoscevo di Punta Ala. Ho trovato una pensioncina. Ma i soldi mi servivano anche per la benzina».
La prima notte in auto. Il 3 aprile Luca va al bancomat a ritirare contanti, ma la scheda gli viene risucchiata. «Non avevo più soldi per l’albergo – dice – . Finii a dormire in macchina, una Fiat Stilo, a Punta Ala davanti a un bar che conoscevo». Un periodo Mechini lo trascorre anche alla casa di riposo Ferrucci con la madre, ma a inizio luglio deve andarsene. E finisce di nuovo a dormire in auto. Intanto i servizi sociali si attivano per trovargli una casa in emergenza abitativa a Buriano «ma aveva dei problemi» dice Mechini. Che si ritrova di nuovo in auto. Questa è la sua “casa” per tutto il settembre 2016. «Stavo un po’ parcheggiato al Parco Giotto – racconta – e un po’ dietro al Ferrucci, così ero vicino a mia madre che andavo a trovare ogni giorno. Fino al 10 ottobre».
Dall’auto alla panchina. Quel giorno Luca vede arrivare due vigili urbani. «Evidentemente qualcuno li aveva chiamati. Avevo l’assicurazione scaduta e mi sequestrarono la macchina», dice. Un pausa. «A quel punto la vita si è rivelata molto difficile». Luca finisce in strada. Il ragazzino che andava a scuola con l’autista, che amava la musica, l’arte, che parlava francese, ungherese, arabo e una manciata di altre lingue, si ritrova sulla panchina del binario 1 della stazione di Grosseto. «Chiesi alla polizia se potevo stare lì. Mi dissero: “Nessun problema, non c’è bisogno di prenotare”», sorride. Una sera la panchina della stazione, una sera quella della fermata dell’autobus «svegliandomi alle 4 di notte congelato dal freddo». Un paio di notti nella sala d’attesa del pronto soccorso «ma poi mi fecero allontanare». È di nuovo fuori. Il giorno dalla madre, la notte nel gelo dell’inverno. «Paura? No, non c’è tempo – dice con una calma inaspettata –. Dovevo pensare a coricarmi, a stare tranquillo, a sperare che il freddo non avesse la meglio. È un disagio apicale, che non auguro al peggior nemico».
La carità degli sconosciuti. Luca però riceve anche la carità di tanti sconosciuti. «Un signore al parco Giotto mi ha dato 10 euro, una signora al pronto soccorso 10, un operatore sanitario 13, l’assistente sociale 50 più 50 più 10 più 3 euro», ricorda con una memoria impressionante. Che effetto gli fa ricevere l’elemosina? «Mia madre a Roma si fermava sempre a Fontana di Trevi a parlare con una barbona e una volta mi disse: falle il gesto di baciarle la mano», sorride tranquillo.
«Una mano ai rifugiati». Negli ultimi giorni Luca è tornato al dormitorio, dove oltre alla Caritas e al Coeso, ha conosciuto gli operatori della Ronda della carità e solidarietà di Grosseto. Forse c’è ancora la possibilità di entrare in un appartamento messo a disposizione da Comune e Coeso. E forse c’è la possibilità di dare qualcosa. «Ho chiesto di poter assistere i rifugiati francofoni africani – butta lì alla fine dell’intervista –. È per un interesse mio verso la situazione geopolitica dell’Africa. Sembrava cosa fatta ma aspetto ancora una risposta».

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