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31.1.24

Un bebè al posto dei gemelli: la coppia chiede alla madre surrogata l'aborto ma poi ipocritamente cambia idea quando lei lo mette al mondo e lo vuole crescere da sola



Questà è la storia presa   dall'
avvenire del 30 gennaio 2024   di una mamma in affitto americana che si rifiuta di sopprimere il "prodotto non desiderato", salvandogli la vita. E dando una lezione a chi pensava fosse solo un oggetto da comprare.
Non riesco   ad esimermi  da definire   tali persone gentaglia    che   con  quale  coraggio  si definiscono  cattolici   e  poi   non solo  comprano   i bambini  ma se  il  prodotto non va bene  si lamentano ed   protestano obbligando  la persona  che hanno  sfruttato  a  sottomettersi  al  loro volere  per  poi  vista  la fiuguraccia pentirsene  



                                     Francesco Ognibene


Volevano due gemelli, ma nel suo grembo di bambini ce n’era solo uno. E i “genitori committenti”, insoddisfatti della differenza tra ordinazione e prodotto finito, le hanno chiesto di abortire. È una storia drammatica ma a (parziale) lieto fine quella di “Heathyr”, nome scelto da una giovane americana per offrirsi su TikTok come madre surrogata, in tasca il contratto con un’agenzia specializzata.




I fatti risalgono al 2020 ma la donna – single e già madre di una figlia sua – ha deciso solo ora di raccontarli sempre su TikTok, una vicenda che sta suscitando l’interesse dei media americani. Contraria all’aborto, Heathyr ha chiesto all’agenzia di poter essere abbinata a una coppia che condividesse questa sua convinzione, e tra non poche difficoltà – la disponibilità ad abortire il bambino eventualmente malformato è una delle caratteristiche-base dei contratti di surrogazione – è stato sottoscritto un contratto con due aspiranti genitori tramite utero in affitto che si sono detti cattolici e che avevano espresso il profondo desiderio di poter avere dalla mamma surrogata due gemelli.
Heathyr è rimasta incinta nel febbraio 2020 dopo l’impianto degli embrioni ma la prima ecografia ha mostrato che nel suo grembo era sopravvissuto un solo bambino. Sano, ma uno solo. Da quel momento sono iniziati i suoi guai: i “genitori di intenzione” infatti hanno manifestato tutta la loro contrarietà a poter avere un solo figlio anziché i due garantiti dall’agenzia e hanno comunicato ai mediatori il desiderio che la donna abortisse. E alla conferma con una seconda ecografia che il bambino in arrivo era uno solo hanno scritto a Heathyr che «sarebbe meglio che ti sottoponessi a un’interruzione di gravidanza, ci riproveremo», come ha raccontato la donna in un video. I legali dell’agenzia le hanno tolto qualunque illusione: se si fosse rifiutata di abortire non avrebbe violato il contratto ma i committenti non l’avrebbero pagata. Dunque, togliere di mezzo il figlio non voluto da chi l'aveva ordinato e che lei certo non era in grado di tenere. Un vicolo cieco, con la vita del bambino appesa a un filo. Non fosse che in tutta la storia c'era chi lo aveva a cuore: la mamma in affitto.
Heathyr non voleva saperne di abortire: si tenessero pure i loro soldi, e poi ssi vedrà come mantenerlo. Ed è stato a quel punto che la coppia ha iniziato un pressing sulla donna tempestando di email sempre più ostili e minacciose l’agenzia, imbarazzata. Per essere più persuasivo, l’aspirante padre insisteva che in quel periodo – le settimane più drammatiche della pandemia – il pericolo di contrarre il Covid era troppo elevato, che avrebbe esposto il bambino a rischi eccessivi, e che insomma, si decidesse ad abortire. Niente da fare: sebbene surrogata, la giovane si sentiva più madre che mai, custode della vita del piccolo che portava in grembo.
L’epilogo della storia, giunti a questo punto, è facilmente immaginabile, ma non tutto è andato come si potrebbe pensare (e sperare): il lieto fine infatti non è stato che Heathyr ha deciso di tenersi il bambino ma che, avendolo fatto nascere contro tutto e tutti, con la sua tenace difesa di quella vita così fragile e sballottata come una merce ha finito per sciogliere il cuore della coppia. Che è tornata da lei in lacrime chiedendole perdono con il desiderio di poter abbracciare quel bambino di cui aveva iniziato, grazie a lei, a capire la preziosità.
Il mercato americano della surrogata garantisce la coppia committente, che pagando alimenta tutto il settore, e anche la madre surrogata, ma solo a condizione che stia ai patti sottoscritti nel contratto. L’unico a non godere di alcun diritto è il bambino, un fatto paradossale se si considera che è lui l’oggetto (è il caso di dirlo) del desiderio, a tal punto bramato da essere al centro di una transazione economica con regole ferree. Ma lui, come creatura umana, è il primo sacrificabile se non corrisponde alle aspettative. Ci voleva la determinazione della madre surrogata – che pure non ha potuto tenerlo – a ricordare al mondo che la sua vita viene prima di tutto.

11.5.23

la storia siamo noi nel bene o nel male con e vittorie e le sconfitte


 Dopo aver sentito la canzone la storia di Francesco de Gregori  sia questo video di Baebero 


Non ricordo come cercando qualcosa che confermasse o smentisse quello che affermarono sia il primo che il secondo mi e venuta in mente la vicenda del tenente colonnello Harald Jäger (  foto  a destra  =)  disobbedì agli ordini e aprì il passaggio fra Berlino est e Berlino ovest più valico di frontiera del Bornholmer Straße il 9 novembre 1989 Nato nel 1943, figlio di un poliziotto di frontiera, ad appena diciotto anni Harald Jäger si unisce come volontario alla Deutsche Grenzpolizei, la formazione
paramilitare deputata nella DDR( ex Germania Ovest ) al controllo delle zone di confine – nel 1961, proprio quando viene eretto il Muro di Berlino. Tre anni dopo entra nella Stasi, e inizia a fare carriera nella PKE, la Passkontrolleinheit (l’unità per il controllo dei passaporti), fino a raggiungere il grado di Oberstleutnant, che grossomodo corrisponde al nostro tenente colonnello. È un militare, dunque, ma il suo sarà più che altro un lavoro da scrivania. .....Per 25 anni presta servizio al controllo dei passaporti in una delle zone di transito fra Berlino Est e Berlino Ovest, quella nei pressi della Bornholmer Strasse. Situato nel nord della città, fra i quartieri di Prenzlauer Berg (a Est) e Wedding (a Ovest), è un tratto di frontiera non semplice da gestire ..... il resto lo trovate qui in : << L’uomo dei passaporti, storia dell’impiegato che aprì il muro di Berlino >>  del sito Linkiesta.it >>.  
Credevo  fosse     un  caso isolato   perché    per  i militari  o  uomini   delle   istituzioni    i comandi e l'obbedienza agli ordini sono due ingredienti importanti per il successo militare  o  per la  sopravvivenza  delle  dittature  e dei governi  . Ma  poi  leggendo   le  storie    sotto riportate       riprese   dall'articolo   << Hanno ignorato gli ordini e così hanno cambiato la storia ! >> di (starsinsider.com) indipendentemente dal periodo o dalla cultura, la storia militare  (ma non solo  ) è piena di persone che hanno disobbedito agli ordini . I motivi per cui lo hanno fatto sono vari.   Molti hanno rifiutato comandi con cui erano profondamente  in disaccordo. Altri legheranno  tale gesto alla gloria personale altri al disonore . Alcuni   ricordati  e premiati   anche a posteriori . Altri come il primo caso dimenticato o sminuiti . Alcuni  vittoriosi   altri  sconfitti   Ma hanno pur sempre fatto la storia o contributo ad essa. 

L'uomo che ha ignorato un allarme missilistico 





Nel 1983, l'ufficiale sovietico Stanislav Petrov era di stanza nel bunker Serpukhov-15 vicino a Mosca, parte delle forze di difesa aerea sovietiche. Un giorno, il sistema di allarme rapido ha rilevato quello che sembrava essere un missile balistico intercontinentale americano in arrivo.Petrov e il suo staff hanno deciso che si trattava di un falso allarme e un'indagine successiva ha mostrato che il sistema era stato attivato dal sole che si rifletteva sulle nuvole. Rifiutando di lanciare un attacco, Petrov ha potenzialmente evitato centinaia di migliaia di morti.


L'uomo che ha impedito l'escalation della crisi dei missili cubani -



Durante la crisi dei missili cubani del 1962, gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica evitarono per poco una guerra nucleare che avrebbe devastato il pianeta. Ma anche se i negoziati tra il presidente John F. Kennedy e il premier Nikita Khrushchev avessero avuto successo, la guerra sarebbe quasi sicuramente scoppiata a causa di un capitano di un sottomarino sovietico. Dotato di un missile nucleare, il sottomarino sovietico B-59 era di stanza nei Caraibi, insieme ad altri tre. Quando la Marina americana

scoprì i sottomarini, iniziarono a sganciare bombe di profondità nelle vicinanze. Con l'ordine di attaccare le forze americane se provocato, il comandante del B-59, Valentin Savitsky, pensò che la guerra fosse iniziata e ordinò il lancio del missile. Fortunatamente a bordo c'era anche il comandante della flotta Vasili Arkhipov, che ha pensato che gli americani stavano solo cercando di far emergere il sottomarino. Ha così convinto Savitsky e ha evitato la guerra nucleare.







Il generale nazista che si rifiutò di bruciare Parigi

Nel 1944, quando le forze alleate invasero con successo la Francia settentrionale durante lo sbarco in
Normandia, Adolf Hitler ordinò alle forze locali di bruciare gran parte di Parigi per evitare che cadesse nelle mani del nemico.Il comandante della prima armata tedesca, il generale Dietrich von Choltitz, si rifiutò di obbedire. Ha affermato nelle sue memorie che sentiva che gli ordini non avevano valore militare e che Hitler era malato di mente. Tuttavia, alcuni osservatori francesi hanno sostenuto che a Choltitz mancavano semplicemente le truppe per eseguire gli ordini. Qui si vede Choltitz firmare la resa delle truppe naziste dopo la liberazione della capitale francese.


L'uomo che ha ignorato il suo comandante 





Durante la seconda guerra mondiale, il tenente Tom Derrick era uno dei soldati più amati d'Australia. È meglio conosciuto per i suoi successi durante la battaglia di Sattelberg in Nuova Guinea nel 1943. Dopo una settimana di combattimenti, l'ufficiale in comando di Derrick ordinò una ritirata.Derrick avanzò da solo tra le postazioni di mitragliatrici giapponesi, mentre era sotto il fuoco di copertura dei suoi compagni di squadra. Ha ripulito 10 posizioni nemiche, aiutando la sua unità a raggiungere il loro obiettivo. Derrick ricevette la Victoria Cross per i suoi sforzi, ma morì per le ferite riportate nella battaglia di Tarakan nel 1942.



Il caporale dell'esercito che ha rifiutato di portare un'arma -

Il caporale Desmond Doss ha rifiutato di uccidere i soldati nemici o di portare un'arma in combattimento a causa delle sue convinzioni personali legate al culto della chiesa cristiana avventista
del settimo giorno. Di conseguenza divenne un medico da combattimento per la 77esima fanteria. Tuttavia, Doss si guadagnò comunque il rispetto dei commilitoni quando fu mandato a combattere. Dopo aver salvato 75 soldati feriti nella battaglia di Okinawa, ha guadagnato una medaglia d'onore. 




Il nazista che si rifiutò di distruggere le infrastrutture civili della Germania -


Nel marzo 1945, gli alleati catturarono l'ultimo ponte sul fiume Reno che consentiva l'accesso alla Germania. Hitler emise quindi un ordine per spazzare via tutta l'industria e le infrastrutture della Germania, (il cosiddetto Decreto Nerone), per evitare che cadessero sotto il controllo alleato.l compito ricadde sul ministro degli armamenti tedesco e amico di Hitler, Albert Speer. Tuttavia, Speer riteneva che l'ordine avrebbe avuto un effetto rovinoso sul popolo tedesco. Come von Choltitz, anche Speer sospettava che il suo capo fosse mentalmente instabile. Speer alla fine emise l'ordine, insieme però a ordini alternativi crittografati per ritardare la distruzione. Alla fine, il Decreto Nerone non andò a buon fine.



Il comandante di artiglieria che si rifiutò di sparare ai suoi stessi uomini 

Il 7 marzo 1915, al 336° reggimento di fanteria francese fu ordinato di attaccare le posizioni delle mitragliatrici tedesche. Gli attacchi andarono avanti per due giorni e quando il comandante di divisione, il generale Géraud Réveilhac, ordinò un'altra carica, la 21a compagnia rifiutò.
Furioso, Réveilhac ordinò al suo comandante di artiglieria, il colonnello Raoul Berube, di sparare sulle sue stesse truppe. Anche Berube si rifiutò. Giorni dopo, quando quattro caporali non furono in grado di attraversare un pezzo di terra di nessuno, tornarono indietro e Réveilhac ordinò che fossero giustiziati. L'incidente divenne noto come l'affare dei caporali Souain.
Réveilhac rimase al comando del reggimento fino al febbraio 1916, quando gli fu ordinato di prendere un congedo di tre mesi. Successivamente ha ricevuto il titolo di Grande Ufficiale della Legion d'Onore.








I soldati indiani che si rifiutavano di usare cartucce unte con grasso di maiale e di manzo -


Nel 1857, gli inglesi avevano controllato l'India con un regime repressivo per circa un secolo. Tuttavia, le tensioni erano finalmente arrivate al punto che i leader politici indiani stavano pianificando una
rivolta.
Gli eventi si inasprirono quando i fucili inglesi Enfield usarono cartucce unte con una miscela di grasso di mucca e maiale. Per caricare i fucili, i soldati musulmani e indù dovevano strappare con i denti la carta che avvolgeva le cartucce. Per motivi religiosi, si sono rifiutati di aprire le cartucce.
Le truppe furono giudicate colpevoli di insubordinazione in una corte marziale, che scatenò l'ammutinamento indiano. Gli inglesi alla fine li sconfissero e presero il controllo diretto dell'India fino al 1947.


Il generale che ha spostato 10.000 uomini fuori posizione -


Il generale Daniel Sickles era un politico con l'ambizione di diventare presidente. Tuttavia, i suoi sogni sono stati effettivamente rovinati quando ha ucciso l'amante di sua moglie. Quando scoppiò la guerra civile americana nel 1861, Sickles creò una brigata con sé stesso come comandante, sperando di migliorare la sua reputazione.La carriera militare di Sickles terminò nella battaglia di Gettysburg nel luglio 1863, dopo aver spostato il suo III Corpo senza ordini in un'altra posizione. Subirono il 40% di vittime, ma hanno comunque rallentato il generale confederato James Longstreet.Lo stesso Sickles fu ferito da colpi di cannone e dovette farsi amputare una gamba. Alla fine è stato insignito della medaglia d'onore per le sue azioni.










Il tenente che ha sfidato l'ordine di ritirarsi 



Nel 1951, l'esercito cinese lanciò l'offensiva di primavera contro le forze americane durante la guerra di Corea, inviando 300.000 truppe per attaccarle. Sopraffatta, un'unità americana dell'8a compagnia Ranger fu catturata prima dell'avanzata. Il suo comandante, EC Rivera, chiese aiuto via radio, ma le forze rimanenti decisero di ritirarsi.
Rivera e i suoi 65 uomini sarebbero stati condannati se non fosse stato per il tenente David Teich. Disobbedendo al suo capitano, Teich inviò quattro carri armati a Rivera e recuperò l'unità bloccata.

Fonti: (Ranker) (BBC) (HistoryNet)



Crisi imperiale 



L'ammutinamento del Reno del 14 d.C. minacciò la stabilità dell'intero Impero Romano. Alla fine del regno di Augusto, l'esercito romano aveva dedicato gran parte delle sue forze a reprimere una rivolta in Illyricum, situata negli odierni Balcani. Ciò ha contribuito a far precipitare la distruzione di tre legioni vulnerabili nella foresta di Teutoburgo in Germania.
L'ammutinamento del Reno del 14 d.C. minacciò la stabilità dell'intero Impero Romano. Alla fine del regno di Augusto, l'esercito romano aveva dedicato gran parte delle sue forze a reprimere una rivolta in Illyricum, situata negli odierni Balcani. Ciò ha contribuito a far precipitare la distruzione di tre legioni vulnerabili nella foresta di Teutoburgo in Germania.La rivolta è iniziata quando i soldati hanno iniziato a uccidere i loro comandanti. Il compito di fermarla toccò a Germanico, figlio del nuovo imperatore Tiberio. Dopo molta resistenza, la ribellione scoppiò e i comandanti furono giustiziati. Germanico guidò quindi i soldati un tempo ribelli in una spedizione di successo  attraverso il Reno, che dimostrò la loro lealtà.






Quindi la storia Siamo noi e le nostre azioni  

24.6.21

La battaglia di un ragazzo per vaccinarsi "A 17 anni scelgo da solo per questo mi ribello a mamma e papà no vax"e si rivolge ad un avocato


Quella    riportata  sotto da  repubblica    d'ieri  e  confermata     da questo  editoriale   su    repubblica    d'oggi     di Concita  De  Gregorio   È una grande storia, quella dei due ragazzi minorenni figli di no vax che vogliono essere vaccinati.

È una grande storia, quella dei due ragazzi minorenni figli di no vax che vogliono essere vaccinati.
Ne conosciamo due, ma chissà quanti sono in Italia. Un dissenso che incrocia diritti, responsabilità, libertà, educazione, norme e aspirazioni. I genitori non vogliono vaccinarsi, per ragioni che da adulti sanno senz’altro difendere anche con veemenza, e non vogliono
che i figli minorenni lo facciano: «Fino a diciott’anni fai come dico io», ci siamo tutti sentiti ripetere in modo più o meno garbato, chiaro anche quando non detto.
Dai giornali si sa che i ragazzi, entrambi toscani, si sono rivolti a un avvocato.
Gianni Baldini, dell’Associazione avvocati matrimonialisti e per la tutela dei minori.
Baldini dice che non è facile: non esiste in Italia una figura di “avvocato dei minori” come in altre nazioni europee, che possa dirimere contrasti senza far intervenire il giudice. Quello che lui può fare è parlare coi genitori. Difficile immaginare che due convinti no vax si lascino persuadere, ma non si può mai dire. I ragazzi possono in alternativa rivolgersi al Garante per l’infanzia e l’adolescenza o ai servizi sociali, e arrivare per quella via a una decisione del giudice.
A parte che l’urgenza di vaccinarsi non è compatibile con un iter del genere (diventerebbero nel frattempo maggiorenni, risolta così la questione) come chiunque capisce il livello di conflitto domestico che si accende se ti rivolgi ai servizi sociali contro la tua famiglia può essere insopportabile per un ragazzino che in quella famiglia e in quella casa vive. Ha detto uno dei due: «Gli adulti sono liberi di fare ciò che vogliono ma devono lasciare liberi anche gli altri, figli compresi». Davvero un grande tema.
  Infatti    repubblica  del  23\6\2021

La battaglia di un ragazzo per vaccinarsi
"A 17 anni scelgo da solo per questo mi ribello a mamma e papà no vax"

 FIRENZE — «Alla mia età sono libero di sballarmi in discoteca ma non di avere voce in capitolo su questioni come la mia salute. È assurdo che io non possa partecipare a una decisione tanto importante. Alla fine quando sei un ragazzo l’ultima parola è dei genitori anche se tu non sei d’accordo». Matteo (nome di fantasia), 17enne fiorentino che non potrà vaccinarsi contro il Covid perché i suoi genitori non sono d’accordo, si sfoga con Repubblica.

 

Abbiamo parlato con lui su WhatsApp tramite Gianni Baldini, presidente della sezione di Firenze dell’ Ami (Associazione avvocati matrimonialisti italiani), che sta accompagnando lo studente in un percorso che avrà come primo passo un tentativo di mediazione con i genitori. Loro ancora non sanno che Matteo si è rivolto a un legale dopo avergli negato il consenso a farlo vaccinare.


Come è nata la tua ribellione?
«Sono figlio unico. La mia famiglia è unita. I miei genitori hanno un bel lavoro, sono laureati, ma sono anche no-vax convinti. Ritengono che il vaccino sia pericoloso, infatti non sono vaccinati e vogliono impedire a me di farlo».
Come hai vissuto la pandemia?
«Come i miei compagni di classe. Ho rinunciato a quasi due anni di uscite, gare, interrogazioni, recluso in casa davanti a uno schermo per parlare con gli amici, seguire le lezioni e giocare alla PlayStation. E basta, tutto qui. Prima del lockdown avevo anche una ragazza, ma non so più nemmeno come riavvicinarmi a lei».
Ora che c’è un vaccino a te non è permesso farlo.
«Non posso stare con gli amici e non posso viaggiare con loro senza green pass. È come se non avessi un futuro».
Cosa facevi prima della pandemia, a cosa hai rinunciato?
«Faccio nuoto. Una delle mie paure è che possano mettere limitazioni agli accessi in piscina ai non vaccinati. Partecipavo anche alle manifestazioni ambientaliste di Fridays for Future».
Matteo ha potuto rivolgersi a un avvocato, nonostante l’ordinamento italiano non consenta al minore di farlo in modo diretto, grazie a un’intesa sottoscritta da Ami e ministero dell’Istruzione, che prevede la possibilità per i minori di dialogare con un legale e ottenere supporto su questioni che riguardano i loro diritti e interessi.
Dopo il no dei tuoi genitori cosa hai deciso di fare?
«Ero frastornato. Ho parlato con i miei amici e chiesto aiuto a scuola. Il legale dell’associazione proverà a farli ragionare. Ai miei non ho ancora detto che ho parlato con un avvocato. Loro dicono che nessuno può obbligarli a vaccinarsi, perché i vaccini sono pericolosi, però vogliono costringermi a non farlo. A me sembra una contraddizione, per questo ho cercato un modo per convincerli. Anche alcuni miei compagni di scuola vorrebbero farlo ma non hanno ricevuto il permesso dalle famiglie».
Cosa pensi dei vaccini e dei no vax?
«Per me chi dice che non sono sicuri per via della sperimentazione troppo rapida dice una scemenza. Poi ognuno è libero di fare quello che gli pare, anche se proprio quelli che non vogliono imposizioni alla fine impongono le loro convinzioni agli altri, come nel caso dei miei genitori con me».
Ai genitori di Matteo l’avvocato Baldini chiederà un incontro per capire se c’è un margine di accordo. In caso contrario la vicenda potrebbe arrivare in procura.


6.2.21

laura morelli 60 anni rider

  
Non sapevo che LAURA MORELLI   

dal  suo sito https://www.lauramorellieu.com/

 fosse   oltre 
 
 Docente universitaria. Rider. ciclista. Un decennio come restauratrice di dipinti murali.
Dal 2000 inizia una ricerca sull’estetica della relazione. Crea le innermost machines. Decostruisce giocattoli elettronici e li riassembla in opere d’arte cinetiche fino alla tecnologia robotica.
Dal 2003 coinvolge gruppi di persone nel processo creativo.
Nel 2006 fonda ed è presidente dell’associazione Di + onlus per la realizzazione di progetti d’arte relazionale.
Nel decennio 2000 fa progetti d’arte relazionale all’estero e in Italia. La sua ricerca non si ferma mai.
Nel 2016 realizza una performance sul desiderio connesso a dolore represso e corpo. Ne declina una prassi educativa e in tre anni coinvolge nell’esperimento 180 studenti di 5 università/scuole internazionali. Produce installazioni, video, audio, sculture, fotografie, testi.
 
a quanto dice  nella  sua   la  biografia    del suo  sito  \  pagina   internet  e nel suo ( ottime le sue foto e i suoi video ) account instangram   fosse     come  raccontano      gli articoli sotto  riportati    anche rider  


Morelli è forse la rider più anziana d'Italia. Artista, ha iniziato per documentare un suo progetto, ha proseguito per necessità. La sua bici ha percorso 30mila km: come da casa sua a Singapore, andata e ritorno

"Ah, sei tu la rider?". Quando Laura arriva di corsa, con la bici nera e il giubbino rosa fluo, sorprende sempre. Perché è esile, è donna, parla forbito. E perché sotto il casco da ciclista i capelli sono bianchi come la neve. Laura Morelli - nata a Bergamo terza di quattro fratelli, istinto ribelle, laurea con lode al DAMS di Bologna - a novembre ha compiuto 60 anni. Ciò la rende probabilmente la rider più "vecchia" d'Italia, sicuramente di Milano. Negli ultimi 24 mesi - estate e inverno, giorno e (preferibilmente) notte, domeniche comprese - ha percorso quasi 30mila chilometri con uno zaino in spalla, che è un po' come pedalare da Milano a Singapore e ritorno. Lo ha fatto prima per Glovo, poi per Mama Burger, Jobby, Foorban e infine Winelivery. "Ebbene sì, sono una rider: il livello sociale appena sopra i senzatetto", esordisce sarcastica mentre nella camera di casa sua - Laura divide un appartamento con due amici in viale Abruzzi - si sta preparando per uscire.
Alle pareti ha foglietti e appunti, i libri sul ciclismo sono sparsi ovunque e a fianco del letto, sulla scrivania, il computer è acceso. "Ci osservano quasi tutti con sguardo giudicante e misericordioso - continua - e quando poi vedono che sono donna, bianca, che parlo correttamente italiano, pensano "poveretta, deve essere una signora che ha perso il lavoro". Poche donne fanno le rider, non vogliono abbassarsi a questo livello. Ne conosco una che non usa mai il termine "rider" ma "fattorina", per marcare la differenza. Psicologicamente funziona".Di solito Laura si presenta ai citofoni per nome ("Salve sono Laura, devo consegnare una bottiglia di vino"), e a molti fa piacere. Ma i tempi della gig economy (letteralmente: l'economia dei lavori saltuari, per lo più gestiti da app digitali) non lasciano spazio alle chiacchiere futili: bisogna correre, schiavi di un algoritmo che detta il ritmo e discrimina i meno efficienti.



Non esistono dati ufficiali sul numero di rider in Italia, ma in tempo di Covid il servizio è cresciuto tantissimo: per farsi un'idea, sono oltre 16mila (fonte Assodelivery) i ristoranti che nel nostro Paese usufruiscono del food delivery, per un giro d'affari nazionale che supera i 750 milioni di euro. "Un'economia enorme, che fa leva su un vuoto legislativo presente in molti paesi", dice Laura mentre scende le scale di casa, pronta per iniziare una lunga serata lavorativa: "Se ci pensi è una genialata, che toglie completamente responsabilità al datore di lavoro e ci spinge verso il modello americano. Sarà il futuro. Ma se hai cinquant'anni e per te questa è l'unica fonte di reddito, be', sei fregato".
Accese le luci, Laura inizia a pedalare e starle dietro è un'impresa. Corre in sede, ritira gli alcolici che deve consegnare, uno sguardo al cellulare per l'ordine e via "sul maledetto pavè": le strade diventano una palestra en plein air ed esplorarle su due ruote significa, per lei, riuscire a "cogliere la vera pancia della città, gli umori della comunità umana". Fino ad ammettere di essersi "innamorata di Milano grazie alla bicicletta, nelle settimane di lockdown, girandola con il sole e l'aria pulita, scoprendo androni inaspettati e portoni silenziosi del centro, abitati da quella borghesia che ha scritto i Promessi Sposi".
Laura ha fatto un po' di tutto, nei suoi primi 60 anni di vita. Si è occupata di iconografia teatrale, ha fotografato concerti, ha scritto articoli per giornali di provincia, ha restaurato per un decennio dipinti murali in cantieri sparsi per l'Emilia Romagna. Poi vent'anni fa si è presa una pausa, è andata tre mesi in analisi e un bel giorno si è sentita pronta per ricominciare tutto da capo. "Sentivo che si era chiuso un ciclo. Volevo vivere di arte ma il restauro mi andava stretto, e così sul finire del secolo ho realizzato che volevo e potevo essere io l'artista". Laura inizia a lavorare sul concetto di dialogo tra spazio e individuo, sull'idea di combinare insieme tecnologia e relazione. Una serie di riflessioni che segnano il suo percorso artistico, fra gallerie, esposizioni pubbliche (al Miart, alla Fondazione Stelline) e collaborazioni con atenei come la Cattolica di Milano, l'Università di Brescia, il TEC di Monterrey e l'Unisob di Napoli, dove oggi è professore a contratto nel corso di Progettazione artefatti cognitivi e strumenti per la prototipazione.
Non le basta. Fonda una onlus (chiamata D+) per promuovere l'arte contemporanea, e continua a farsi domande. Una in particolare segna gli ultimi due anni della sua vita: "Dov'è la bellezza, nel fenomeno sociale dei rider?".
Inizia coì, iscrivendosi a Glovo. Il progetto artistico ha un nome - gLOVERs - e una curatrice, la storica della fotografia Giovanna Bertelli: per un anno intero, a partire dal febbraio 2019, Laura lavora come rider e re-lizza piccoli video "come appunti poetici del mio quotidiano rubato ai ritmi del software". L'obiettivo è comunicare: mostre, conferenze pubbliche, performance. Ma a febbraio 2020 accade l'imprevedibile: la pandemia di Covid-19 si abbatte sul mondo intero, tutto si ferma e il progetto viene con- gelato. "Inizia il primo lockdown - racconta - e capisco che per i rider ci sarà sempre più lavoro. Quei 500, 600 al mese guadagnati pedalando per Milano mi fanno comodo e decido di continuare, anzi alzo il tiro: pur di non restare in casa arrivo a lavorare anche 8, 10 ore al giorno".
Piano piano per Laura la bicicletta diventa magia, benessere, piacere puro. Alla media di 40 chilometri al giorno la fatica scompare, il cervello produce endorfine, neppure la pioggia le dà più fastidio. I sensi sono vigili, devi prevedere tutto - quel pedone sta attraversando, quell'auto si fermerà allo stop, quella portiera si sta aprendo? - e hai pure il tempo per piccoli momenti di libertà ("fare le gare con gli altri rider alle 2 di notte, e ridere dentro di te perché l'hai superato").
A mezzanotte piazza Duomo è deserta. La donna appoggia il cubetto isotermico e si siede sui gradini del lampione: dal termos esce caffè caldo, è il tempo del relax. "In questi mesi ho consegnato di tutto: sigarette e vestiti, mazzi di fiori e superalcolici. Mi è capitato di finire in mezzo al litigio di una coppia gay e di consegnare un pacchetto di pop-corn a un adolescente dall'altra parte della città. Ho sfiorato ambulanze e ho litigato con le forze dell'ordine: volevano darmi la multa perché pedalavo senza mascherina. State voi per 6 ore in bici - ho risposto -
con 5 chili sulle spalle, sotto il sole d'agosto, con occhiali da vista e mascherina. Hanno avuto pietà".
Chi vive sulla strada sviluppa solidarietà nei confronti di chi fa lo stesso. I tassisti, gli operai del tram, gli stradini che asfaltano: "Ci si aiuta tutti, ci si comprende; la sera i controllori della metropolitana aprono i tornelli ai rider stanchi che vogliono solo una bottiglia d'acqua al distributore automatico". Laura l'ha capito, la bicicletta è entrata prepotentemente nella sua vita e non se ne andrà più. Abituata com'è ad alzare sempre la posta, ha deciso di puntare in alto. Da mesi su un foglio Excel si segna i chilometri che fa, i tempi che impiega, i recuperi e le ripetute. Il suo obiettivo è semplice: fare il giro del mondo. "Ora è diventato il mio sogno, la mia ossessione: smetterò di fare la rider solo per questo".


Hanno deciso di inforcare la bicicletta per occuparsi di consegne a domicilio e integrare così il loro reddito. La storia di due donne, Laura e Barbara.

«Poverina, una signora così anziana che gira in bici. Chissà che vita difficile». È il pensiero che molti avranno fatto incrociando per le strade di Milano Laura Morelli. A raccontarcelo è lei stessa: 59 anni, rider.Ha sperimentato in prima persona cosa significhi Gig economy, ossia guadagnarsi da vivere o integrare il proprio reddito facendo lavori saltuari, senza alcun contratto a garanzia e solo quando si viene chiamati o, più in generale, quando si può. «È un’esperienza molto spinta perché hai tempi stretti da rispettare, un percorso da seguire e del cibo – quindi materiale fragile – da trasportare». Nel suo caso bevande, visto che ora consegna bottiglie di vino e, più in generale, alcolici.«Ho iniziato il 14 gennaio del 2019 e penso di aver fatto almeno 10mila chilometri perché ho lavorato tanto. Ho cambiato diverse aziende della Gig economy. Il fine settimana si guadagna di più ma, se in media lavori quattro giorni a settimana, per 4/5 ore al giorno, ti porti a casa 600 euro».

Pochino, no?
Sette euro l’ora. Decisamente poco.

E lavorare durante la pandemia da Covid come è stato?
Come essere improvvisamente Alice nel paese delle meraviglie. Una città vuota. I suoni, gli uccellini.

Laura Morelli, rider

Milano. Laura Morelli in Piazza Duomo.

Una risposta che può sorprendere se non fosse che Laura ha scelto di fare questo lavoro e lo ha fatto per un tempo determinato. A parlarci bene, infatti, si scopre che è un’artista e si occupa di indagine estetica. Ha affrontato quello che poi si è trasformato in un anno di lavoro in un’occasione per intraprendere un suo percorso di sperimentazione artistica. «Cercavo bellezza, apparentemente difficile da trovare in un ambiente di produzione. Eppure l’ho trovata, per la strada, mentre attendevo di ricevere l’ordine da consegnare o mentre attraversavo la città». Così ha fotografato, registrato, filmato qualsiasi cosa la attraesse: dal logo con immagine femminile di un ristorante cinese alle conversazioni in attesa al semaforo. Il tutto confluito in un progetto chiamato “Glovers”, dal nome dei rider che lavorano per uno dei più importanti vettori, ma che porta in sé anche il termine “Love”. E dunque, amore.

Un bel vantaggio, sicuramente, rispetto ai tanti che invece il rider devono farlo per forza: perché è l’unica fonte di reddito.
Non sono mai stata ricca e se ho potuto vivere questa esperienza è perché ci ho guadagnato qualcosina. In più, per dieci anni sono stata capocantiere in imprese di restauro e lì ho guadagnato il necessario per acquistare due immobili dai quali oggi ho una piccola rendita. Nella mia vita, mi sono sempre trovata a fare cose diverse. Prima ci soffrivo, non perché non mi piacesse ma perché l’ambiente sociale circostante richiedeva, come modello, il lavoro unico. Solo che a me questa cosa dell’identità unica è sempre stata stretta. Oggi vivo a Milano in cohousing: 100 mq che condivido con una coppia e un singolo.

Barbara Vidor

Milano. Barbara Vidor durante il suo turno di rider.

Diversa, ma accomunata dall’età e dall’amore per la bicicletta, l’esperienza di Barbara Vidor, 56 anni. Vive a Landriano, in provincia di Pavia, e fa la rider da cinque anni. «A Landriano carico la bici in auto e lavoro a Milano. Quindici chilometri. Trovo parcheggio e da lì parte tutto il gioco». Eppure, di mestiere principale, Barbara fa altro: «Io sono una barista da undici anni. Ho una passione grandissima che è quella del cavallo. Perciò ho chiesto un part time – lavoravo troppo per potermi prendere cura del cavallo e gareggiare con esso – e, quando le spese hanno iniziato a salire, ho integrato il reddito lavorando come rider. Scotch, il mio cavallo, è un Sella francese: mi costa 350 euro al mese. Ed è esattamente quanto riesco a guadagnare consegnando cibo a domicilio».

Ma non è  faticoso a 56 anni?
Ho fatto tanti sport – prima del cavallo, ho gareggiato nello sci slalom gigante, windsurf, kitesurf e skateboard – e perciò sono molto allenata. In più, il lavoro di rider mi lascia tempo libero perché do disponibilità a seconda di quando ho possibilità di lavorare. Sono una “jobby”, ossia iscritta alla piattaforma Jobby, con la quale trovi il lavoro quando ti serve. Si trovano anche lavoretti per la casa, offerte come domestica o se serve di tinteggiare. Io avrei anche il brevetto per montare i televisori, ma poi non l’ho mai usato.

In bici, lei dice: «È come se fossi in palestra. Non la pago e mi mantengo in forma».

Pensi che continuerai a fare questo lavoro anche in futuro?
Sì, ho interrotto solo durante il Covid. Mi sono fermata perché avendo già un lavoro ho preferito lasciare le consegne a chi ne aveva veramente bisogno e vive solo di quello.

Quindici giorni ferma. Poi, non ce l’ha fatta più. È tornata in sella alla sua bicicletta. E a Scotch.

 

Senza Diritti. Una categoria da tutelare

Per mesi la politica si è interrogata su come debba essere normato il mondo dei rider, i lavoratori senza diritti né tutele che consegnano cibo a domicilio rischiando la propria incolumità nel traffico cittadino. In tanti raccontano la pesantezza di stare fuori casa dieci ore al giorno, percorrendo anche 80/100 chilometri in bicicletta, di turni di lavoro massacranti, con compensi che variano a seconda delle ore di lavoro e delle consegne. Sempre al di sotto del necessario per andare avanti. Una condizione così complessa che è finita nel mirino della Sezione misure di prevenzione del Tribunale di Milano con l’accusa di caporalato a un noto vettore, in particolare per lo sfruttamento dei rider. Tra le testimonianze raccolte, quella di un fattorino che ha dichiarato: «La mia paga era sempre di 3 euro a consegna indipendentemente dal giorno e dall’ora». A essere sfruttati, migranti provenienti da contesti di guerra, richiedenti asilo e persone che dimoravano in centri di accoglienza temporanei.

 

emergenza femminicidi non basta una legge che aumenti le pene ma serve una campaga educativa altrimenti è come svuotare il mare con un secchiello

Apro l'email  e tovo  queste  "lettere "   di  alcuni haters  \odiatori  ,  tralasciando  gli  insulti  e le  solite  litanie ...