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6.11.24

che abbia vinto Trump o Kamala per la sardegna e le sue basi non cambierà niente







L'UNIONE SARDA.IT

INCHIESTA
06 novembre 2024 alle 13:43aggiornato il 06 novembre 2024 alle 13:44


Sardegna-Usa, storie di misteri & top secretDal mancato sbarco del 1943 alle servitù militari americane di ieri, oggi e domani in terra sarda: gli States ad un bivio


(foto L'Unione Sarda)



Efisio Marras, classe 1888, cagliaritano doc, non era un militare qualunque. Per la storia, quella dimenticata, è lui il primo grande depositario dei tanti misteri della lunga e segreta storia sardo-
americana di questi ultimi 80 anni. Sconosciuto e riservato, indomito mediatore e implacabile Generale dell’Esercito italiano. Uomo capace di scalare le diplomazie più irrequiete del pianeta, da quelle di Berlino sino a Washington.


Marras story

Dopo il 25 luglio del 1943 fu Pietro Badoglio, capo del Governo italiano, a spedire il sardo dimenticato da tutti, a rassicurare Adolf Hitler sulla “volontà” del Governo di Roma di non fermare la guerra. Non fu un colloquio facile, quello del 30 luglio del ‘43. Gli appunti di Marras parlano di un incontro interlocutorio, sino al vertice sul Tarvisio, il 6 agosto successivo. Partecipano i Ministri degli Esteri e i Capi di Stato maggiore italiani e tedeschi. Al tavolo c’è anche Efisio Marras, il Generale di Cagliari. È sera, l’8 settembre del 1943, quando la radio diffonde la notizia: è armistizio tra l’Italia e gli Alleati. Tutto o quasi di quegli incontri a Berlino finisce in cenere. Il dieci settembre il personale dell’ambasciata a Berlino viene internato a Garmisch-Partenkirchen. Marras no, durante il trasbordo ad arrestarlo è direttamente la “terribile” Gestapo. Viene, per modo di dire, “processato” e spedito senza troppi convenevoli nel campo di concentramento di Sachsenhausen. Resta lì fino al 31 marzo 1944 quando, poi, finisce nelle mani della “Repubblica sociale italiana”. Il 25 agosto, però, evade. Si dà alla clandestinità, sino alla fine delle ostilità. Nell’Italia devastata dalla guerra il suo posto è alla guida dell’Esercito, come Capo di Stato maggiore, ma non solo.

Washington

È ottobre del 1948 quando i vertici della Difesa gli affidano due missioni estere destinate a segnare inesorabilmente la storia sardo-americana, quella passata e la cronaca moderna dei giorni nostri. Il primo viaggio è in una Germania post bellica, spedito nella terra che fu di Hitler a discutere direttamente con le forze americane d’occupazione. La seconda missione è quella più sconosciuta e segreta. A dicembre del 1948 Efisio Marras raggiunge Washington, con un doppio mandato: aprire le trattative con gli Stati Uniti per governare la fase "post-bellica” e partecipare, in qualità di delegato, al Consiglio Atlantico. Il vertice più delicato, però, è al Pentagono.

Patto segreto



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In quel momento, Marras, è il numero uno della Difesa italiana. È il più riservato, il più schivo, l’unico a cui viene affidato un incarico che segnerà per sempre il rapporto militare “sardo-americano" e il patto “segreto” tra gli Stati Uniti d’America e l’Italia. È lui che deve registrare le “pretese” americane in terra sarda e non solo. C’è da “regolare” i conti, economici e militari, dopo il sostegno degli Usa alla liberazione. Il suo compito, quello del Generale di Cagliari, è ascoltare e registrare, capire e mediare. In ballo ci sono le ambizioni statunitensi in terra sarda, le mire egemoniche nel Mediterraneo, la pretesa stabilità occidentale.

Trattativa

Tutto da sottoscrivere con un contratto destinato a segnare per sempre la storia del Bel Paese: «Patto Atlantico». L’apporto degli Stati Uniti alla ricostruzione delle forze armate italiane divenne decisivo: con l’adesione alla Nato, si passò dalle regole di ingaggio britanniche, adottate per necessità nel 1944, a quelle degli States.

Pretese Usa

A discutere per primo gli assetti americani nel sud Europa, Sardegna prima di tutto, c’è il Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, Efisio Marras. Il compito è tutto suo: gestire le prime rivendicazioni degli Usa nella gestione militare degli eserciti occidentali, a partire da quello italiano. Non una partita secondaria, visto che gli stessi americani temevano, nonostante si ritenessero i salvatori della Patria, le reazioni delle popolazioni agli insediamenti degli States sul suolo sardo e italiano.

Basi sarde

Marras registra i capisaldi delle pretese americane: «prosieguo dei diritti acquisiti dagli Stati Uniti in base agli accordi precedenti; immediata concessione di diritti aggiuntivi con la realizzazione di una linea di comunicazione dal Tirreno al confine nordorientale in appoggio alle truppe di occupazione in Austria e a Trieste; diritti da acquisire in futuro». Si parlò anche di denari, con accordi finanziari da stipulare subito dopo l’eventuale intesa strategica con il Governo Italiano. Insomma, gli americani volevano anche soldi per posizionare basi militari sul suolo italiano. Registra Marras: «basi e strutture militari degli Stati Uniti in Italia, compresa l’installazione e il mantenimento, sarebbero dipesi direttamente dal finanziamento italiano». È lì che scattò l’operazione “servitù militari” in Sardegna. Dopo i colloqui di Washington partì la ricognizione terrestre nell’Isola e non solo.

Nato & Usa



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L’obiettivo era esplicito: individuazione di siti adeguati alla costruzione di installazioni militari. Da quel momento saranno i Governi a trattare, con una postilla annotata nelle carte “segrete”: il Governo italiano preferisce che le basi siano in capo alla Nato e non direttamente agli Stati Uniti. Non solo una formalità. Non cambia, però, il risultato. La Sardegna è terra di conquista. Politicamente debole, isolata, centrale nel Mediterraneo, incapace di creare troppi problemi a chi deve decidere. Gli Usa del resto la conoscevano bene, anche militarmente: nei documenti angloamericani per la conquista dell’Isola, nella seconda guerra mondiale, il ruolo della Sardegna era chiaro, anche se il tutto si fermò alla teoria. Furono gli Usa a pianificare, già dalla fine del 1940, con l’operazione Yorker, l’occupazione militare dell’intera Isola. Arrivò, poi, il “Piano Garotter”, per occupare Cagliari, ma anche in questo caso il tutto si fermò. Infine, sempre loro, progettarono il “falso” sbarco nell’Isola con l’operazione Brimstone nel 1942. Ovviamente, non se ne fece niente.

81 anni dopo

Il pallino dell’Isola da conquistare, però, resistette: il 20 ottobre 1954 Mario Scelba, Ministro dell'Interno e Presidente del Consiglio dei Ministri, firma l'Accordo Bilaterale sulle Infrastrutture (BIA ) con gli Stati Uniti d’America. Un patto “segreto” per gestire e costruire basi militari Nato e Usa in Italia, in Sardegna soprattutto. Ieri come oggi, tutto top secret, salvo qualche concessione dopo la strage del Cermis. Da domani quel patto segreto, con le clausole di ampliamento, a partire dagli F35 capaci di caricare bombe nucleari in arrivo a Decimomannu, sarà nelle mani del 47° Presidente degli Stati Uniti d’America. Il futuro dell’Isola, ora come non mai, passa ancora una volta da Washington, come ottantuno anni fa. Ad ascoltare le pretese degli States questa volta, però, non ci sarà Efisio Marras.

8.7.19

non sapevo che giocare in piazza a pallone facesse più male di una base in cui si fanno esercitazioni con armi nucleari ad uranio impoverito. il caso di Perdasdefogu, vietato giocare a pallone in strada: "Pericoloso e disturba"

http://www.lamiasardegna.it/perdasdefogu.htm
http://www.aserramanna.it/2016/09/giocavamo-a-pallone-in-strada-racconto-completo/

le solite cose italiane . dove un pallone disturba, i veleni dei poligoni militari no (  trovate  approfondimenti   nel link sopra  fra  cui  il  bellissimo racconto   di Davide Batzella in cui descrive    come   una  volta  si poteva   giocare in piazza    ) ... tanti complimenti al sindaco per l'originale trovata   come  quello  riportata  sotto   da

 da   https://youtg.net

Perdasdefogu, vietato giocare a pallone in strada: "Pericoloso e disturba"

Pallone-vietato-piazza
PERDASDEFOGU. Vietato giocare a pallone in piazza. A meno che non sia abbiano meno di sei anni, ma solo se accompagnati dai genitori. Perdasdefogu, 1800 anime in Ogliastra, paese dei centenari ma anche, come tanti in Sardegna, malato di spopolamento. Succede che il sindaco Mariano Carta emette un'ordinanza che nega ai pochi bambini rimasti di fare ciò che il 99 per cento dei coetanei ha fatto: portare in strada un pallone e giocare. A quanto pare c'è un problema di ordine pubblico: le partite di piazza hanno scatenato lamentele. Danno fastidio.  Lì, nel tranquillo paese che da 60 anni convive con le esercitazioni militari del poligono interforze. A leggere il testo del documento firmato dal primo cittadino c'è da rimanere spiazzati. In premessa si sottolinea che "al comando di polizia locale sono pervenute e pervengono numerose segnalazioni da parte di cittadini, con la quale si denuncia la pratica diffusa di utilizzare le piazze quale luogo per lo svolgimento di giochi con il pallone e lancio di oggetti che  possono arrecare molestie e disturbi". E questo è sempre successo: a Perdasdefogu,  a Pirri e forse anche a Timbuctù. I ragazzini giocano, i grandi si lamentano per il chiasso. Il sindaco aggiunge inoltre che spesso si sia giocato a pallone  sull'erba di piazza Europa, e il verde pubblico si deteriora. Poi l'aggiunta, che ha un sapore un po' surreale: si rileva che" l’utilizzo del pallone rappresenta un potenziale pericolo per gli stessi utilizzatori del gioco poiché il pallone finisce nelle vie pubbliche con alta densità di circolazione stradale causando potenziali rischi di incidenti stradali". Ecco: alta densità di circolazione stradale, che sicuramente è sfuggita al servizio pubblico di Onda verde, che monitora il traffico a livello italiano e non ha mai parlato di Perdasdefogu. Sulla base di questi presupposti, e del disturbo arrecato dai ragazzini col pallone, il sindaco Carta ordina che "in tutte le Piazze, strade pubbliche e in tutti gli spazzi pubblici è vietato, se non diversamente segnalato, il gioco del pallone in tutte le forme e modalità di svolgimento".Restano non punibili i bimbi fino a sei anni. E per chi trasgredisce c'è pronta una multa che va dai 25 ai 500 euro. Chissà cosa ne pensano tutti colore che giovani e meno giovani quest'anno in paese festeggiano i 50 anni del Perdas Calcio, la squadra orgoglio di una comunità. 





concordo con il commento di


    Giuseppe Sanna Si infatti meglio con gli occhi fissi sullo smartphone come zombi...!!! Il calcio in strada da piccolo era bello x quello, anche x così dire disturbare e farsi perdonare dai vecchi il giorno dopo.. Ordinanza VERGOGNOSA.


Infatti sembra che siano ammessi solo giochi di guerra con l'utilizzo di uranio.: non sono pericolosi e non disturbano il quieto vivere.Inoltre certi paesi già spopolati di se . sesi continua a mettere divieti ,e sara ancora più spopolato.  concludo  con il commento  di


Maurizio Spiga Non si sa mai che il pallone possa esplodere come le bombe di Perdasdefogu! Ma quelle portano benessere e salute, mica come il pallone, eh.



13.5.12

“Hunger games”, i giochi di guerra si trasformano in un reality show

unione sarda  del  13\\5\2012

“Hunger games”, i giochi di guerra si trasformano in un reality show

Il film tratto dal libro della Collins cambia il cinema per ragazzi

Marianna Rizzini
Il “Grande fratello” all'ennesima potenza, la guerra per le risorse scarse che diventa spaventoso gioco televisivo, l'onnipresenza dell'occhio elettronico alla sua apoteosi, l'apocalisse vissuta da adolescenti che non hanno più nulla in comune con i loro coetanei innamorati e distratti in pieno “Tempo delle Mele”: il film “Hunger games” (tratto dall'omonimo libro), ora nelle nostre sale, inizia dove si fermano i reality show, e va oltre l'estremo limite, oltre il punto di confine da non superare tra spettacolo e vita vera. Ma qual è questo limite? È la domanda da cui è partita Suzanne Collins, scrittrice americana figlia di un reduce della guerra del Vietnam.
IL LIBRO Era l'estate del 2008, e Suzanne, facendo zapping tra telegiornali pieni di immagini guerresche e reality show demenziali, ebbe l'idea che la portò al primo libro di una trilogia che presto avrebbe sbancato in libreria, al cinema, tra il pubblico e tra i critici. Un blockbuster, sì, ma di quelli che fanno pensare; l'evoluzione del fantasy e, al tempo stesso, il passo che porta oltre la grande abbuffata di vampiri romantici di “Twilight”. C'è, nel film, uno stato del prossimo futuro, un Nord America da day after chiamato allusivamente “Panem”, un paese disperato e nichilista, dove una capitale gonfia di ricchezza, chiamata “Capitol”, guidata da un presidente tiranno (un magnifico Donald Sutherland) e da una pletora di “strateghi” sottomessi, affama e controlla ossessivamente i dodici distretti, gironi danteschi sempre più inospitali man mano che ci si allontana dal centro. Ci sono state, in un tempo non lontano, delle rivolte, sedate con la forza, spauracchio eterno del potere centrale che si ritorce contro gli abitanti sotto forma di punizione esemplare reiterata ancora e ancora: ogni anno, infatti, ciascun distretto deve estrarre a sorte un ragazzo e una ragazza di età compresa tra i dodici e i diciotto anni, e mandarlo a combattere con i concorrenti estratti dagli altri distretti nel reality mortale chiamato “Hunger games”, trasmesso in diretta da telecamere implacabili, successo di pubblico per un pubblico che non ha più nulla da perdere e che però cova, sotto la cenere, il germe della ribellione. Soltanto uno tra i concorrenti, alla fine, potrà sopravvivere alla lotta all'ultimo sangue, seguita dall'occhio televisivo onnipresente e dall'allegria fuori luogo del conduttore. Soltanto uno tra gli adolescenti buttati a combattere come nella Creta del Minotauro (Collins ammette l'influenza del mito di Teseo, ma nel plot riecheggia anche l'immagine dei gladiatori e il film giapponese “Battle Royale”, uscito nel 2000 tra mille polemiche, visto l'argomento: rieducazione di adolescenti ribelli attraverso una lotta indotta per la sopravvivenza, un “Dieci piccoli indiani” in cui ogni momento cade qualcuno, uno shock per l'opinione pubblica).
IL REALITY “Hunger games” aggiunge all'idea del sacrificio rituale con annesso scontro tra “fratelli” l'elemento del reality televisivo, deformandolo anche al di là della satira: gli strateghi del gioco, vestiti come damerini, perfettamente acconciati in stile Versailles, coltivano una raffinatezza di facciata che fa a pugni con la crudezza della crudele invenzione cui si dedicano a tempo pieno, tra schermi e grafici, tra incendi fatti scoppiare ad arte e mine antiuomo disseminate per passatempo, come se i concorrenti fossero ormai soltanto numeri, pedine intervistate con ghigno beffardo dal conduttore Ceasar Flickerman, parodia del conduttore di talk-show vanesio e superficiale, interpretato da un grande Stanley Tucci. La giovane protagonista, Katniss Everdeen, offertasi volontaria al gioco per salvare la sorellina Primrose, estratta a sorte sotto gli occhi annichiliti della madre vedova, non si piega fin dall'inizio alla commedia che precede il terribile gioco, fatta di banchetti, bei vestiti, camere d'albergo extralusso e dolci offerti per coccolare i poveri “tributi”, i ragazzi concorrenti in addestramento, alcuni già ubriachi di fama nonostante l'imminente e probabile morte agli “Hunger games”. “Solo uno sopravviverà”, continuano a ripetere gli strateghi, cercando di inculcare nella mente dei ragazzi che più saranno accattivanti per gli spettatori e per gli sponsor, più avranno la possibilità di ricevere dei “regali” utili durante il gioco: acqua, medicine, un tozzo di pane. Katniss è sgomenta, e altrettanto sgomento è Peeta, il ragazzo sorteggiato come lei dal distretto 12 e segretamente innamorato di lei nonostante Katniss abbia un debole per l'amico del cuore rimasto a casa. Eppure anche l'amore, sotto gli occhi implacabili delle telecamere manovrate dagli strateghi, diventa a forza elemento del gioco, costruito ad arte, fatto balenare come possibile ancora di salvataggio: “Se voi faceste i fidanzatini, forse gli sponsor vi aiuteranno”. Qualcosa disturba lo spettatore, in questo, perché nei reality che tutti vediamo, e su cui scherziamo, nell'amore tra tronisti o tra concorrenti del “Grande Fratello”, c'è già in nuce la deformazione, e già il confine tra vita e gioco si fa labile, fino al punto che chi guarda non è davvero sicuro che quell'amore sia vero, quell'amicizia sia vera, quelle parole non siano frutto di un copione.
I RICHIAMI È densa di simboli, anche un po' ingenuamente presi dalla letteratura europea, da Dante in giù, quella battaglia per la sopravvivenza condotta in un'“arena” fatta di selve oscure dove anche la ricerca del cibo diventa sfida con se stessi e con gli altri e dove si impara che le armi non sempre sono il vero vantaggio ma che neppure i più piccoli sono immuni dalle regole spietate di un potere malato, totalitario, imperiale nel senso deteriore del termine (quando arrivano a Capitol, i ragazzi sorteggiati devono percorrere una sorta di viale che si snoda tra due tribune, al termine del quale c'è il presidente).
Al di là dei rimandi storici all'ingrosso, la storia del reality mortale nel paese ridotto allo stremo amplifica le peggiori ansie del presente, ed è questo il motivo principale del suo successo anche tra gli adulti. Parlano dell'oggi sia la capitale corrotta che si volta dall'altra parte quando scorrono le immagini dei cittadini più disagiati sia il corollario di privilegiati che si affollano nello studio televisivo dove si svolgono le interviste della vigilia, inebetiti e dimentichi della sorte che attende 23 su 24 concorrenti. Parlano dell'oggi quei ragazzi spavaldi eppure consapevoli del vuoto che li circonda, e anche i loro antagonisti, stretti in gruppo contro i più deboli, anche se il gruppo non può essere salvezza nel gioco perverso in cui soltanto uno può salvarsi, e quell'uno servirà a rinforzare un establishment odiato che punisce preventivamente per scoraggiare la presa di coscienza.
I TEENAGER Non è un film per teenager, “Hunger games”, anche se sono i teenager che hanno decretato il suo boom oltreoceano - e Vittorio Zucconi, su Repubblica, si è incuriosito al punto da scrivere un vero e proprio reportage dal multiplex, tra cartacce, popcorn e giovani intenti a mangiare di tutto mentre sullo schermo i loro coetanei protagonisti del film si sfidavano per il cibo e per la vita.
Non è un film solo per teenager, “Hunger games”, anche se gli adolescenti corrono a vederlo, come se in qualche modo l'atmosfera asfittica in cui si muove Katniss, e quella brutta costrizione alla competizione, per giunta sotto l'occhio della telecamera, fosse qualcosa di familiare, almeno quanto la ribellione interiore della protagonista che crede nell'amicizia anche a costo di mettersi in pericolo. L'umanità disumanizzata si riscatta nel singolo, non c'è più una collettività che sorregge, l'unica via è la scelta individuale che sfida i diktat di chi detiene le leve del potere e della comunicazione, che alla fine sono un po' la stessa cosa. L'avidità, il cinismo, l'ansia di accumulare per i “tempi di crisi” pervadono questa storia di adolescenti-coraggio, ma l'eroina percorre la pur difficile via del ragionare con la propria testa (per esempio quando salva una bambina da un concorrente forzuto che la insegue, anche se la bambina stessa è potenzialmente un nemico).
LA SVOLTA Colpisce il fatto che schiere di ragazzini americani si siano identificati in questa storia, come se fosse finito per sempre il tempo degli “Happy days”, del “teen movie” classico, con l'amore da liceo che sboccia, il vestito per la festa, l'amico del cuore che tradisce, i chili di troppo, il ballo di fine anno come prova desiderata e temuta. Sembrano lontanissimi i giorni del suddetto “Tempo delle mele”, il film francese che negli anni Ottanta incantò una generazione con la storia di Vic, liceale parigina, dei suoi amici e della sua famiglia un po' pazza, con tanto di bisnonna irresistibile, maestra disinibita di sentimenti e confidente di primi baci. Vic, interpretata da Sophie Marceau, lottava per il permesso a stare fuori la sera, si preoccupava della crisi dei genitori, aiutava la sconclusionata amica Penelope, andava al cinema, provava gli abiti della mamma con la mamma complice, si innamorava perdutamente di Mathieu durante il ballo lento con ritornello storico (“dreams are my reality…”), rischiava di anticipare la sua prima volta, si dibatteva nei dubbi tra le cabine al mare, e intanto però si divertiva tra scuola, feste, prime incursioni nel mondo degli adulti. Ma “Hunger games” è anche diverso dall'universo ancora vagamente smielato di “Twilight”, pur con tutte le derive dark: il vampiro buono è davvero buono, la ragazza è davvero romantica, cambia l'ambientazione, non più da Mulino Bianco, ma gli elementi tradizionali del “teen movie” ci sono tutti. Nel mondo apocalittico di Katniss e degli altri concorrenti agli “Hunger games” non c'è spazio per casette col giardino e per danze da “Grease”, e l'innamoramento soccombe all'emergenza.
REALITY ESTREMO Che lo si giudichi bello o brutto, trash o interessante, “Hunger games” porta all'apice il filone “Truman show”, il film del 1998 diretto da Peter Weir e interpretato da un fantastico Jim Carrey. Un film in cui il reality show (ancora ai suoi albori ma già dilagante) viene già portato al paradosso: Truman Burbank, trentenne qualunque, non sa di essere il protagonista di uno spettacolo televisivo, il “Truman Show” che ha per oggetto la sua vita, ripresa in diretta fin dalla nascita da figlio di una gravidanza indesiderata. Abita su un'isola, Truman, che in realtà è un gigantesco studio televisivo creato dal regista. Tutte le persone che Truman incontra e con le quali si relaziona sono attori, compresi i genitori, gli amici e la moglie. Ma un giorno Truman comincia a insospettirsi, perché ha visto qualche crepa nel vecchio set e vecchie foto dall'aria posticcia. Gli viene voglia di fuggire, ma fuggire non si può, pena il fallimento del programma milionario. Pian piano prende coscienza della farsa, si sottrae ed esce. Ma che cosa lo aspetta là fuori, ora che ha capito che anche i suoi affetti più cari sono finzione da tubo catodico?
In “Hunger games” non c'è neanche più la finzione commerciale, perché anche il potere si regge sul gioco televisivo, e non può sopravvivere senza quel circo mortale. Il film, diretto da Gary Ross, è fin troppo ambizioso nel tentativo di denunciare l'estrema deriva sociale e mediatica, eppure cattura l'attenzione con quella sua continua allusione a un mondo depauperato di risorse, prospettive, sorrisi e affetti.

emergenza femminicidi non basta una legge che aumenti le pene ma serve una campaga educativa altrimenti è come svuotare il mare con un secchiello

Apro l'email  e tovo  queste  "lettere "   di  alcuni haters  \odiatori  ,  tralasciando  gli  insulti  e le  solite  litanie ...