“Hunger games”, i giochi di guerra si trasformano in un reality show

unione sarda  del  13\\5\2012

“Hunger games”, i giochi di guerra si trasformano in un reality show

Il film tratto dal libro della Collins cambia il cinema per ragazzi

Marianna Rizzini
Il “Grande fratello” all'ennesima potenza, la guerra per le risorse scarse che diventa spaventoso gioco televisivo, l'onnipresenza dell'occhio elettronico alla sua apoteosi, l'apocalisse vissuta da adolescenti che non hanno più nulla in comune con i loro coetanei innamorati e distratti in pieno “Tempo delle Mele”: il film “Hunger games” (tratto dall'omonimo libro), ora nelle nostre sale, inizia dove si fermano i reality show, e va oltre l'estremo limite, oltre il punto di confine da non superare tra spettacolo e vita vera. Ma qual è questo limite? È la domanda da cui è partita Suzanne Collins, scrittrice americana figlia di un reduce della guerra del Vietnam.
IL LIBRO Era l'estate del 2008, e Suzanne, facendo zapping tra telegiornali pieni di immagini guerresche e reality show demenziali, ebbe l'idea che la portò al primo libro di una trilogia che presto avrebbe sbancato in libreria, al cinema, tra il pubblico e tra i critici. Un blockbuster, sì, ma di quelli che fanno pensare; l'evoluzione del fantasy e, al tempo stesso, il passo che porta oltre la grande abbuffata di vampiri romantici di “Twilight”. C'è, nel film, uno stato del prossimo futuro, un Nord America da day after chiamato allusivamente “Panem”, un paese disperato e nichilista, dove una capitale gonfia di ricchezza, chiamata “Capitol”, guidata da un presidente tiranno (un magnifico Donald Sutherland) e da una pletora di “strateghi” sottomessi, affama e controlla ossessivamente i dodici distretti, gironi danteschi sempre più inospitali man mano che ci si allontana dal centro. Ci sono state, in un tempo non lontano, delle rivolte, sedate con la forza, spauracchio eterno del potere centrale che si ritorce contro gli abitanti sotto forma di punizione esemplare reiterata ancora e ancora: ogni anno, infatti, ciascun distretto deve estrarre a sorte un ragazzo e una ragazza di età compresa tra i dodici e i diciotto anni, e mandarlo a combattere con i concorrenti estratti dagli altri distretti nel reality mortale chiamato “Hunger games”, trasmesso in diretta da telecamere implacabili, successo di pubblico per un pubblico che non ha più nulla da perdere e che però cova, sotto la cenere, il germe della ribellione. Soltanto uno tra i concorrenti, alla fine, potrà sopravvivere alla lotta all'ultimo sangue, seguita dall'occhio televisivo onnipresente e dall'allegria fuori luogo del conduttore. Soltanto uno tra gli adolescenti buttati a combattere come nella Creta del Minotauro (Collins ammette l'influenza del mito di Teseo, ma nel plot riecheggia anche l'immagine dei gladiatori e il film giapponese “Battle Royale”, uscito nel 2000 tra mille polemiche, visto l'argomento: rieducazione di adolescenti ribelli attraverso una lotta indotta per la sopravvivenza, un “Dieci piccoli indiani” in cui ogni momento cade qualcuno, uno shock per l'opinione pubblica).
IL REALITY “Hunger games” aggiunge all'idea del sacrificio rituale con annesso scontro tra “fratelli” l'elemento del reality televisivo, deformandolo anche al di là della satira: gli strateghi del gioco, vestiti come damerini, perfettamente acconciati in stile Versailles, coltivano una raffinatezza di facciata che fa a pugni con la crudezza della crudele invenzione cui si dedicano a tempo pieno, tra schermi e grafici, tra incendi fatti scoppiare ad arte e mine antiuomo disseminate per passatempo, come se i concorrenti fossero ormai soltanto numeri, pedine intervistate con ghigno beffardo dal conduttore Ceasar Flickerman, parodia del conduttore di talk-show vanesio e superficiale, interpretato da un grande Stanley Tucci. La giovane protagonista, Katniss Everdeen, offertasi volontaria al gioco per salvare la sorellina Primrose, estratta a sorte sotto gli occhi annichiliti della madre vedova, non si piega fin dall'inizio alla commedia che precede il terribile gioco, fatta di banchetti, bei vestiti, camere d'albergo extralusso e dolci offerti per coccolare i poveri “tributi”, i ragazzi concorrenti in addestramento, alcuni già ubriachi di fama nonostante l'imminente e probabile morte agli “Hunger games”. “Solo uno sopravviverà”, continuano a ripetere gli strateghi, cercando di inculcare nella mente dei ragazzi che più saranno accattivanti per gli spettatori e per gli sponsor, più avranno la possibilità di ricevere dei “regali” utili durante il gioco: acqua, medicine, un tozzo di pane. Katniss è sgomenta, e altrettanto sgomento è Peeta, il ragazzo sorteggiato come lei dal distretto 12 e segretamente innamorato di lei nonostante Katniss abbia un debole per l'amico del cuore rimasto a casa. Eppure anche l'amore, sotto gli occhi implacabili delle telecamere manovrate dagli strateghi, diventa a forza elemento del gioco, costruito ad arte, fatto balenare come possibile ancora di salvataggio: “Se voi faceste i fidanzatini, forse gli sponsor vi aiuteranno”. Qualcosa disturba lo spettatore, in questo, perché nei reality che tutti vediamo, e su cui scherziamo, nell'amore tra tronisti o tra concorrenti del “Grande Fratello”, c'è già in nuce la deformazione, e già il confine tra vita e gioco si fa labile, fino al punto che chi guarda non è davvero sicuro che quell'amore sia vero, quell'amicizia sia vera, quelle parole non siano frutto di un copione.
I RICHIAMI È densa di simboli, anche un po' ingenuamente presi dalla letteratura europea, da Dante in giù, quella battaglia per la sopravvivenza condotta in un'“arena” fatta di selve oscure dove anche la ricerca del cibo diventa sfida con se stessi e con gli altri e dove si impara che le armi non sempre sono il vero vantaggio ma che neppure i più piccoli sono immuni dalle regole spietate di un potere malato, totalitario, imperiale nel senso deteriore del termine (quando arrivano a Capitol, i ragazzi sorteggiati devono percorrere una sorta di viale che si snoda tra due tribune, al termine del quale c'è il presidente).
Al di là dei rimandi storici all'ingrosso, la storia del reality mortale nel paese ridotto allo stremo amplifica le peggiori ansie del presente, ed è questo il motivo principale del suo successo anche tra gli adulti. Parlano dell'oggi sia la capitale corrotta che si volta dall'altra parte quando scorrono le immagini dei cittadini più disagiati sia il corollario di privilegiati che si affollano nello studio televisivo dove si svolgono le interviste della vigilia, inebetiti e dimentichi della sorte che attende 23 su 24 concorrenti. Parlano dell'oggi quei ragazzi spavaldi eppure consapevoli del vuoto che li circonda, e anche i loro antagonisti, stretti in gruppo contro i più deboli, anche se il gruppo non può essere salvezza nel gioco perverso in cui soltanto uno può salvarsi, e quell'uno servirà a rinforzare un establishment odiato che punisce preventivamente per scoraggiare la presa di coscienza.
I TEENAGER Non è un film per teenager, “Hunger games”, anche se sono i teenager che hanno decretato il suo boom oltreoceano - e Vittorio Zucconi, su Repubblica, si è incuriosito al punto da scrivere un vero e proprio reportage dal multiplex, tra cartacce, popcorn e giovani intenti a mangiare di tutto mentre sullo schermo i loro coetanei protagonisti del film si sfidavano per il cibo e per la vita.
Non è un film solo per teenager, “Hunger games”, anche se gli adolescenti corrono a vederlo, come se in qualche modo l'atmosfera asfittica in cui si muove Katniss, e quella brutta costrizione alla competizione, per giunta sotto l'occhio della telecamera, fosse qualcosa di familiare, almeno quanto la ribellione interiore della protagonista che crede nell'amicizia anche a costo di mettersi in pericolo. L'umanità disumanizzata si riscatta nel singolo, non c'è più una collettività che sorregge, l'unica via è la scelta individuale che sfida i diktat di chi detiene le leve del potere e della comunicazione, che alla fine sono un po' la stessa cosa. L'avidità, il cinismo, l'ansia di accumulare per i “tempi di crisi” pervadono questa storia di adolescenti-coraggio, ma l'eroina percorre la pur difficile via del ragionare con la propria testa (per esempio quando salva una bambina da un concorrente forzuto che la insegue, anche se la bambina stessa è potenzialmente un nemico).
LA SVOLTA Colpisce il fatto che schiere di ragazzini americani si siano identificati in questa storia, come se fosse finito per sempre il tempo degli “Happy days”, del “teen movie” classico, con l'amore da liceo che sboccia, il vestito per la festa, l'amico del cuore che tradisce, i chili di troppo, il ballo di fine anno come prova desiderata e temuta. Sembrano lontanissimi i giorni del suddetto “Tempo delle mele”, il film francese che negli anni Ottanta incantò una generazione con la storia di Vic, liceale parigina, dei suoi amici e della sua famiglia un po' pazza, con tanto di bisnonna irresistibile, maestra disinibita di sentimenti e confidente di primi baci. Vic, interpretata da Sophie Marceau, lottava per il permesso a stare fuori la sera, si preoccupava della crisi dei genitori, aiutava la sconclusionata amica Penelope, andava al cinema, provava gli abiti della mamma con la mamma complice, si innamorava perdutamente di Mathieu durante il ballo lento con ritornello storico (“dreams are my reality…”), rischiava di anticipare la sua prima volta, si dibatteva nei dubbi tra le cabine al mare, e intanto però si divertiva tra scuola, feste, prime incursioni nel mondo degli adulti. Ma “Hunger games” è anche diverso dall'universo ancora vagamente smielato di “Twilight”, pur con tutte le derive dark: il vampiro buono è davvero buono, la ragazza è davvero romantica, cambia l'ambientazione, non più da Mulino Bianco, ma gli elementi tradizionali del “teen movie” ci sono tutti. Nel mondo apocalittico di Katniss e degli altri concorrenti agli “Hunger games” non c'è spazio per casette col giardino e per danze da “Grease”, e l'innamoramento soccombe all'emergenza.
REALITY ESTREMO Che lo si giudichi bello o brutto, trash o interessante, “Hunger games” porta all'apice il filone “Truman show”, il film del 1998 diretto da Peter Weir e interpretato da un fantastico Jim Carrey. Un film in cui il reality show (ancora ai suoi albori ma già dilagante) viene già portato al paradosso: Truman Burbank, trentenne qualunque, non sa di essere il protagonista di uno spettacolo televisivo, il “Truman Show” che ha per oggetto la sua vita, ripresa in diretta fin dalla nascita da figlio di una gravidanza indesiderata. Abita su un'isola, Truman, che in realtà è un gigantesco studio televisivo creato dal regista. Tutte le persone che Truman incontra e con le quali si relaziona sono attori, compresi i genitori, gli amici e la moglie. Ma un giorno Truman comincia a insospettirsi, perché ha visto qualche crepa nel vecchio set e vecchie foto dall'aria posticcia. Gli viene voglia di fuggire, ma fuggire non si può, pena il fallimento del programma milionario. Pian piano prende coscienza della farsa, si sottrae ed esce. Ma che cosa lo aspetta là fuori, ora che ha capito che anche i suoi affetti più cari sono finzione da tubo catodico?
In “Hunger games” non c'è neanche più la finzione commerciale, perché anche il potere si regge sul gioco televisivo, e non può sopravvivere senza quel circo mortale. Il film, diretto da Gary Ross, è fin troppo ambizioso nel tentativo di denunciare l'estrema deriva sociale e mediatica, eppure cattura l'attenzione con quella sua continua allusione a un mondo depauperato di risorse, prospettive, sorrisi e affetti.

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