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21.8.17

l'ultima maglia di pele Il tesoro custodito da Jimmy: l'ultima maglia di Pelè e altre storie sportive



La prima storia è già ormai  storia . Ma a volte capita che che ritorni in auge a distanza di tempo, quarant'anni in questo caso , dal momento in cui è avvenuta .


 Infatti quarant'anni fa, il 28 agosto 1977, Pelé giocava la sua ultima partita ufficiale.                   Era la finale del campionato nordamericano: O Rei era il fiore all'occhiello dei Cosmos di New York, la squadra imbottita di mostri sacri – tra cui Beckenbauer e il nostro Giorgio Chinaglia – che avrebbe dovuto far scoppiare la passione per il soccer anche nei riluttanti Stati Uniti. Ma in quel match decisivo i supercampioni stentarono a imporsi sugli onesti pedatori dei Seattle Sounders; e Pelé non riuscì a segnare.
Merito anche del giovanissimo terzino che lo marcò: si chiamava Jimmy McAlister ( foto dell'epoca sotto e foto recente sotto  ) , aveva vent'anni ed entrò in campo solo perché i titolari erano infortunati. A fine partita Jimmy riuscì anche a portarsi a casa la sudatissima maglia numero 10 del giocatore più famoso della storia; da allora l'ha conservata gelosamente, senza mai metterla in vendita – e sì che varrebbe una fortuna – e senza nemmeno metterla in lavatrice...
A "quella sporca ultima maglia" è dedicato il servizio di copertina del numero del Venerdì di questa settimana ( foto   a sinistra    )  Dove Emanuela Audisio è andata a trovare Jimmy McAlister per farsi raccontare la sua finale da sogno («L'allenatore mi disse di bloccare Pelé anche a costo di mollargli un calcione», ricorda, «ma un tifoso non azzoppa il suo idolo» . sotto un estrattto dalla pagina online ( contiene degli estratti del settimanale , per il resto e per altri articoli la versione cartacea ) del settimale il venerdi di repubblica


SEATTLE.
Se ne andò per sempre dal campo, quarant’anni fa. Il 28 agosto 1977. Vincente, ma senza gol. Si liberò della sua maglia e la lanciò all’indietro, come a voler dire: stavolta è finita davvero
Aveva il numero 10 e il nome Pele. Gli dei non hanno bisogno dell’accento. Si alzarono molte braccia verso quell’eredità, anche se ancora nessuno sapeva che valeva quanto uno schizzo di Van Gogh. Jimmy aveva vent’anni, si attardò, era stanco, aveva marcato Pelé, non lo aveva fatto segnare, ma fece un ultimo scatto e afferrò quella che per l’America era solo una casacca sudata, ma per il resto del mondo una Sacra Sindone. Il numero 10 più famoso del mondo finì nelle mani del giocatore più sconosciuto del mondo. Una riserva, addirittura. C’erano 37 mila spettatori a Portland per la finale del Soccer Bowl, campionato nordamericano, Cosmos di New York contro Seattle Sounders. La squadra dei ricchi e famosi, di Pelé, Beckenbauer, Chinaglia, contro quella degli operai del pallone. I primi arrivarono allo stadio in limousine, gli altri in corriera, Pelé con le guardie del corpo. E alla fine i Cosmos ce la fecero: 2-1. Diventarono campioni.

 A segnare furono l’inglese Steve Hunt e l’italiano Giorgio Chinaglia, ma a essere portato in trionfo, mezzo nudo, fu O Rei, il grande seduttore, l’uomo dai tre Mondiali, dai mille gol, quello arrivato dal Brasile con una mission impossible: convertire l’America al soccer.
Quel ragazzo che quarant’anni fa prese la sua maglia ora ha 60 anni. Si chiama Jimmy McAlister,



 fa l’allenatore di calcio, perché è chiaro che se il destino ti consegna la bellezza, tu non puoi scartarla. Jim è l’ultimo uomo che ha marcato Pelé, 

che gli ha negato il gol, ma non se vanta. Sliding balls. «Giocai per caso, perché i due terzini davanti a me si erano infortunati. L’allenatore mi aveva detto: non dargli il tempo di girarsi, se riceve palla stagli appiccicato, anzi dagli pure un calcione, fagli sentire che ci sei, non lasciarti intimidire. Io una scarpata a Pelé? Mai e poi mai. Un tifoso non azzoppa il suo idolo. Del calcio brasiliano non sapevo niente, in tv allora non si vedeva, ma mai nessun calciatore si era guadagnato la copertina di Sports Illustrated, la bibbia dello sport Usa, e se non eri una star non ci finivi lì. Mi avessero riempito la testa di tattiche, mi avessero detto ecco come devi fermare laleggenda, sarei andato in confusione. Guadagnavo 1.800 dollari al mese, spiccioli. Pelé sei milioni per tre anni». Il suo non era un contratto da atleta, ma da performing artist, da professionista del palcoscenico. L’avvocato Norman Samnick, che lo ideò, aveva appena concluso quello di Dustin Hoffman per il film Tutti gli uomini del presidente, e per la firma si era dovuto anche scomodare il segretario di Stato, Henry Kissinger, altrimenti il Brasile non avrebbe lasciato andare quel patrimonio storico-sportivo dell’umanità. Nessun giocatore nero in America incassava così tanto, nemmeno i più famosi: il campione più pagato era O.J Simpson nel football Nfl, 700 mila dollari l’anno, seguito da Wilt Chamberlain, basket Nba, con 600 mila; anche Kareem Abdul Jabbar, la star dei Los Angeles Lakers, il più famoso gancio-cielo del mondo, nominato quell’anno miglior giocatore, era fermo a 600 mila. Per non parlare del dio del baseball, Hank Aaron, appena 200 mila dollari di stipendio, nonostante nel ’74 avesse battuto il record di Babe Ruth con 715 fuoricampo.
Ma Jim tutte queste cose non le sapeva. Era cresciuto giocando a pallone a scuola, in una comunità con molti scozzesi e irlandesi, a Seattle, sul Pacifico, patria di un altro Jimi (Hendrix) che suonava la chitarra in modo strano: «Avevo rispetto per Pelé, io ero un ragazzo di vent’anni che poteva a malapena permettersi un’auto, lui una celebrità, con lo stile del top-businessman, ai tempi il suo nome era più famoso della Coca-Cola. Va bene, non era più quello di una volta, ma nemmeno un patetico Buffalo Bill, si prendeva molta cura del suo corpo, cosa che qui non faceva nessuno, ed era sempre una forza fisica. Non dimenticherò mai gli occhi, vedeva tutto, intuiva i movimenti, la sua intelligenza in campo era fantastica. Io ero una giovane promessa del soccer, reclutata in un liceo di Seattle, uno dei pochi calciatori indigeni in una lega popolata di campioni stranieri, ero veloce, ma non statuario. Mi stampai su di lui, non gli dissi un parola, voglio dire nemmeno una parolaccia. Muto, gli augurai solo una buona partita, ma non era vero; mentre gli dicevo in bocca al lupo, dentro di me pensai: speriamo che non voglia finire in bellezza, che non si avvicini troppo alla porta, che non mi ridicolizzi rovinandomi la carriera. Avevo paura di finire io sul viale del tramonto, non lui: solo che io ero agli inizi, alla prima finale. Mi salvò l’incoscienza e la voglia di non farmelo scappare»... Continua sul Venerdì del 18 agosto



la seconda  un gesto    coraggiossimo  per  le cnseguenze  che  avrà  sulla   carriera   si sportivo  .  Uno  che    non  ci sta  alla regola    del




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 Negano minuto di silenzio per l'attentato di Barcellona: nuotatore non si tuffa dai blocchi

Ieri alle 11:34Aggiornato Ieri alle 12:49


E' successo ai Mondiali Masters di Budapest, con lo spagnolo Fernando Alvarez protagonista di questa particolare protesta dopo che il comitato aveva rifiutato la sua richiesta di eseguire un minuto di silenzio per le vittime di Barcellona: "Mi han detto che non si poteva perdere nemmeno un minuto, e così ho deciso di prendermelo da solo: certe cose valgono più di qualsiasi medaglia d'oro"
Una protesta dura, ma educata. Senza nessun tipo di violenza. Anzi. Una protesta che vale la pena essere sottolineata. Siamo ai Mondiali Masters di nuoto a Budapest (competizione aperta ad atleti con un'età uguale o superiore a 25 anni e divisi in categorie in base all'età, ndr) e anche lì gli atleti sono rimasti ovviamente sconvolti dagli attentati degli ultimi giorni, a cominciare da quello di Barcellona.

Così, il nuotatore spagnolo Fernando Alvarez chiede alla federazione un minuto di silenzio per ricordare le vittime della Rambla. Niente da fare. "Non c'è tempo", gli fanno sapere gli organizzatori. E così Fernando decide di prenderselo comunque quel minuto, decidendo di non tuffarsi dai blocchi di partenza mentre tutti i suoi avversari scattano in avanti alla caccia di una medaglia. Questa la sua testimonianza al quotidiano El Español.


" Avevo già nuotato venerdì nei 100m, poi i fatti di Barcellona hanno sconvolto un po' tutti e così venerdì ho deciso di mandare una mail al presidente visto che ne avevo ricevuta una da loro per partecipare alla festa di chiusura. Non ho ricevuto risposta. Così, prima della gara dei 200m, sono andato a parlare ancora con la direzione, ma mi han detto che non potevano farci nulla perché non si poteva perdere nemmeno un minuto visto lo schedule già prefissato della giornata. I fatti di Barcellona hanno colpito tutti, non solo noi spagnoli e credo sarebbe stato un buon gesto. E così quel minuto me lo sono preso comunque, fermo sul blocco mentre tutti si tuffavano. Non mi importa comunque, mi sento molto meglio così anche perché certe cose non valgono tutto l’oro del mondo..."




)

20.4.12

quando lo sport è indifferente se non complice di violazioni di diritti umani BAHRAIN E IL GRAN PREMIO DI FORMULA 1:

fonte   Doriana Goracci  dal gruppo  di facebok Information Guerrilla, ZabrinskyPoint .....  


Proteste e torture non fermano il Circo di Ecclestone Il Gran Premio di Formula Uno del Bahrain si farà. Lo dice Bernie Ecclestone, lo dice la FIA. E se anche qualche team tentenna per paura delle proteste antigovernative o di possibili attentati, Ecclestone non molla: il GP s'ha da fare. Intanto la rivoluzione bahrenina continua, nonostante le torture, gli arresti, gli assassinii, la repressione, la censura. Nonostante la F1.
Era stata preannunciata dagli attivisti che in Bahrein chiedono alla monarchia il rispetto degli ideali di libertà: la protesta è iniziata contro il gran premio di Formula 1 che si correrà domenica prossima.
La famiglia reale del Bahrain è azionista, attraverso un fondo d’investimento, della McLaren, team che in precedenza aveva manifestato interesse a non disputare la gara. In molti si chiedono se l’evento motoristico rappresenti una effettiva risorsa per il paese oppure sia solo un’occasione voluta dal potere per sviare l’attenzione sul crescente dissenso che agita il paese con proteste invocanti maggiore libertà. Formula 1 alleata del potere ? Nelle ultime ore viene registrato un aumento della tensione, con interventi della polizia che ha fatto uso di gas lacrimogeni contro i dimostranti dopo una forte esplosione avvenuta in una zona elegante della città. Si teme che da domani, venerdì, la protesta si sposti verso Sakhir, dove ha sede il circuito che ospita la Formula 1.
VIDEO F1: proteste in Bahrein contro la gara



p.s. quasi un anno fa ho scritto sul Bahrein...Donne rivolta poesia stupri e morte ammazzate Ayat al-Ghermezi

Gran parte del mondo conosce lo stato del Bahrain esclusivamente per la tappa del Gran Premio di Formula 1 che – fin dal 2004 – si disputa all'interno del Bahrain International Circuit. I più attenti, forse, ricorderanno che tale tappa fu già soppressa lo scorso anno a causa delle accese proteste che i bahreini avevano avviato contro la dinastia Al Khalifa (minoranza sunnita che, tra alti e bassi, è al potere da quasi due secoli e gode dell'appoggio politico dell'Arabia Saudita). Il colpevole silenzio mediatico che ha circondato e circonda gli accadimenti che da oltre un anno vanno in scena nel piccolo paradiso fiscale del Bahrain – nazione che conta poco più di un milione e duecentomila abitanti, ma che è ricca di giacimenti petroliferi e pietre preziose – non aiuta la comprensione riguardo il perché, anche quest'anno, siano in molti a chiedere che il Gran Premio di Formula 1 non sia disputato. Lo chiede Amnesty International, lo chiedono molti osservatori e artisti internazionali, lo chiede la popolazione. La ragione del boicottaggio è molto semplice: in questo momento in Bahrain i diritti civili vengono quotidianamente calpestati, la violazione dei diritti umani è frequente e diffusa e, per molti, non è possibile fingere per un paio di giorni che tutto ciò non esista, consentendo alla Formula 1 di mettere in scena il suo gran circo mediatico.
Stando a quanto affermato da Bernie Ecclestone, incontrastato padrone del semisconosciuto impero economico-finanziario soggiacente la Formula Uno, e dal presidente della FIA (Fédération Internationale de l'Automobile) Jean Todt, non c'è ragione di sospendere la tappa mediorientale perché non sussistono comprovate ragioni di rischio per la sicurezza dello show. Le automobili, il pubblico, i campioni, i team, i giornalisti, gli sponsor e tutti le fantasmagoriche comparse del mirabolante circo della F1 sono completamente al sicuro e libere dal rischio di attentati terroristici o invasioni del circuito. Tutto regolare. Tutto nella norma. Perciò, il prossimo 22 aprile, nessuno potrà impedire agli appassionati di Formula 1 di pasteggiare, ridere, emozionarsi, stappare champagne e brindare alla vita. E a chi importa se, a pochi metri di distanza e con il beneplacito del re seduto in prima fila accanto ad Ecclestone, uomini innocenti muoiono per la fame o per le botte? Evidentemente, il fatto di danzare sulla miseria di un popolo in lotta come se i problemi di cui chiede la risoluzione non esistessero, come se il tiranno di cui invocano la caduta fosse il legittimo governante, per Ecclestone & Co non è eticamente riprovevole. In fondo: the show must go on.
La tappa in Bahrainm, quindi, si disputerà. Questo Ecclestone ripete da giorni e ora anche la FIA gli fa eco. Solo i team non sono granché convinti della decisione, ma il buon Bernie ha già fatto loro sapere che “se alcuni team non vogliono correre sono liberi di farlo, non posso obbligarli, però devono accettare anche le conseguenze economiche di questa decisione”. Il punto, ovviamente, è di natura squisitamente economica. La tappa in Bahrain è una delle più redditizie per Ecclestone – il piccolo stato sborsa ben 45 milioni di dollari per ospitare il Gran Premio – e se lo scorso anno la monarchia versò il gettone nonostante il sopraggiunto annullamento della gara, quest'anno non lo farà. Ecco perché Bernie non tentenna nemmeno un istante nell'affermare di essere “sicuro al 200 percento” che la gara verrà disputata. E del resto non c'è di che stupirsi se si considera che, in una celebre intervista rilasciata al Times, Ecclestone dichiarò candidamente (salvo poi pentirsi di aver espresso le proprie idee in modo “così maldestro”) che nutriva grande ammirazione per Hitler e che, in generale, preferiva i regimi totalitari a quelli democratici. Nessuno stupore, quindi, davanti al fermo rifiuto di Bernie di annullare la tappa in Bahrain, ma la verità è che – considerata la situazione – una tale, cinica noncuranza potrebbe risultare generatrice di rabbia violenta, scatenando proteste dall'esito incerto e potenzialmente tragico. Per capire quanto il rischio sia concreto, però, occorre realizzare un breve excursus storico.La primavera araba in Bahrain
Per il popolo bahrenino, la rivoluzione del 14 febbraio 2011 è molto più di un istantaneo focolaio di protesta. Al centro della rivendicazione non c'è solo una reazione alla prepotenza che la minoranza sunnita al potere usa per imporsi sulla maggioranza sciita; quello che i bahrenini chiedono ha a che fare con la medesima spinta democratica che ha animato e anima l'intera regione. Il cuore della protesta – infatti – ruota intorno alle richieste di libertà politica, di eguaglianza sociale e religiosa, di riforme costituzionali e di rispetto dei diritti civili. Il 14 febbraio 2011, il popolo del Bahrain è sceso in piazza per ottenere tutto questo ma, ben presto, di fronte alla reazione violentemente repressiva del potere, i bahrenini hanno cominciato a chiedere soprattutto la fine della monarchia di re Hamad. Infatti, a solo quattro giorni dall'inizio della protesta, il 17 febbraio 2011, re Hamad autorizza un inqualificabile, barbaro massacro che viene ricordato dagli attivisti con l'espressione: Bloody Thursday, il Giovedì di Sangue.

Il 29 dicembre 2020 veniva uccisa Agitu Ideo Gudeta, la regina delle capre felici.

Il 29 dicembre 2020 veniva uccisa la regina delle capre felici.È stata ferocemente uccisa Agitu, la regina delle capre felici, con un colpo...