A volte basta davvero poco per essere felici e questi bambini ne sono la dimostrazione. In Rajasthan, nel nord dell'India, il video che mostra dei bimbi divertirsi mentre scivolano per una discesa di fango è diventato presto virale. "Altro che smartphone e videogiochi", si legge nei commenti che lodano la fantasia e l'entusiasmo dei più piccoli
Infatti è davanti a queste cose dobbiamo non solo riflettere moltissimo !!!! Imparare a non lamentarsi mai !!!!!! ed accontentarci di poco che abbiamo .Infatti i nostri figli e nipoti non sono mai contenti .. Perché non devono fare niente per ottenere tutto quello che vogliono, solo chiedere. Infatti che lezione di vita ,quando erano bambini i nostri padri o nonni spesso sopratutto nell'italia del 2 dopo guerra e nel sud con tanta miseria non : << avevamo neanche le cassette di plastica ,si prendeva un cassetto del canterano (tanto era vuoto ) si facevano dei buchi con infilati dei bastoni ai quali si inchiodavano delle stecche e si giocava con delle bacche ....... bei tempi >> dai commenti al video ( qui l'url diretto ) preso da https://www.facebook.com/Caffeinafestival/ fra i commenti oltre a quello citato prima di cui non ricordo la fonte mi è piaciuto in particolare questo di
In Colombia, a Medellin, una coppia di coniugi vive da più di vent'anni all'interno di una fogna.Una vita "sotto", una storia di disagio e povertà, ma anche la forza di resistere a tutti i costi. Miguel Restrepo, 62 anni, e Maria Garcia vivono a Medellin (Colombia) in un tombino. All'interno c'è quasi tutto: una cucinino, un ventilatore, una televisione e un giaciglio per dormire. Con loro anche il cane. La foto, che fa parte di una gallery, è stata scattata dal fotografo Raul Arboleda dell'agenzia Afp.
Proteste e torture non fermano il Circo di Ecclestone Il Gran Premio di Formula Uno del Bahrain si farà. Lo dice Bernie Ecclestone, lo dice la FIA. E se anche qualche team tentenna per paura delle proteste antigovernative o di possibili attentati, Ecclestone non molla: il GP s'ha da fare. Intanto la rivoluzione bahrenina continua, nonostante le torture, gli arresti, gli assassinii, la repressione, la censura. Nonostante la F1.
Era stata preannunciata dagli attivisti che in Bahrein chiedono alla monarchia il rispetto degli ideali di libertà: la protesta è iniziata contro il gran premio di Formula 1 che si correrà domenica prossima.
La famiglia reale del Bahrain è azionista, attraverso un fondo d’investimento, della McLaren, team che in precedenza aveva manifestato interesse a non disputare la gara. In molti si chiedono se l’evento motoristico rappresenti una effettiva risorsa per il paese oppure sia solo un’occasione voluta dal potere per sviare l’attenzione sul crescente dissenso che agita il paese con proteste invocanti maggiore libertà. Formula 1 alleata del potere ? Nelle ultime ore viene registrato un aumento della tensione, con interventi della polizia che ha fatto uso di gas lacrimogeni contro i dimostranti dopo una forte esplosione avvenuta in una zona elegante della città. Si teme che da domani, venerdì, la protesta si sposti verso Sakhir, dove ha sede il circuito che ospita la Formula 1.
Gran parte del mondo conosce lo stato del Bahrain esclusivamente per la tappa del Gran Premio di Formula 1 che – fin dal 2004 – si disputa all'interno del Bahrain International Circuit. I più attenti, forse, ricorderanno che tale tappa fu già soppressa lo scorso anno a causa delle accese proteste che i bahreini avevano avviato contro la dinastia Al Khalifa (minoranza sunnita che, tra alti e bassi, è al potere da quasi due secoli e gode dell'appoggio politico dell'Arabia Saudita). Il colpevole silenzio mediatico che ha circondato e circonda gli accadimenti che da oltre un anno vanno in scena nel piccolo paradiso fiscale del Bahrain – nazione che conta poco più di un milione e duecentomila abitanti, ma che è ricca di giacimenti petroliferi e pietre preziose – non aiuta la comprensione riguardo il perché, anche quest'anno, siano in molti a chiedere che il Gran Premio di Formula 1 non sia disputato. Lo chiede Amnesty International, lo chiedono molti osservatori e artisti internazionali, lo chiede la popolazione. La ragione del boicottaggio è molto semplice: in questo momento in Bahrain i diritti civili vengono quotidianamente calpestati, la violazione dei diritti umani è frequente e diffusa e, per molti, non è possibile fingere per un paio di giorni che tutto ciò non esista, consentendo alla Formula 1 di mettere in scena il suo gran circo mediatico.
Stando a quanto affermato da Bernie Ecclestone, incontrastato padrone del semisconosciuto impero economico-finanziario soggiacente la Formula Uno, e dal presidente della FIA (Fédération Internationale de l'Automobile) Jean Todt, non c'è ragione di sospendere la tappa mediorientale perché non sussistono comprovate ragioni di rischio per la sicurezza dello show. Le automobili, il pubblico, i campioni, i team, i giornalisti, gli sponsor e tutti le fantasmagoriche comparse del mirabolante circo della F1 sono completamente al sicuro e libere dal rischio di attentati terroristici o invasioni del circuito. Tutto regolare. Tutto nella norma. Perciò, il prossimo 22 aprile, nessuno potrà impedire agli appassionati di Formula 1 di pasteggiare, ridere, emozionarsi, stappare champagne e brindare alla vita. E a chi importa se, a pochi metri di distanza e con il beneplacito del re seduto in prima fila accanto ad Ecclestone, uomini innocenti muoiono per la fame o per le botte? Evidentemente, il fatto di danzare sulla miseria di un popolo in lotta come se i problemi di cui chiede la risoluzione non esistessero, come se il tiranno di cui invocano la caduta fosse il legittimo governante, per Ecclestone & Co non è eticamente riprovevole. In fondo: the show must go on.
La tappa in Bahrainm, quindi, si disputerà. Questo Ecclestone ripete da giorni e ora anche la FIA gli fa eco. Solo i team non sono granché convinti della decisione, ma il buon Bernie ha già fatto loro sapere che “se alcuni team non vogliono correre sono liberi di farlo, non posso obbligarli, però devono accettare anche le conseguenze economiche di questa decisione”. Il punto, ovviamente, è di natura squisitamente economica. La tappa in Bahrain è una delle più redditizie per Ecclestone – il piccolo stato sborsa ben 45 milioni di dollari per ospitare il Gran Premio – e se lo scorso anno la monarchia versò il gettone nonostante il sopraggiunto annullamento della gara, quest'anno non lo farà. Ecco perché Bernie non tentenna nemmeno un istante nell'affermare di essere “sicuro al 200 percento” che la gara verrà disputata. E del resto non c'è di che stupirsi se si considera che, in una celebre intervista rilasciata al Times, Ecclestone dichiarò candidamente (salvo poi pentirsi di aver espresso le proprie idee in modo “così maldestro”) che nutriva grande ammirazione per Hitler e che, in generale, preferiva i regimi totalitari a quelli democratici. Nessuno stupore, quindi, davanti al fermo rifiuto di Bernie di annullare la tappa in Bahrain, ma la verità è che – considerata la situazione – una tale, cinica noncuranza potrebbe risultare generatrice di rabbia violenta, scatenando proteste dall'esito incerto e potenzialmente tragico. Per capire quanto il rischio sia concreto, però, occorre realizzare un breve excursus storico.La primavera araba in Bahrain
Per il popolo bahrenino, la rivoluzione del 14 febbraio 2011 è molto più di un istantaneo focolaio di protesta. Al centro della rivendicazione non c'è solo una reazione alla prepotenza che la minoranza sunnita al potere usa per imporsi sulla maggioranza sciita; quello che i bahrenini chiedono ha a che fare con la medesima spinta democratica che ha animato e anima l'intera regione. Il cuore della protesta – infatti – ruota intorno alle richieste di libertà politica, di eguaglianza sociale e religiosa, di riforme costituzionali e di rispetto dei diritti civili. Il 14 febbraio 2011, il popolo del Bahrain è sceso in piazza per ottenere tutto questo ma, ben presto, di fronte alla reazione violentemente repressiva del potere, i bahrenini hanno cominciato a chiedere soprattutto la fine della monarchia di re Hamad. Infatti, a solo quattro giorni dall'inizio della protesta, il 17 febbraio 2011, re Hamad autorizza un inqualificabile, barbaro massacro che viene ricordato dagli attivisti con l'espressione: Bloody Thursday, il Giovedì di Sangue.
Il governo sostenuto dagli occidentali non è meno talebano di quello dei talebani e la condizione delle donne afghane è ancora quella di esseri umani di serie B.
foto tratta dal sito dell'articolo
I PROGRESSI - Ci sono stati alcuni miglioramenti nella condizione della donna da quando le truppe occidentali hanno invaso l’Afghanistan, ma a dieci anni di distanza dall’inizio dell’impresa le donne afghane vivono ancora in un medioevo maschilista, anche se alcune di loro oggi possono andare a scuola
INCARCERATE - Human Rights Watch denuncia proprio in questi giorni come più della metà delle donne detenute nelle carceri afghane sia stata condannata per adulterio o per essere fuggita dal marito. Reati che ovviamente non sono previsti per gli afghani e solo in questo paese sono considerati reati. Un clamoroso fallimento di uno dei motivi più pubblicizzati per l’invasione, che però non deve stupire.
I LIBERATORI - In Afghanistan non s’è visto nessuno di quelli che volevano liberare le donne afghane. Non gli uomini e nemmeno le donne, che non si sono mosse dalle loro case sicure in Occidente per andare ad aiutare le donne afghane nel loro difficile cammino d’emancipazione. E non si sono visti nemmeno i fini giuristi italiani che dovevano aiutare l’Afghanistan a darsi leggi e procedure compatibili con la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo e con il resto delle leggi internazionali che sono preposte a protezione della donna e al miglioramento della condizione femminile.
OGGETTI - Le giovani sono ancora date in sposa all’età di 12 anni o meno, il burka è ancora quasi obbligatorio e la legge protegge gli uomini che abusano delle donne punendo queste ultime persino se provano a fuggire dai loro aguzzini, che hanno potere di vita e di morte sulle femmine di famiglia come nemmeno in Arabia Saudita. Persino una blanda legge a protezione della donna, promulgata un paio d’anni fa, giace lettera morta perché tribunali e forse dell’ordine la ignorano.
STUPRATE DUE VOLTE - Anche la denuncia di uno stupro comporta la quasi automatica punizione della vittima e per questo non deve stupire che le denunce per stupro siano rarissime,visto che le autrici rischiano di subire altre violenze e torture per mano delle forze dell’ordine.
IDENTITA’ NEGATE - Pradigmatica anche la storia di una ex parlamentare donna come Azira Rafhat è travolta dal maschilismo imperante al punto da travestire una delle sue quattro figlie da maschio quando esce di casa, per evitare lo stigma sociale che accompagna le madri “incapaci” di dare alla luce un maschio.
TRADIZIONE LOCALE - Non certo un’idea originale, tanto che questi travestimenti hanno anche un nome, Bacha Posh e non sono infrequenti, perché un figlio maschio è un segno di prestigio ed onore, irrinunciabile per le famiglie di elevato standing sociale che non vogliano sentirsi dire di continuo che è triste che non abbiano dato alla luce un maschio. Ma può succedere anche alle figlie uniche, che non potrebbero andare in giro da sole con la loro identità femminile e in altri casi ancora. “Quando hai una buona posizione inAfghanistan e stai bene, le persone ti guardano in modo differente. Dicono che la tua vita è completa solo se hai un figlio maschio’, afferma la Rafhat. A fargli eco è il marito, Ezatullah Rafhat, convinto che avere un figlio maschio sia simbolo di prestigio e onore. “Chiunque veniva (a casa nostra, ndr) ci diceva: ‘Oh, ci spiace che non abbiate un figlio maschio’. Così ci è sembrata una buona idea mascherare nostra figlia, visto che anche lei lo voleva”, dice.
NON UN CASO ISOLATO – Ma quello della famiglia Rafhat non è un caso isolato inAfghanistan, dove in molti mercati si possono vedere ragazze abbigliate come maschi. Oltre a una motivazione sociale, dietro questa usanza vi sono anche ragioni economiche, in quanto un maschio puo’ lavorare piu’ facilmente in strada e sfamare la propria famiglia. Tra queste bambine che si presentano come maschi, di eta’ compresa tra i cinque e i 12 anni, ci sono venditrici di acqua e gomme da masticare. Ma questa condizione non dura per sempre e quando raggiungono i 17 o 18 anni tornano di nuovo femmine.
ELAHA – E’ il caso di Elaha, che per 20 anni ha vissuto come maschio a Mazar-e Sharif, nel nord dell’Afghanistan. Lo ha fatto perché la sua famiglia non aveva un figlio maschio e solo due anni fa ha riconquistato la sua identita’ femminile andando all’universita’, ma la riconversione non è stata semplice. “Quando ero piccola, i miei genitori mi hanno mascherato come un maschio perché non avevo un fratello. Fino a poco fa, come maschio, potevo uscire, giocare con gli altri e avere piu’ liberta”, racconta, sottolinenando cio’ che ora ha perso tornando donna. ‘Se i miei genitori mi costringeranno a sposarmi, compensero’ le sofferenze delle donne afghane e picchiero’ mio marito così forte che mi portera’ in tribunale tutti i giorni”, dice.
CHISSENEFREGA - Questa tradizione esiste da secoli in Afghanistan. Secondo Daud Rawish, sociologo a Kabul, potrebbe avere avuto inizio quando gli afghani iniziarono a combattere gli invasori e per questo le donne dovevano vestirsi come uomini. Ma Qazi Sayed Mohammad Sami, capo della Balkh Human Rights Commission, definisce questa usanza una violazione dei diritti umani. ‘Non possiamo modificare il sesso di qualcuno per un periodo. Non si puo’ cambiare una ragazza in un ragazzo per un breve tempo. E’ contro l’umanita”, afferma.
TRADIZIONE - Questa tradizione ha avuto effetti dannosi su alcune ragazze che sentono di aver perso memorie essenziali della propria infanzia e parte della loro identita’. Per altre, invece, e’ stata una esperienza positiva della liberta’ di cui, in quanto femmine, non avrebbero mai potuto godere.Una situazione intollerabile che invece è tollerata benissimo, perché una volta invaso l’Afghanistan l’interesse per la condizione delle donne afghane è evaporato all’istante, con una velocità tale da indurre molti a pensare che tante preoccupazioni per le donne afghane fossero solo ipocriti pretesti.