Nostra patria è il mondo intero e nostra legge è la libertà
12.1.16
La morte dell'idolo ©Maria Antonietta Pinna alias Mary Blindflowers
da http://controcomunebuonsenso.blogspot.co.uk/
Il "dolore" per la morte di un personaggio famoso è veramente dolore?
Direi proprio di no. In riferimento alla morte di Bowie, frasi del tipo: “oggi è morto dio”, “oggi è morta una parte di me”, “i miei parenti possono anche morire ma non riesco a sopportare la morte di Bowie”, oltre ad essere grottesche, rappresentano la negazione del dolore nel momento stesso in cui lo affermano con tanta insistenza.
Si assiste ad una sorta di identificazione di massa, una mistificazione della coscienza in cui ogni uomo medio si rende conto che anche gli idoli in cui fino al giorno prima si identificava moriranno, esattamente come lui, come tutti. Non è affatto dolore, è soltanto la paura della propria morte veicolata nel simbolo, unita al desiderio che il punto fermo rimanga inossidabile nel tempo e possa perfino sfidare i secoli. Capire questo richiede capacità analitiche che consentano di superare la spiccata tendenza all'investimento ipnotico-narcisistico presente in ogni uomo. Il movimento principale del narcisismo libidico è caratterizzato da un eccesso di idealizzazione del Sé che va nutrito e curato tramite un processo naturale di identificazione con oggetti protettivi ed introiettivi, i cosiddetti oggetti buoni, dotati di qualità particolari.
Nietzsche si chiedeva come mai ci siano al mondo più idoli che realtà. Forse perché l'idolatria è un processo dalle dinamiche elementari, che non richiede grandi sforzi interpretativi del reale, un processo comodo, facile per la massa e gestito opportunamente dalla pubblicità.
L'idolo, che sia dio o una rockstar, infatti è rassicurante, stabilizzante, un punto di riferimento per equilibri fragili, a tal punto essenziale che l'adoratore lo introietta sentendolo parte di sé, di quel sé identificato nella rassicurante sintesi del simbolo buono.
E se il corpo fisico del simbolo dovesse mai morire, deteriorarsi, seguendo la sorte di ogni comune mortale non divino, l'idolatra si sentirebbe perfino stupito.
Ma come? Dio non muore, il vampiro nemmeno, che dolore! Non è possibile!
L'adoratore sentirebbe di morire in parte con lui e confonderebbe il dolore per quel suo Sé identificato e mesmerizzato con il dolore per l'idolo che, di fatto nella realtà è e rimane un perfetto sconosciuto. Non a caso si dice sempre che non bisognerebbe mai conoscere veramente i propri idoli. Infatti, meglio evitare la conoscenza diretta, perché l'idolo attiene ad un mondo che non è reale, fa parte di una sofisticazione, è un miraggio, un inganno del subconscio che ha bisogno di nutrirsi di favole per continuare a darsi una ragione di vita, nel mondo, in poche parole per esserci ancora e sciorinare la propria presunta sensibilità.
Così magari mentre l'idolatra apprende alla Tv la dolorosa notizia della morte di Bowie, il vicino, proprio nell'appartamento accanto, sta riempiendo di botte la moglie. L'idolatra alza la Tv per non sentire niente e comincia a piangere per la morte del mito mentre la signora della porta accanto viene massacrata.
16.2.09
Il mito del vampiro
La nascita del mito del vampiro
Cercare l’origine del mito del vampiro è un’impresa pressoché impossibile, in quanto esso è universalmente conosciuto, seppure con nomi e caratteristiche diverse.
Anche chiarire l’etimologia della parola ‘vampiro’ non è facile. L’ipotesi più probabile è che derivi dal magiaro ‘vàmpir’, una parola di origine slava che si ritrova nella stessa forma in russo, polacco, ceco, serbo e bulgaro. Nella sua forma ‘vampir’ (russo meridionale ‘upuir’, forma arcaica ‘upir’) è stato confrontato con il lituano ‘wempti’ = bere. Sono anche state rilevate affinità con la radice indoariana ‘ud’ o ‘wod’, da cui derivano il greco ‘udor’ e il serbocroato ‘voda’, cioè acqua. Le parole ‘delfino’ e ‘utero’ hanno lo stesso etimo. In Grecia, il termine attualmente in uso per indicare il vampiro è ‘brukòlakas’, che può essere traslitterato come ‘vrykolakas’, di origine slava. La parola slovena ‘volkodlak’ sarebbe infatti l’equivalente dell’inglese werewolf. L’unica lingua in cui questa parola viene associata al vampiro è il serbo, in quanto il popolo slavo (e soprattutto i serbi) crede che un uomo che è stato in vita un lupo mannaro può dopo morto diventare un vampiro.
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