Da Palermo arriva una lettera emozionante contro le logiche meritocratiche ed escludenti. Con un grazie a Bruni e una storia che mi ricorda quella di mia madre e dice ciò che può fare la scuola e che dentro la scuola fanno donne e uomini di valore, che sanno “vedere” tutti i talenti e li aiutano a sbocciare
Gentile direttore,
vorrei rivolgermi al professor Bruni, e mi sembra strano chiamarlo così, perché sono professoressa anch’io e inoltre sono più anziana di lui. Ma la lettura di alcuni suoi articoli pubblicati su “Avvenire” è stata per me così illuminante (alcuni li ho utilizzati per scopi didattici) che non posso che chiamarlo così. Detto questo, oggi scrivo col cuore, dopo avere letto l’articolo dedicato al libro “Cuore” e concentrato sul concetto di “merito”, proprio quello aggiunto al Ministero dell’Istruzione (“Avvenire”, 23 ottobre 2022). Anch’io ho avuto una reazione di fastidio non appena l’ho sentito per la prima volta. Vede io sono la “muratorina” del suo articolo. Mio padre odorava, ed era sporco, di calce. E a 5 anni ho subito quella che lei magistralmente, chiama «profanazione del cuore». Infatti, la mia maestra, una suora, nel tentativo di fare un complimento a mia madre, disse che “non sembravo figlia di un muratore, ma sembravo nata sui tappeti”. Così capii la divisione in classi e soprattutto che essere figlia di muratore non era una cosa buona. Sono cresciuta con uno strano dono rispetto all’ambiente che mi circondava: amavo i libri e la scuola. Sicuramente era un dono che ho avvertito prestissimo. La scuola era tutto per me. Ed è stata proprio la scuola della mia Repubblica che mi ha mandato avanti fino alla laurea, ma non senza difficoltà. Già alle scuole elementari avevo capito che volevo laurearmi e fare l’insegnante (allora dicevo «la maestra») ma per i miei genitori era già tanto farmi arrivare al diploma. Io, invece, a 13 anni ho deciso che avrei frequentato il liceo scientifico, imbrogliando mia madre che voleva mandarmi all’istituto tecnico per geometri. Non so perché mi sentivo attratta da materie, come latino e filosofia, pur non avendo idea di che cosa avrei incontrato. E proprio l’insegnante di latino fu il primo scoglio. Non mi sopportava, mi diceva che dovevo cambiare scuola e frequentare un istituto professionale perché ero «negata per il latino» (la maggioranza dei miei compagni aveva un insegnante privato oppure genitori diplomati che li aiutavano, i miei solo la seconda elementare).
Sono negata per il latino! È vero: ho preso lezioni private da adulta e non sono riuscita a compensare il vuoto, perché rivedo sempre quella lavagna e me, tredicenne (ero un anno avanti), muta che ascolto le sue parole: «È inutile che stai lì, tanto non lo capisci». Invece, io, la lotta di classe e in classe la capivo benissimo. Sono testardamente rimasta al liceo (avevo altri insegnanti che mi sostenevano), mi sono laureata in filosofia e ho vinto un concorso a cattedra per insegnare italiano nelle scuole superiori. Così sono professoressa da 32 anni e per 20 ho insegnato in un istituto professionale di Palermo collocato vicino al quartiere Zen (non so se il professor Bruni lo conosce).
Ho avuto alunni a cui ho insegnato l’ortografia di base, ho fatto educazione antimafia, ho onorato la memoria dei nostri morti e dei sindacalisti uccisi dalla mafia; soprattutto ho sperato che tutti loro facessero un salto di classe come era successo a me. Ma per tanti non è stato così. In ogni caso, mai a nessuno ho detto: sei negato. Mai! A volte, quando leggo gli articoli di cronaca della mia città, e noto che non ci sono miei ex alunni tra i malfattori, mi piace pensare che forse ho contribuito a trasmettere anche l’amore per l’onestà e il senso civico. Sono stata la professoressa degli ultimi e, realmente, alunni con il dono dell’amore per la scuola ne ho incontrati pochissimi. A tutti ho dovuto trasmetterlo io nei modi più disparati e, a volte, disperati, con metodi da inventare volta per volta (tra cui una raccolta punti che funziona perfettamente), con i pochissimi strumenti che ci fornisce l’istituzione scuola. Mi sono sempre trovata senza proiettori, né aule lettura, né aule calde e accoglienti, né cartine geografiche. Aule che sembrano celle, in cui ho insegnato e insegno portandomi dietro un proiettore comprato con i miei soldi (neanche il bonus docente lo riconosce come strumento didattico). Complessivamente, credo di avere fatto solo il mio dovere, rispecchiando il senso del lavoro che mi ha insegnato mio padre. Perché le ho scritto, perché mi rivolgo a Bruni? Per conforto, perché ho colto nel suo articolo un sentimento simile al mio e cioè che la scuola è e deve essere per tutti ed è la presenza tangibile di quella Repubblica delle stesse opportunità in cui credo fermamente. Grazie professore. Grazie da parte mia e dai miei studenti che ancora non sanno quello che diventeranno.
Piera Verace, professoressa Palermo
Il suo racconto, gentile e cara amica, mi ha emozionato. E condivido il suo ringraziamento a Luigino Bruni, che domenica scorsa – all’interno delle bellissime riflessioni che sta sviluppando tra grande letteratura ed economia (oggi continuano con il “Pinocchio” di Carlo Collodi) – ha dato un “la” potente alle nostre nuove messe a punto sul tema del merito e della meritocrazia, questione riaccesa dal cambiamento di nome del Ministero dell’Istruzione con l’aggiunta “e del Merito” e alla quale ieri abbiamo dedicato tre densi commenti.
Nodo che affrontiamo criticamente col nostro lavoro di cronaca e di analisi da molti anni, cercando di smontare luoghi comuni e di contrastare passi indietro nella scuola e nella società. Per questo ho deciso di lasciare a lei e alla sua voce limpida e forte gran parte di questo spazio di dialogo domenicale con i nostri lettori e le nostre lettrici. La sua storia e la sua vita di donna di scuola è diversa e uguale a quelle di tante e di tanti che hanno fatto fruttare i propri talenti pur partendo da condizioni svantaggiate e dovendo sovvertire le logiche meritocratiche e classiste che hanno a lungo dominato nel mondo dell’istruzione. La sua è una storia che mi tocca fortemente, per la bellezza in sé e perché ha punti di contatto con quella di mia madre, Graziella, che era figlia di artigiani (mio nonno materno falegname, mia nonna sarta) e che – nell’Italia degli anni Quaranta del Novecento – perciò era stata inesorabilmente instradata all’avviamento professionale, una volta il “secondo tempo” della scuola dei meno abbienti e vicolo cieco che precludeva ogni ulteriore possibilità di studiare. Era brillante e tenace come lei, quella ragazzina di Assisi, e spinta da alcuni insegnanti che s’incaricarono di motivare a dovere anche i genitori in pochi mesi pareggiò i conti con chi aveva frequentato le scuole medie, imparò pure il latino, e venne ammessa all’istituto magistrale, diventando poi maestra a neanche 18 anni.
Solo la morte prematura del padre, e il dovere di mantenere la madre divenuta disabile, le impedirono di laurearsi e di studiare anche il pianoforte che amava tanto. Ha insegnato tutta la vita, mia madre, seminando tanto e bene proprio come lei, gentile professoressa Verace. E io ne so qualcosa perché, ancora oggi, a distanza di anni, raccolgo frutti di stima e gratitudine da chi ha goduto del suo doppio magistero, che ha formato persone e cittadini. Questo è ciò che può fare la scuola e che dentro la scuola realizzano donne e uomini di valore, che sanno “vedere” tutti talenti e i accompagnano a sbocciare, senza rinchiuderli in gabbie o annientarli di pregiudizi. Grazie ancora, professoressa. E ancora buon lavoro.