Visualizzazione post con etichetta reportage. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta reportage. Mostra tutti i post

14.3.23

reportage su primaveraingiardino milis 2023


Come tutti gli anni eccetto nei due anni di pandemia siamo stati invitati come le altre edizioni come espositori in quanto di piante rare ( le camelie nel nostro caso. ) alla   manifestazione    “Primavera in
Giardino“,   divenuta     benel  c0rso  degli anni    la più importante manifestazione in Sardegna dedicata al vivaismo specializzato, con espositori da tutta Italia e dall’estero. In programma, come ogni anno, ci sono tante esposizioni, consigli e curiosità sia per gli esperti del settore che per gli appassionati di giardinaggio (tra giardini, orti e frutteti).
Foto nostra locandina  di questa  edizione  all'edizione primavera in giardino di Milis .l 11 e  il  12    di marzo   Però Quest'anno per motivi gestionali burocratici si è tenuta non nel suggestivo agrumeto giardino di Milis , ma bensì presso la “Ros’e Mari Farm & Green house” in località Pauli Cannedu, a Donigala Fenughedu, frazione di Oristano, subito a nord della città. . Uno spazio   bellissimo       sia  da  quel poco   che  sono riuscito     a  vedere     ed  a  girare   durante le i  tempi  morti   della  vendita   sia     dalla  loro  storia   sia    dalle   foto  del sito  https://www.rosemarifarm.it/  .  Infatti  Esso  è  (  ancora  in   work  progress  )   un posto    in  cui   La natura ha ripreso dopo la chiusura dell'ex vivaio i suoi spazi ed ha creato meravigliosi ambienti affascinanti tra le strutture . Passeggiate tra le piante aromatiche, improvvisi scorci di bosco, gallerie fiorite accompagnate da rose e glicini e distese di prati all’aperto .La famiglia Schirru, composta da: Lucia, insieme al compagno Gian Michele Pilo e al nipote Davide Schirru, hanno rilevato nel 2019 l’Agricola Rosmarino, un vivaio nell’Oristanese. L’ingresso fu scoraggiante, con una situazione di totale abbandono e decadenza. Ma loro, grazie alla passione e al lavoro di squadra, hanno riportato l’uomo dentro gli 11 ettari di vasto parco, trasfigurato ormai in una giungla vergine. .
Ritornando   alla  mia  esperienza  Sono  contento   d'aver  partecipato   a  tale  manifestazione      cosi  importante    qui   un  servizio   che  anche  il  sunto  della  manifestazione    a   cui  è  tratta  l'immagine  a  destra   e qui delle  ottime  foto     altro  che    le mie  .  Sono  contento   d'aver  ritrovato   vecchi  clienti     che  già avevano  acquistato  da  noi  nelle  edizioni precedenti  di   Milis  o  appassionati   di  vivaismo   vengono  a milis   solo  a trovarci  .    espositori       degli standard     vicini   .,  ma  anche   nuovi amici  in  particolare  Rosalba Loi  e  Luigi Pinna
  e    quelli  del bellissimo    B&B Torremana di Cabras  ed  e  loro  deliziose   colazioni  di  dolci  fatti  in  casa   ed  la  loro  gentilezza    ed  solidarietà   visto   che    sono venuti  alo standard  non solo  a  salutarci  ma   ad  acquistare  una  camelia  ed   ci  hanno consigliato  una buonissima pizzeria   a  prezzi  abbordali  . 


3.2.23

Happie, la regina di Mkuru di Stefano Lotumolo Photographer




In viaggio ricerco sempre un equilibrio diverso. Mi trovo spesso a contatto con culture e tradizioni differenti dalla mia e da quando ho iniziato a giudicare il meno possibile, mi sono trovato a ottenere in cambio insegnamenti preziosi.
Vivere ai piedi del Monte Meru nella zona arida significa faticare per avere acqua, compito che spetta spesso o quasi sempre alle donne. Durante la giornata di carico si parte con gli asinelli per raggiungere la fonte pulita più vicina, quando ce n’è una.
Ovviamente l’utilizzo di acqua durante la giornata è razionato e l’igiene dei bambini è per forza di cose relativo al contesto, alle loro abitudini.
La regina comunica con gli occhi e con il cuore. E ride spesso, emana energia e amore e sogna una lavatrice. Tra un mese avrà il terzo figlio e per farla ridere le ripeto sempre : Philipo 3 Stefano 0.

le  altre le   trovate     qui dal  suo     account   facebook  https://www.facebook.com/stefanolotumoloofficial/


9.9.21

Il coraggio di Lucia Goracci che sfida il militare talebano a guardarla in volto | VIDEO

Si possono   fare cento interviste, dieci reportage, mille ore di girato, ma alla fine ci sono frammenti, gesti, frasi o istantanee rubate che mostrano esattamente, in modo chirurgico, la situazione per quello che è (davvero). Ecco, questo è uno di quei momenti, ed è quello che fanno i grandi giornalisti, com’è Lucia Goracci. Un momento di servizio pubblico.

Il coraggio di Lucia Goracci che sfida il militare talebano a guardarla in volto | VIDEO

Lucia Goracci è tornata a Kabull per continuare il suo lavoro da corrispondente, nel servizio in onda ieri lo scontro con un talebano della brigata Badrì

  •  
  •  
goracci badrì afghanistan

Lucia Goracci, giornalista Rai. E’ la sua la voce che arriva dall’Afghanistan nel nostro paese, oltre ogni ragionevole dubbio il coraggio delle giornaliste italiane è inquantificabile. Non facile buonismo, ma coraggio vero. A raccontare i fatti afghani in Italia sono state due croniste, donne (con lei anche Cecilia Sala), in un paese che ha marcato il cambio di rotta proprio nel mutamento delle possibilità consentite al genere femminile. Tornate anni addietro in materia di diritti.

 L’inviata Rai Lucia Goracci faccia a faccia con un soldato afghano che non la guarda in volto. Lo scambio

Goracci, inviata Rai, è tornata a Kabull da pochi giorni. Era andata via con l’ultimo volo degli italiani, ed ora è di nuovo in Afghanistan. Nel servizio andato in onda ieri su Rai 3 la cronista è ripresa mentre ingaggia un colloquio acceso con un militare talebano, una delle forze d’elite.

“Perchè non mi guarda in volto?” chiede l’inviata del servizio pubblico, dopo aver rivolto diverse domande alla guardia armata fino ai denti. Lui accaldato ed in mezzo alla gente con un fucile ben saldo tra le mani, ed una serie di ordigni legali sul corpo pronti ad essere utilizzati, risponde “Non mi è permesso guardare in faccia le donne”. E’ un membro della Brigata Badri, spiega Goracci, la divisione d’assalto che utilizza le armi americane. Ha gli occhiali sul volto, non si sa bene dove stia guardando. Sarebbe bello se il suo sguardo fosse in camera, dove finirebbe negli occhi di migliaia di donne davanti allo schermo.

16.4.20

“I medici e mia madre. Quel fotoreportage tra la vita e la morte”

Queste foto sono state scattate negli ospedali lombardi nei giorni peggiori della crisi

. Una foto presa col cellulare, come ne facciamo tutti, dopo averne fatte a decine di migliaia di professionali, come fotoreporter. Nel giorno in cui il suo reportage sugli ospedali lombardi assediati dal virus esce come storia di copertina del New York Times Magazine, Andrea Frazzetta guarda con struggimento la fotografia che gli rimarrà nel cuore: mamma Anna, dietro al vetro di una finestra, scosta la tendina ricamata e sopra ai vasi di gelsomini gli manda da lontano un sorriso assieme rassicurante e dolente. [  FOTO  A  SINISTRA   ] 

L’ultimo. Come decine di migliaia di italiani, Andrea non ha potuto starle vicino nell’estremo istante, né salutarla un’ultima volta in chiesa o al cimitero. Una fotografia, una fra le decine di migliaia della sua vita, è quel che gli resta. «Le ho fatto così pochi ritratti», rimpiange, «lei così orgogliosa del mio lavoro... Noi del mestiere facciamo così, nella vita privata fotografiamo poco». Questo tempo d’eccezione ha ribaltato anche questa cosa. Il fotoreporter non è solo un testimone, adesso. Entra nella sua storia. La favola parla anche di te, gli dice il virus. E il lupo cattivo bussa alla tua porta.




A 43 anni, Andrea è un fotoreporter stimato nel mondo. Si muove tra Africa, Giappone, Amazzonia, lavora per grandi testate, dal National Geographic allo Spiegel al Guardian all’Espresso, su temi planetari: l’uomo e la crisi ambientale. «A gennaio ero a New York, per progettare un servizio in Cina. Appena uscito dall’ufficio di Kathy Ryan, la photoeditor del Times, lessi sul cellulare dei primi contagi a Wuhan. Sull’aereo che mi riportava a Milano c’era già nervosismo». Ovviamente, saltano tutti i programmi. Quando il Covid aggredisce l’Italia, il magazine americano gli chiede un servizio. Ma che cosa si mostra di un Paese in quarantena? «Quel rito serale dei numeri non lo sopportavo più, 516 morti, no, di più, di meno, una lotteria senza cuore, non può rimanere solo questo, mi sono detto». Allora, cosa? «C’era un selfie, lo vidi sui social. Quello dell’infermiera di Grosseto che si toglieva la mascherina, con i lividi sul volto per lo sfregamento, e scriveva: non vanificate i nostri sforzi. Era il 10 marzo. L’Italia chiudeva. Ho capito cosa fare».




Ottiene i permessi. «Stare al sicuro, rispettare gli altri: ma anche documentare è un dovere, è il mio mestiere». Comincia il giro negli ospedali. Chiede a medici, infermieri, inservienti, di posare per un ritratto, a fine turno, nel momento in cui si tolgono la mascherina. «Volevo l’emotività di quelle persone, la loro stanchezza, la loro consapevolezza. Il medico con gli occhi lucidi. L’infermiera che mi ha detto ok, capisco, fammi la foto, ma non chiedermi nulla». Sono foto essenziali, veloci, fatte nei corridoi. Poche righe di testimonianza. «Volevo che quei volti dicessero: non siamo eroi, non abbiamo un nemico, abbiamo una comunità». Il 19 marzo, uscendo dall’ospedale di Brescia, gli arriva una chiamata da mamma Anna. Tossisce, ha la febbre. «Un tuffo al cuore». Lei ha 69 anni ma lavora ancora, in un luogo ad alta frequentazione sociale, la reception di un centro congressi. «La obbligo a chiamare il 118. Le dicono di stare in casa, le prescrivono tachipirina. La febbre scende. Mi dico, dai, forse non è il virus». Due giorni dopo le porta a casa la spesa: pane, latte, surgelati, disinfettanti. Gliela lascia sullo zerbino. Da fuori la chiama al telefono. Lei si fa vedere dalla finestra chiusa, sta al piano terra. «Parliamo da lontano, ci facciamo gesti, visto che ho il cellulare in mano le faccio una foto, più come messaggio che per l’immagine. Abbasso la mascherina per mimare un bacio. Per un microsecondo mi dico: e se fosse l’ultimo?».




Domenica 22 la febbre risale. All’alba un’ambulanza porta Anna in ospedale. «La sera del ricovero il rianimatore me la passa, sul suo telefono avvolto nella plastica. Mi dice sto bene, non ti preoccupare. Quella sera parla anche con mia sorella, con mio padre Vincenzo, ricoverato in un altro reparto. Credo che il medico abbia pensato che fosse giusto darci la possibilità di un’ultima telefonata d’amore. Tre giorni dopo la chiamata che nessuno vorrebbe mai ricevere». Dall’ospedale Sacco aveva già avvertito il New York Times: il servizio finisce qui. Adesso Andrea è in quarantena, con la moglie e il figlio di quattro anni. Papà sta meglio. Il lavoro fotografico è comunque uscito. Colpisce al cuore. «Non so se sia buono o no. Credo fosse necessario. Non so dire quali immagini resteranno di questo tempo. Credo debba restare il senso di umanità che ho sentito attorno a me. Una vicinanza di specie. Se le fotografie ce lo ricorderanno, dopo, forse ci aiuteranno a non dimenticare in quali condizioni viviamo su questo pianeta. Non so come sarà la vita dopo il virus, ma nulla dovrà essere come prima».

7.1.18

Oltre Non si può migliorare se non si è vulnerabili.pronti ad accogliere.oltre i pregiudizi: cinque anni tra gli zingari nelle immagini di Andrea Ciprelli



«L'emarginazione deriva anche da comportamenti acquisiti da culture antichissime. Gli zingari girano il mondo da più di duemila anni, se vogliamo credere a Erodoto. Questi Rom, questo popolo libero è affetto da dromomania, cioè desiderio continuo di spostarsi. Non credo abbiano mai fatto del male a qualcuno, malgrado le strane dicerie; è vero che rubano - d'altra parte non possono rinunciare a quell'impulso primario presente nel DNA di ciascun essere umano: quello al saccheggio, di cui abbiamo avuto notizie in queste ultime amministrazioni - però non ho mai sentito dire che abbiano rubato tramite banca. Inoltre non ho mai visto una donna Rom battere un marciapiede. Girano senza portare armi; quindi se si dovesse dare un Nobel per la pace ad un popolo, quello Rom sarebbe il più indicato.»

[ Introduzuone  fatta  dalo stesso Fabrizio de  Andrè  al brano Khorakhané (A forza di essere vento) durante il concerto al Teatro Valli di Reggio Emilia (6/12/1997) ]



La fotografia è un invito a fare un passo oltre, a prestare attenzione, a rivalutare ed a volte ricostruire. Non si può migliorare se non si è vulnerabili.pronti ad accogliere.pronti a cambiare. ( Andrea crispelli ) . Infatti  oltre cinque anni ci sono voluti per realizzare il reportage di Andrea Ciprelli ( http://andreaciprelli.it/  )  classe 1985, fotografo specializzato in ritratti e matrimoni. Le immagini, che raccontano uno spaccato di vita intimo, mai realizzate prima a Torino, immortalano diversi momenti delle popolazioni Rom che vivono sulle sponde dei fiumi della città. Fotografie intense e coinvolgenti che mostrano una realtà d’altri tempi, per realizzare le quali il fotografo ha dovuto entrare in contatto con le varie famiglie Rom 
dal  suo  sito 
che hanno abitato e abitano tutt’ora nei campi, creando così un rapporto che gli ha permesso di immortalare momenti rari, come matrimoni,


Oltre i pregiudizi: cinque anni tra gli zingari nelle immagini di Andrea Ciprelli
                               da  http://torino.repubblica.it/cronaca/2018/01/05/foto/


feste ai principi e alle principesse Rom arrivate da altri paesi d’Europa, fidanzamenti, feste religiose e momenti quotidiani come un bagno nella Stura o la nascita di un nuovo figlio. Le immagini, che presto saranno esposte in una mostra - sono state realizzate tra il 2010 e il 2016 nei campi di via Germagnano, lungo Stura Lazio e corso Vercelli. "Le persone che hanno visto le mie fotografie - racconta il fotografo - si chiedono come io abbia fatto a passare così tanto tempo con gli zingari, come abbia fatto a non odiarli, a stargli vicino, a mangiare nelle loro baracche e condividere anche le posate. Ho intrapreso la strada più difficile, cioè quella dell’amore, perché io li ho amati, fin da subito. E quell’amore è diventato il mio reportage

Un reportage  coraggioso   in tempi in cui i fantasmi del passato (  exenofobia , razzismo  , eccessivo  populismo e qualunquismo  )      ritornano    più forti  . Infatti  l'autore  scrive  introducendo   il suo reportage  , di  cui  alcune foto  sono presenti qui     nel post  e le altre qui nelll'introduzione a tale lavoro : <<  Il mio piu’ grande atto di coraggio e’ finito per diventare il mio primo grande progetto.
Scaldarsi con un braciere, mangiare nello stesso piatto, lavarsi nel fiume,  volevo rivivere una realta’ antica, scomparsa. La mia notte moderna fatta di cocktail era migliore di quella?Mi ripetevo che non aveva senso andare a trascorrere le mie giornate, le  mie nottate  con loro, in quei posti da dove ti insegnano a starci alla larga fin da piccolo.Li ho cercati  per sentire il battito dell’altro che mi sta di fronte, ed e’ come me: Impaurito, irrequieto, disilluso, disorientato. Non voglio condannarmi all’incapacita’ cronica di confrontarmi con l’altro, non voglio perdere la mia curiosita’.In quel bosco, Sulle rive del  fiume ho visto crescere i bambini , gli uomini invecchiare. In 5 anni e’ come se ne fossero passati 10. Non ho solo fotografato. Ho vissuto con loro. La Pasqua, il Natale, la celebrazione dei Santi, le feste dei matrimoniinterminabili. Le persone spesso mi chiedono ma come hai fatto a entrare? Si sono fatti fotografare? Perche’ non accettano che sia stato possibile. Non vogliono crederci perche’ conoscono la realta’ in quel modo. Non si spiegano che invece  di odiarli, li abbia amati, ci siamo amati.Sono tornato li tante volte. In quel bosco sentivo ancora la musica, vedevo ancora i bambini correre a piedi nudi. Ho salvato quello che ho potuto, i teli colorati appesi alle pareti delle rouloutte, le gonne a fiori. Li ho raccolti. Il fiume me li aveva lasciati li.Stanno perdendo le loro tradizioni le loro regole, e insieme a loro stiamo perdendo anche noi. Sono loro gli ultimi indiani d’Europa, e come quelli d’America speriamo di poterli confinare tutti e voltare pagina?  >>


d  visto che  siamo   vicino alla   " stucchevole    "    e retorica    giornata    del 27 gennaio  che  ricorda  , salvao eccezioni     , soo u olocausto   ( quello  del popolo ebraico  )    ne  approfitto per   segnalare   attraverso la musica  (  grazie   https://www.antiwarsongs.org/ per  l'elenco   che trovate qui )  il Porrajmos  ( olocausto \  genocidio   nei lager  hitleriano del popolo rom  ) 

4.7.17

CIBO , CAFFE' ,AMORE , MORTE ED ALTRE STORIE

CIBO E  CAFFE'

Ciccio Sultano: "Io, cuoco siciliano, sfido la burocrazia per difendere i sapori più veri"
Sultano all'ingresso del ristorante Duomo in via Capitano Bocchieri

Ragusa, 15 anni a mettere costantemente a punto la sua idea di gastronomia, dal Duomo ai Banchi all'Aia Gaia. Anche a costo di entrare in conflitto con regolamenti e cavilli.
di ELEONORA COZZELLA

.La bottarga di tonno preparata e stagionata con le sue mani, così come la toma fresca. Si può? No, non si può. “Ma lo faccio lo stesso. Il futuro della cucina è "l’illegalità", un’arma che uno chef deve a volte usare. Perché dobbiamo difendere non solo i prodotti tradizionali ma anche il gesto che ci sta dietro. C'è competenza-storia-magia nel portare il latte, naturalmente crudo, alla temperatura giusta, versare il caglio, aspettare che diventi quasi solido e col bastone rompere la cagliata in frammenti, mescolare… Il gesto è storia, è cultura. Dunque è un valore da difendere”.
Ciccio Sultano controlla la stagionatura della bottarga di tonno

Ciccio Sultano è il signore della gastronomia di quel continente che è la Sicilia. Da quindici anni ha costruito a Ragusa Ibla con il suo “Duomo” una tavola dove la storia millenaria della cucina siciliana, le sue stratificazioni frutto del susseguirsi di dominazioni – spagnoli, arabi, normanni – e il ruolo baricentrico nelle comunicazioni di un’isola chiave del Mediterraneo, trovano insieme la strada della contemporaneità. Facendo dialogare preparazioni antiche con la leggerezza richiesta da palati odierni, la qualità delle produzioni artigianali selezionate con la ricerca filologica di un sapere. Ed ecco allora la sua provocazione dei prodotti illegali: battaglia culturale più che una pratica diffusa, ovviamente.
Ciccio Sultano spiega la preparazione della bottarga di tonno nel suo laboratorio

“Una cucina moderna che guarda al territorio, che vuole esprimerne la storia e l’identità, deve sapere che dietro un prodotto di qualità c’è un sapere che è fondamentale per realizzarlo. E l’eccesso di norme omologanti, il ruolo di una burocrazia spesso un po’ ottusa, tolgono la storia al modo di produrre che vuol dire togliere, con il sapore, l’essenza. Ecco, la mia difesa della cucina siciliana passa anche da qui”.
Perché un grande chef oggi è proprio anche questo: un attrattore di un mondo produttivo – dalla pesca all’agricoltura all’allevamento – che deve perseguire la qualità per consentire di restituire in tavola, grazie alla tecnica del cuoco, la migliore sintesi di sapore e storia che guarda al futuro.
E così Ciccio Sultano non si ferma, come individuo, come professionista, come essere legato alla sua terra. E riassume tutti i suoi progetti e i suoi obiettivi in tre parole cariche di senso di responsabilità: "Io, cuoco, siciliano". Spiegando che da ogni punto di vista è impegnato a mettersi al servizio dei clienti, della cucina, della comunità di cui fa parte, con un contributo di idee personali, competenze professionali, cultura siciliana.
Una delle sale del ristorante, ricavato in un antica abitazione borghese di 300 anni fa

Che di idee a frullare in testa ne avesse parecchie si era capito da subito, idee diventate sostanza e confermate attraverso le tappe del suo percorso. A luglio 2015, per esempio, nel cuore di Ibla ha aperto I Banchi, un locale no stop, dalla prima colazione con pane e granita (soave quella di mandorle) al cocktail del dopo cena (un progetto di mixology in collaborazione con Velier), passando per l’aperitivo (da non perdere il Sicilian Spritz: Almerita Brut, spremuta di arancia fresca di Sicilia e Campari Bitter), dove la cucina del Duomo arriva in pillole, come nel caso dello spaghetto zafferano e salsa moresca - la pasta di semola di grano duro si fa in casa - o dell'uovo della nonna al Marsala - un piatto sapido dolce che riporta alla mente lo zabaione arricchito che si dava ai bambini -.
Spaghettone Sultano (fresco, di semola di grano duro) in salsa moresca "Taratatà" con bottarga di tonno e succo di carote

Idee, frammenti, suggestioni che portano in tavola, dal mattino a notte fonda, una “cucina educata – come dice lo chef – che può guardare dritto negli occhi l’alta cucina, puntando anzi sull’aspetto informale e conviviale, sull’allegria del trascorrere tempo in un luogo che si dà tutto il tempo possibile”.
E poi ecco l’Aia Gaia, una fattoria come dice il nome felice, dove in collaborazione con due agronomi sono allevati polli e galline ovaiole: all’aperto, razzolano in due ettari e mezzo di fondo, per cibo quanto trovano nel terreno, integrato da mangimi selezionati e certificati. Anche qui alla ricerca del gesto tradizionale dentro la modernità che la conoscenza consente.

Ciccio Sultano, Triglia maggiore ai gelsomini, salsa di tenerume, sorbetto di sanapo e croccante di salsiccia


Ma per il monsù di Ragusa tutto questo non basta. In fondo a pedalare forte è abituato da ragazzo. Da quando a quindici anni iniziò come apprendista a Vittoria nella bottega di Vincenzo Corallo. Un padrone ma molto di più: perché a Ciccio passa il senso di una professione completa – girando dalla pasticceria alla gastronomia al bar – ma anche la voglia di crescere, suggerendo letture, dai romanzi ai saggi, raccontando viaggi ed esperienze. Ciccio pedala in bicicletta, avanti indietro, per muoversi tra Vittoria, Ragusa, Marina di Ragusa, in quello splendido angolo di Sicilia. Poi si sposa giovane e con la moglie italo-americana sfida le regole e forse anche il buon senso eparte per gli Usa dove riesce ad arrivare a lavorare con Lidia Bastianich. Quando, dopo un paio d’anni, fa marcia indietro per ragioni familiari e torna a Ibla, la bella casa borghese di via Capitano Bocchieri diventa la sua nuova casa. Il luogo dove provare a costruire qualcosa di suo .

Ciccio Sultano, il Tortino mediterraneo al cioccolato, arancia candita e "ficupala" (ossia il cladodio del fico d'india)

Suo nella gestione, nell’idea di cucina, nella filosofia di gestione. E due stelle Michelin dopo (la prima nel 2004, la seconda subito nel 2006), una nuova organizzazione societaria e una nuova vita familiare, con al fianco, fuori e dentro il Duomo, Gabriella Cicero che fa il general manager della brigata, Ciccio Sultano svolta ancora. “Sentivo forte il bisogno di un’ulteriore crescita, di dare ai miei clienti un senso di benessere ancora più grande”, racconta aprendo un documento dove foglio dopo foglio tutto il progetto è disegnato. E’ il progetto del nuovo Duomo che prenderà forma a partire da gennaio 2018. Gli schizzi dell’architetto mostrano i nuovi colori delle pareti, le luci, i mobili. Ma anche il nuovo spazio acquisito – i locali a fianco all’attuale sede – destinato alla cucina di produzione. L’obiettivo è trasmettere sempre di più quell’atmosfera rilassata di una splendida casa borghese, costruita oltre trecento anni fa, dove in piccole stanze, calde e silenziose, la cucina di Ciccio Sultano arrivi in tavola portandosi dietro il fascino della sua storia. Con una brigata di sala puntuale e cordiale che si muove con delicatezza in quelle stanze, guidata dal restaurant manager Giuseppe Di Franca, da un anno a dettare lo stile di un servizio garantito da uno staff rafforzato.

Ciccio Sultano, Merluzzo baccalà, con salsa allo zafferano e insalata di arance e finocchio


Così, in questo luogo solido e rassicurante, da marzo 2018 Ciccio Sultano punta ad offrire all’esperienza di un pranzo o di una cena al Duomo una marcia in più (aspirando magari a una stella in più?). Osannato dal Wall Street Journal e dal Financial Times, arrivano da tutto il mondo per sedersi ai suoi tavoli impreziositi di lino. Lui li accoglie forte di una cucina che è la quintessenza della Sicilia, la sua sublimazione in chiave contemporanea. Solo alcuni esempi: l'Ostrica a beccafico, omaggio alla classica ricetta regionale con la sarda, opulenta di pangrattato alla palermitana, uvetta e pinoli, maionese leggera di soia, insalatina liquida di limoni, è insieme moto d'orgoglio per le preparazioni e i prodotti dell'Isola ("c'è anche la sarda e possiede l'ostrica" dice lo chef) e funambolico gioco di sapori, aromi, consistenze, carnosa e golosissima; le Polpettine fritte al sugo di pomodoro servite con nastri di seppioline quasi crude e salsa della carbonara, piatto apparentemente illogico che è invece squisita celebrazione della tipica salsiccetta di Gela che si fa con suino e seppie e si cuoce alla griglia per poi essere condita di diverse salse; il Volevo essere fritto, un gambero rosso crudo, la cui parte fritta è invece un cannolino siciliano, ripieno di ricotta e guarnito di caviale, a cui si appoggia, come fosse una croccante pastella esterna, servito con un boccone di anguria marinata.
E peccato per questo vizio che ultimamente ha fatto usare l’aggettivo barocco in un’accezione negativa. Altrimenti sarebbe proprio da usare per parlare della cucina di Sultano: ricca, generosa, sontuosa, asimmetrica, tonda, dorata, che in un apparente affastellamento di elementi diversi si rivela sempre coerente, colta, elegantemente citazionista, volutamente trasgressiva.




Sorseggiare un Van Gogh: barista disegna capolavori nel cappuccino


Dalla 'Notte stellata' di Vincent Van Gogh ai cartoni animati della Disney, dall'urlo di Edvard Munch ai Pokemon. Sono solo alcuni dei capolavori disegnati nel cappuccino appena servito da Lee Kang Bin, barista 26enne che vive in Corea del Sud. Proprietario del Cafe Through a Seul, Bin non è un artista professionista: come lui stesso ha dichiarato, abbina "la passione per il disegno al lavoro". Il ragazzo ha iniziato a decorare la bevanda nel 2007, riscuotendo grande successo nel corso degli anni. Grazie alle sue decorazioni, la caffetteria ha guadagnato popolarità in tutto il Paese.

AMORE 

Una promessa di matrimonio fatta all'asilo: dopo vent'anni Matt e Laura si sposano



Matt e Laura sono due ragazzi americani. Lui, all'asilo, a soli tre anni, ha promesso di sposarla. Vent'anni dopo - la maggior parte dei quali trascorsa insieme - i due sono diventati marito e moglie

MORTE 

Vivere tra i defunti. Gli ultimi di Manila che sono al sicuro solo fra le tombe

Manila, una tavola apparecchiata sul marmo di una lapide. .

Una giornata qualunque per i bimbi che vivono tra le tombe del cimitero della capitale filippina. Piscine improvvisate all’interno dei mausolei, amache agganciate agli alberi che fanno ombra alle tombe su cui riposano i genitori con i figli tra le braccia, e ‘ tavole apparecchiate’ sui marmi delle lapidi, su cui si consumano i pasti quotidiani. Tutti i reportage fotografici di R2 di ADAM DEAN*

Le ossa di un defunto.

Una giornata qualunque tra le tombe del cimitero della capitale filippina


Una piscina improvvisata all’interno del mausoleo

Lorgen Lozano, 14 anni, guarda una soap opera alla televisione, dentro alla cripta in cui vive con la sua famiglia

Parenti in visita alla tomba di un proprio caro

Un uomo lavora a una lapide

Una giornata qualunque tra le tombe del cimitero della capitale filippina


Inaugurato nel 1904, il cimitero di Manila Nord è uno dei più antichi ed estesi delle Filippine. I suoi mausolei riccamente decorati e le fila interminabili di loculi ospitano circa un milione di morti. E qualche migliaio di vivi. In questo luogo, dove sono sepolti presidenti, star del cinema e glorie della letteratura, vivono infatti alcuni dei più poveri abitanti della capitale filippina. Alcuni di essi occupano le cripte e i mausolei delle famiglie ricche, che custodiscono e curano in cambio di un piccolo compenso. Altri trovano soluzioni alternative per beneficiare dell'economia che ruota attorno alla morte e alle sepolture.
"All'interno del cimitero non c'è lavoro. Ecco perché nel 2007 ho imparato questo mestiere", afferma Ferdinand Zapata mentre è intento a scolpire il nome di un defunto su una lapide di marmo riccamente lavorata. "È il lavoro migliore che si possa svolgere qui aggiunge - perché non hai nessuno che ti dà ordini". Zapata, 39 anni, ha due figlie ed è cresciuto nel cimitero. Circa un quarto dei dodici milioni di abitanti di Manila sono "residenti atipici". Chi vive nel cimitero preferisce la tranquillità e la relativa sicurezza di questo luogo all'atmosfera pericolosa delle baraccopoli cittadine. Tuttavia, vivere qui richiede intraprendenza e ingegnosità. Le famiglie trascorrono le giornate tra mausolei e alloggi di fortuna costruiti sopra le tombe. Chiacchierano, giocano a carte e guardano soap opera su televisori che poggiano tra lapidi e croci ornamentali. "Vivere qui può essere difficile", dichiara Jane de Asis, che ha 26 anni e occupa un mausoleo di stile classico insieme a suo figlio, due sorelle, i figli delle sorelle e sua madre, pagata per prendersi cura del luogo. "La corrente elettrica va e viene, e non abbiamo acqua corrente. In estate col caldo tutto diventa particolarmente difficile ". Di notte gli abitanti del cimitero dormono sopra le tombe. In questo Paese così religioso, la linea che separa i vivi dai morti è considerata assai labile.
Isidro Gonzalez ha 74 anni. Ama parlare con sua madre. Mentre fa le parole crociate volge la schiena alla sua tomba: "Forse mi risponde, ma fino ad oggi non lo ha mai fatto".
In una mattina di qualche giorno fa, da un angolo remoto del cimitero giungeva l'odore acre del fumo di metanfetamina, o shabu, come la chiamano i filippini. Una donna di mezza età stava fumando da un pezzo di carta di alluminio, mentre sua figlia teneva tra le braccia un neonato. Poco lontano, alcuni adolescenti si erano addormentati su pietre tombali e amache per smaltire l'effetto degli stupefacenti. I residenti del cimitero raccontano che droga e criminalità sono in aumento. Anche il violento giro di vite messo in atto dal presidente Rodrigo Duterte contro gli spacciatori e i tossicodipendenti ha avuto delle ripercussioni qui a Manila Nord, dove lo scorso settembre tre uomini sono stati uccisi nel corso di un'operazione antidroga. Pare che stessero cercando di vendere dieci dollari di shabu. Al calare della sera molti consigliano a me e al mio interprete di andarcene, spiegando che aggirarsi per questi luoghi dopo il tramonto può essere rischioso.
I defunti rimangono sempre una presenza costante. "Talvolta sento dei rumori o delle voci, e faccio silenzio perché so che sono le voci dei morti", spiega la signora Javier. I numerosi bambini che giocano festosamente tra le tombe non sembrano preoccuparsi dei fantasmi. Qui e là sorgono degli spacci improvvisati: vendono merendine e oggetti di prima necessità. Non mancano nemmeno le macchine per il karaoke: un passatempo che di sera è molto in voga. Pur non abitando nel cimitero il signor Gonzalez, il settantaquattrenne che fa le parole crociate, trascorre spesso la notte nella cripta della sua famiglia. Possiede un appartamento in città, ma si trova in un quartiere più pericoloso del cimitero. "Almeno - dice - i morti non possono fare del male".

© 2017 New York Times News Service (Traduzione di Marzia Porta)

*
 L’AUTORE
Adam Dean è un fotografo freelance che vive tra Bangkok e Pechino. Collabora con il New York Times, Time Magazine, New Yorker e il National Geographic Magazine. Nel 2011, Pdn ( Photo district news), prestigioso mensile di fotografia, lo ha selezionato tra i trenta fotografi emergenti dell’anno.

30.1.17

Chiedi alla polvere Un popolo nomade in cammino al confine con l’Etiopia, una nuvola nel paesaggio arido, una foto per portare un po’ di loro con sé.ed altre storie



Rivedendo il catalogo  della mostra  genesi ( che è un estensione del  film  documentario il sale della terra /  ) di Sebastião Salgado vista a Genova l'anno scorso  mi è ritornato alla mente   questo articolo letto  durante  il mio cazzeggio nei meandri della rete e  che non il perchè l'avevo salvato   di ANDREA SEMPLICI giornalista e fotografo per il http://www.messaggerosantantonio.it  04 Gennaio 2017






Gente afar in cammino. Donne afar in cammino. Una piccola carovana femminile ai confini dell’Etiopia. In Dancalia, terra arida, difficile. Un clan familiare si muove, nei primi giorni del nostro nuovo anno, lungo la strada che va verso le montagne di Gibuti. Per loro, il calendario dei mesi non ha importanza: valgono le stagioni, le piogge, i pascoli. Non so perché stiano viaggiando: si spostano per cercare nuovi pascoli, acque per dissetare gli animali, seguono il ritmo delle scarse piogge. Gli uomini sono avanti con i greggi delle capre. I bambini più piccoli sono stati «imprigionati» sulla gobba dei dromedari, protetti da una gabbia di legni ricurvi. Altri bambini sono appesi ai seni delle giovani madri. Altri ancora vengono strattonati quando non riescono a tenere il passo.
Le capanne a cupola degli afar sono smontabili, i legni degli architravi sono sui fianchi degli animali. Camminano veloci, queste donne.
Strana sensazione: da molti anni vado in Dancalia, ho «amici» laggiù. So sempre dove trovarli. Gli esperti mi dicono del nomadismo circolare degli afar. Ma in questi anni non ho mai visto le persone che conosco spostarsi di mezzo metro. So dov’è la loro casa, il loro piccolo accampamento. Poi, all’improvviso, m’imbatto in questa carovana, nel suo vortice di polvere, nel suo andare. Sono un intruso, cammino con loro per poche centinaia di metri. Per fotografarli. Nessuna lingua ci unisce. So di essere un fastidio incomprensibile. Queste donne non mi guardano, non si voltano nemmeno un istante, la donna piega il volto verso terra e accelera il passo a capo basso. Vorrei dire: voglio venire con voi, almeno per queste ore che mancano al tramonto. L’incontro non è possibile, posso solo fermarmi, lasciarli andare via.
Scatto una foto, mi giustifico e dico che si scattano da sole. No, non è così, sono io che scatto, che mi intrometto, che voglio «qualcosa» da riportare a casa. Da mostrare, da pubblicare. Da tenere nelle mia mente. Mi fermo, guardo la carovana andarsene in un orizzonte grigio e senza colori. Mi prendo addosso tutta la loro polvere.

 concludo   con quest'altro  " viaggio  "

A passeggio sulle... acque, anzi sulla sabbia del fiume Po in secca


BORETTO. Domenica insolita quella trascorsa da un gruppo di amici nella Bassa reggiana. Grazie alla siccità che dura da due mesi, e che ha ridotto il fiume Po a una sorta di... torrente, i ragazzi hanno potuto camminare sulla sabbia, percorrendo centinaia di metri là dove, nel novembre scorso, c'era una piena importante (video di Ermes Lasagna).



22.6.14

concerto pearl jam jam san siro 20\6\2014

  Io  credevo che  mio cugino    esagerasse  a volere  andare  li   , nonostante  posti numerati   5 ore prima ,    quando   il concerto iniziava    alle  20.30 ( puntualità permettendo  ) come   s'evince  da da   questo  mio  scatto ( l'altro lo trovate sotto ) prima cher  mi si scaricasse  il cellulare  .   io  stupidità mia   che avevo  consumato la batteria  sminchionando con internet , non mi  sono  ne  comprato un carica batteria   portatile  nè   l'ho ricaricato durante  la  pausa  quelle  due  ore  prima del  concerto  quando  ero a casa sua  a Como  . 
  Invece  come potete  notare   sia    dalle  sue  foto  ,sia   dall'altra  con il mio cellulare  
 di mio cugino   https://www.facebook.com/roberto.facchini.92

  c'era  già  un  casino  di gente . E poi  fra   aspettare   gli altri   suoi amici  che  sono  venuti  con la metro   e  la  fila per i " viveri "  e  il Merchandising (  la maglietta  ed  il poster\locandina  del concerto  )   dalle  16.20  che    siamo  entrati     alle  18.15


Un  Vaff   a repubblica  del  21\6\2014  quando dice  
Italia-Costarica, ecco perché abbiamo perso

                         


Miracolo, forse per  qualche ordinanza  del comune di Milano  in modo  d'accontentare  sia  i residenti  del quartiere  sia perchè a  differenza  (  ovviamente senza  generalizzare  )   dei gruppi  e  cantanti italiani gli  Americani   e  i paesi del nord  Europa    ci tengono alla puntualità  , il concerto  è iniziato  subito dopo, il consueto ed   tollerabile "quarto d'ora   accademico " ,  dopo la  deludente ( per  non dire  di peggio  partita  della nazionale  )   trasmessa   con il maxi schermo .
Fortunatamente mi sono portato  dietro  oltre  alla macchina  digitale( prima  slideshow ) e  la  videocamera (  seconda   slideshow    e video  ) .





N.B
le foto ( sia dal cellulare , sia quelle della slideshow , ed i video )sono  state prese  lontano  dal  palco  più  precisamente  dal anello in basso  settore    centrale,   e  poi  è  un po   che non prendevo in mano  la  videocamera  , ma  soprattutto ero  emozionato  davanti ad  alcune delle   mie canzoni preferite  . Inoltre  avevo  vicino  ,  e  davanti   che   si agitava e pogava  come se  fosse sono il  palco . Quindi   quindi mi  scuso con    1) i puristi   ., 2 )  il   il  gruppo  ., 3)  il  fans  club italiano  http://www.pearljamonline.it/.Per per  chi volesse   delle  foto  decenti   ecco questa  galleria  della radio che ha sponsorizzato il concerto  www.virginradio.it/galleria/pearl-jam-in-concerto-a-milano-san-siro/
e  sempre  dallo stesso sito



oppure  da un video trovato  sulla  bacheca  di Stefano Steno Ceccarelli un mio contatto  di facebook
un   concerto emozionante .bellissimo , intenso .in  un ottima  cornice   Infatti 




un ottimo concerto mi  ha   commosso  e  fatto  piangere sin dall'inizio di un concerto, con Release, Nothingman






gli altri video li trovate  sul mio canale  di youtube 
 (   ripeto l'url per  i nuovi del blog )



Sirens e Black...ecc
l'inizio live più bello di sempre...tre ore di brividi ed emozioni  bravissimi.....e bellissimo San Siro!!!! , Una forte emozione poter dire io c'ero . 
"Fintantoché riusciremo ad andare d'accordo almeno per una serata, noi vinceremo contro tutto": con queste parole di fede nel rock pronunciate prima di 'Rocking In the Free World' Eddie Vedder ha siglato ieri sera il concerto dei Pearl Jam a San Siro. Non la prima volta in assoluto negli stadi italiani per la band americana, già testati da gruppo-spalla degli U2 nel 1993, ma la prima da protagonisti come si può ( da repubblica online ) "Porch" (Ten) suonata in acustico da Eddie Vedder con tanto di maglia di Cassano prima della partita non ha portato gran fortuna. Ma i 62 mila di San Siro (sold out) non hanno di che lamentarsi: i Pearl Jam, senza gruppo spalla, suonano 34 canzoni in tre ore di concerto (niente gruppo spalla, non fa per loro). 
evincere anche dalla scaletta (  foto  a  sinistra   presa da  http://www.tgcom24.mediaset.it/  )  
Il concerto inizia come  panorama.it aveva previsto : partenza lenta, con "Release" (da Ten), "Nothingman” (da Vitalogy) e il singolo "Sirens" (Lightning Bolt). Si accelera poi con "Go” (da Vs) e “Do the evolution” (Yield) e "Corduroy" (Vitalogy). 
Verso la fine, Eddie Vedder dedica "Just Breathe" (Backspacer) alla moglie: "L'ho conosciuta qui a Milano, 14 anni fa, ed è diventata mia sposa e la madre dei mie figli".
Si chiude come previsto con "Rockin' in the Free World" (cover di Neil Young, con il figlio del batterista alla chitarra al posto di Mike McCready). Ma non prima di aver suonato "Alive":

Infatti  confermo il giudizoio sul concerto    e qui  chiudo con la  recensione dell'evento  fatta  ttp://www.repubblica.it/spettacoli/musica/
Non so  cos'altro dire se  se  non che  n'è valsa  la pena  di  :  farsi  quella  sfacchinata ( alzarsi alle  4.30 del mattino per  andare ad Olbia  (  50 minuti  di macchina     con la vecchia stra   perchè  l'altra  è bloccata  dall'alluvione  di novembre  )  prendere  alle  7 l'areo per linate  tornare  a 01.00  dal concerto   trovare un albergo senza prenotazione alle  2  del mattino    e  poi  ripartire  da malpensa   per  prendere il volo del  10.55    e  prenderlo al volo perchè  il terminal  2  di lmalpensa  è un casino  per trovare  il gate del  tuo volo    , e  tornare  fra una cosa  l'altra  a tempio  alle  14  e  poi   dopo 3  ore  fra pranzo e   riposino   andare   a fare il turno per  una tua mostra  di fotografia   a cui  ,  sic  non ha  potuto  partecipare  all'inaugurazione  perchè  eri al concerto 


Una maratona di musica ed emozioni. Per la loro prima volta allo stadio di San Siro, i Pearl Jam hanno presentato uno show fiume, 35 canzoni in tre ore di uno spettacolo che ha avuto anche spazi "intimi", come la dedica di Eddie Vedder alla moglie per il loro anniversario o l'happy birthday corale dei 70mila presenti per il compleanno della compagna del batterista Matt Cameron.C'era molta curiosità di fronte a questo evento, perché per la band di Seattle non era solo il debutto nel "Alive", "Jeremy", "Even Flow"), per gli estratti dall'ultimo, non proprio esaltante, album "Lightning Bolt" e anche per momenti intimi ("Just Breathe"), chicche ripescate dal vastissimo repertorio ("Thin Air") e brani più accattivanti perfetti per trascinare il pubblico a ballare felice ("Better Man", "Rockin' In The Free World").                                                       In una scatenata "Daughter"riescono persino a trovare il modo di inserire un pezzo di "Let It Go", il successo di Demi Lovato dal film Disney "Frozen".l concerto è un lungo percorso al quale il pubblico viene introdotto, come usuale per la band, con un approccio morbido, con pezzi lenti che creano l'atmosfera e danno il tempo tanto alla platea quanto a un emozionato Vedder di scaldarsi e prendere contatto con l'evento. Ma che contatto: "Release", "Nothingman" e "Black" riportano subito indietro di venticinque anni. Senza contare che il cantante ha offerto un antipasto prima della sciagurata partita dell'Italia, con una versione chitarra e voce di "Porch". È lui il fuoco dell'attenzione: accompagnato dall'immancabile bottiglia di vino e da un blocco appunti con i discorsi da fare in italiano, si conferma front man dalla voce potente e dal carisma unico, per quanto molto meno mobile sul palco rispetto a un tempo (e forse un po' acciaccato a giudicare da come si muove nel finale). Ma è tutto il gruppo a girare a mille, con gli infiniti assoli Mike McCready, il pulsare costante del basso di Jeff AmentStone Gossard a cucire con la sua chitarra e Cameron a picchiare come un forsennato.Il palco è spartano, quasi commovente nella semplicità delle luci e degli "effetti speciali" (delle saette fatte con le lampadine). Anche i due maxi schermi laterali sono al minimo sindacale ma è la musica che fa lo show, al punto che uno potrebbe chiudere gli occhi ed essere investito dalla sua energia in egual maniera. In particolar modo nel finale composto dalle due sezioni dedicate ai bis. Che non sono i classici due o tre pezzi di rito, ma ben tredici. Con un travolgente crescendo emozionale, dalla parte acustica, aperta dalla dedica di Vedder alla moglie con relativo ricordo del loro incontro dopo il concerto milanese del 2000, per arrivare a furibonde rasoiate punk come "Spin The Black Circle". E alla fine è tutto lo stadio, con le luci accese, a ballare e a salutare. Si replica a Trieste domenica con, ci potete giurare, una scaletta del tutto diversa.

da  http://cultura.panorama.it/musica/
catino milanese ma anche la prima volta di un tour negli stadi, location in passato da loro avversata in maniera esplicita. Come spesso accade, il passare del tempo e il sempre più esiguo numero di nuovi miti in campo rock hanno trasformato in fenomeni di massa gruppi prima di culto. E così se nel 1992, in piena rivoluzione grunge, a vedere i Pearl Jam al Sorpasso c'erano poche centinaia di fan (evento ricordato da Vedder nel corso del concerto), ora che il grunge è un ricordo diventano un'icona attorno alla quale si raccolgono anche convenuti dell'ultima ora. Il potere dei Pearl Jam è di riuscire ad accontentare tutti, die hard-fan e curiosi.Perché con una scaletta così ampia e strutturata c'è spazio per i brani più famosi






emergenza femminicidi non basta una legge che aumenti le pene ma serve una campaga educativa altrimenti è come svuotare il mare con un secchiello

Apro l'email  e tovo  queste  "lettere "   di  alcuni haters  \odiatori  ,  tralasciando  gli  insulti  e le  solite  litanie ...