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10.9.19
Ferrara, Albrindisi l’antica osteria che si difende dagli spritz: «Qui niente intrugli»
Per un giorno basta parlare di femminicidi e stupri parliamo di cose più allegre anzi beviamoci su visto che la storia d'oggi riguarda proprio un osteria antica di Ferrara . Ne trovate la storia nell'articolo sotto ( e nei link citati sotto nell'asterisco * ) preso da https://corrieredibologna.corriere.it/bologna/ristoranti-locali/ del 31 agosto 2019
Ferrara, l’antica osteria che si difende dagli spritz: «Qui niente intrugli»
«Al brindisi» è il posto più antico del mondo nel suo genere. E si beve solo vino
di Natascia Celeghin
FERRARA «Ci provano sempre a chiedere intrugli. Il segreto? Non cedere mai, mai a cole e cose varie». All’ombra del castello estense di Ferrara sorge l’osteria più antica del mondo, “anti-spritz” e altri intrugli moderni. Si chiama “Al brindisi” e può vantare e raccontare quanto ha visto accadere e bere in secoli e secoli di storia nella città della nobile famiglia Estense.

Il suo oste, Federico Pellegrini, ha fatto la scelta dichiarata di non servire nello storico locale l’aperitivo rosso mixato al prosecco (made in Veneto e celebrato nella medesima regione, cosi come in buona parte d’Italia) o altri cocktail con super alcolici di aggiustamento moderno. E proprio Pellegrini, sui social, non manca mai di rispondere puntualmente (e con ironia) a quanti intervengono sul tema Nemmeno il caffè. La proposta delle bevande è principalmente concentrata su un’offerta di vini, bianchi o rossi con un occhio di riguard al territorio. Non perché Federico Pellegrini, il titolare, abbia qualcosa contro lo spritz, la vodka, il mojito o il caffè. La piazza del castello cosi come quella della Cattedrale e dintorni offre già, con altri locali, proposte più contemporanee. La volontà dell’osteria “Al brindisi” è quella di celebrare la storia e il territorio dove da sempre questo suggestivo e folkloristico locale sorge.
Il miscelar vini è l’unico gesto contemplato da Federico Pellegrini, visto i prodotti vitivinicoli che il territorio ferrarese e non solo, propone. L’osteria più vecchia del mondo, fondata nel 1435, all’epoca l’insegna in legno portava il nome di “ Hostaria al Chiucciolino” la si può scorgere imboccando via Guglielmo degli Adelardi, un’altra viuzza intrisa di storia, collocata dietro al Duomo di Ferrara. Il locale a un tempo lo si poteva raggiunger con la barca, oggi tranquillamente a piedi con una passeggiata immersa nel fascino del Medioevo ferrarese. Attualmente è una meta ricercata dai turisti, ma anche un’abituale frequentazione di tanti ferraresi. Di proprietà della famiglia Pellegrini dalla fine degli anni Cinquanta, la tradizione è portata avanti da Federico, oste soprattutto per vocazione, visto che lo erano già i nonni. Un punto di forza dell’enoteca è proprio la mescita di vino al calice e la scelta di vini diversi abbinati alla gastronomia. I vini localissimi sono quelli delle sabbie, prodotti nella costa tra le province di Ferrara e Ravenna, nella zona del Bosco Eliceo. E ancora, solo per citarne alcuni dell’ampia carte dei vini, Vermentino nero e Massaretta dalla Toscana, Pignolo dal Friuli, Malbo gentile e Ancellotta dall’Emilia, Majere dal Trentino, Pallagrello dalla Campania
Molte le “star” del passato che hanno sostato nell’Hostaria della famiglia Pellegrini, che vanta anche il record da Guinness dei primati ed è inserita nella lista dei 215 locali storici d’Italia. Un red carpet di artisti e poeti al pari, e forse anche di più, di quello della Mostra del cinema di Venezia. Nel locale infatti si dissetarono la poliedrica mente di Benvenuto Cellini, il pittore della Scuola Veneta Tiziano Vecellio, il celebre poeta Torquato Tasso, l’astronomo Niccolò Copernico, che qui soggiornava. E poi Ludovico Ariosto che a Ferrara tutt’ora vi riposa. Per loro niente selfies, storie di istagram o video propagandistici e pubblicitari ma un bicchiere di vino e il chiacchiericcio dei viandanti.
Molte le “star” del passato che hanno sostato nell’Hostaria della famiglia Pellegrini, che vanta anche il record da Guinness dei primati ed è inserita nella lista dei 215 locali storici d’Italia. Un red carpet di artisti e poeti al pari, e forse anche di più, di quello della Mostra del cinema di Venezia. Nel locale infatti si dissetarono la poliedrica mente di Benvenuto Cellini, il pittore della Scuola Veneta Tiziano Vecellio, il celebre poeta Torquato Tasso, l’astronomo Niccolò Copernico, che qui soggiornava. E poi Ludovico Ariosto che a Ferrara tutt’ora vi riposa. Per loro niente selfies, storie di istagram o video propagandistici e pubblicitari ma un bicchiere di vino e il chiacchiericcio dei viandanti.
Inizialmente dopo aver letto tale articolo , visto che a " pelle " cioè apriori mi sembrava una scelta da snob , da sovranità cioè nazionalista dall'identità chiusa avrei voluto intervistarlo ma lui in maniera lapidaria ( anche se comprensibile ) mi ha replicato : << Salve Giuseppe..non sono abituato ,ne mi trovo a mio agio nella parte dell intervistato difatti i vari articoli si basano su copia /incolla di mie risposte a commenti di amici o frequentatori decennali del mio locale ..o di chiacchiere raccolte durante il servizio... .
Se si desidera approfondire ..; sono aperto tutti i giorni dalle 11 alle 24 escluso il lunedì. Da una, o più visite ,Potrai decidere autonomamente che tipo di forma mentis c' è dietro la mia gestione. Buon Tutto Fred >>. Ora come ho gli risposto : << ok se capito da quelle parti visto che sono del nord Sardegna volentieri .>> Visto che condivido ( come potete notare dal mio twitter e dell'account e pagina facebook ) e piace chi pensa globale ed agisce locale * che non significa nazionalismo " estremo ovvero fascismo e razzismo ma identità aperta ( trovate maggiori dettagli nei link sotto * seguite l'asterisco ) << cercherò >> come ho scritto al proprietario << di raccontare il più obbiettivamente possibile la tua storia sul mio blog lo stesso anche senza intervistarti >>
Infatti letto i suoi canali internet , soprattutto la voce del suo sito " dicono di Noi " e le recensioni di https://www.tripadvisor.it/ ovviamente prendendole con le pinze perchè si sa che spesso su tali siti possono infiltrarsi rivali , gente a cui sta antipatico , o gente permalosa e pignolissima o anche l'inverso mi sono fatto l'idea che non sempre le cose stanno come sembra Infatti si può essere tradizionalisti senza perdere il contatto con il mondo e vendersi alle mode del momento ovvero il classico Pensare Globale Agire locale e puntando sulla qualità . Spero un giorno di capitare da quelle parti per confermare o smentire questo mi giudizio
*
- www.albrindisi.net pagina ufficiale del locale
- https://www.youtube.com/user/fredbrindisi suo canale youtube
- https://www.facebook.com/AL-BRINDISI-Enoteca-di-Ferrara-245574635461134 la sua pagina fb
- https://www.facebook.com/fredbrindisi il suo account fb
**
24.1.16
l'identità chiusa non è sintomo d'integrazione e incrementa il fondamentalismo le dichiarazioni dell'imam Sami Abu-Yusuf,sui fati di colonia avvenuti nela notte di capodanno
concordo con quanto dice Massimo Granellini
22/01/2016MASSIMO GRAMELLINISecondo l’autorevole parere di un imam di Colonia, Sami Abu-Yusuf, la responsabilità delle violenze di Capodanno non sarebbe da attribuire ai maschietti che intimidivano e palpeggiavano, ma alle indigene che li provocavano andandosene in giro mezze nude e intrise di profumo. Rimango un ostinato fautore del dialogo, però vorrei che qualche illuminato ci spiegasse come si fa a dialogare con un troglodita che considera demoniaca la femminilità e vorrebbe estirparne ogni traccia, almeno in pubblico. Uno che, pur vivendo in Germania da decenni, non ha mai compiuto un solo passo verso la cultura che lo ha accolto, comportandosi nei fatti come un invasore arrogante e ottuso. Chiunque di noi, quando va all’estero anche solo per un giorno, si sforza di adeguarsi al contesto. A questo imam, invece, del nostro contesto non importa un fico. Ci considera una massa di degenerati e si rifiuta di prendere in considerazione la possibilità che una ragazza in Occidente si vesta come le pare e si profumi quanto le pare perché è un suo diritto farlo, senza doversi preoccupare delle reazioni ormonali che le sue scelte estetiche produrranno sui maschi irrisolti e frustrati.La donna di Colonia potrà essere provocante, ma non è provocatoria. Si prende la libertà che il suo mondo le consente. E il suo mondo gliela consente in quanto libertà condivisa, che migliora la qualità del vivere di tutti. È una conquista recente, parziale, ancora molto fragile e proprio per questo non trattabile. Chi non è disposto ad accettarla va accompagnato alla porta con una boccetta di profumo come ricordo.
Va bene mantenere la propria cultura ed identità anche in un pese straniero o di viverci senza prenderne la cittadinanza come fece lo scultore Costantino Nivola ma dialogare e confrontarsi con una cultura che non è tua ma non fare anche in maniera critica : << un solo passo verso la cultura che lo ha accolto, >> significa giustamente che ti comporti << nei fatti come un invasore arrogante e ottuso. >> . Ora capisco che ad un orientale i costumi di noi occidentali possano anche non piacere e posso essere anche criticati , ma arrivare a dire simili cose e , anche se non è questo il caso , a picchiare ed usare violenza su un familiare o altre persone solo perchè svecchiano la loro cultura e s'aprono ad un altra cultura non mi piace per niente .
14.7.15
Da Parigi a Siniscola, passando per Gavoi:Christophe Thibaudeau noto Gristolu ha preso dopo 36 anni la cittadinanza italiana
Lo so che una semplice presa di cittadinanza italiana da parte di chi non è cittadino italiano , non costituisce e niente d'eccezionale , ma questa ( ne ho parlato in diversi post sia del vecchio blog che di questo ecco uno dei tanti post ) di cittadino Parigi, noto Gristolu, è una storia particolare
Infatti dall'unione sarda del 14\7\2015
Da Parigi a Siniscola, passando per Gavoi: Gristolu è un cittadino italiano
.

Thibaudeau (il secondo da destra) dopo il giuramento in Municipio
Ha coronato con il giuramento ufficiale di questa mattina un sogno accarezzato da ben 36 anni. Christophe Thibaudeau, di Parigi, noto Gristolu, 65 anni, è cittadino italiano.
L’ex giornalista di Le Matin e docente della Facoltà di Lingue dell’Università di Sassari, ha giurato fedeltà alla Repubblica e alla Costituzione italiana davanti a Rocco Celentano sindaco di Siniscola, cittadina dove risiede assieme all’anziana madre dal 2007.
dal suo facebook
Gristolu ha vissuto per quasi trent’anni a Gavoi, paese barbaricino dove era stato nominato cittadino onorario prima e dove aveva successivamente ricoperto l’incarico di assessore alla Cultura. E' stato uno dei fondatori del Festival letterario l’Isola delle Storie arrivato alla dodicesima edizione.
Luca Urgu
Il perchè ha preferito aspettare 20 anni per prendere la cittadinanza italiana nonistante dsia ormai di casa qui in Sardegna , tanto d'essere per un cittadino straniero assessore comunale alla cultura , lo trovate in questo articolo arusto e sarcastico come sempre di Francesco Giorgioni di Sardegna Blogger
Un Berlusconi in meno, un italiano in piùLUG 14, 2015 Francesco Giorgioni Sardo“Ho chiesto la cittadinanza italiana nel dicembre del 2011, appena Berlusconi è stato cacciato dal governo. Amo l’Italia, ma non al punto da diventare italiano con un simile soggetto a rappresentarla. Per fortuna è sparito”.Voi lo conoscete Christophe Thibaudeau? Sappiate che se lo cercate e lo chiamate Christophe nessuno saprà chi sia, se invece chiedete di Gristolu tutti sapranno indirizzarvi dalla persona giusta.Gristolu è uno spot vivente per la Sardegna. Non può che essere un testimonial prestigioso uno nato e cresciuto a Parigi – là dove sfilano i più ammirati intellettuali – che decide di trasferirsi in Sardegna nel fiore degli anni, subito dopo avere visitato quella sconosciuta Isola del Mediterraneo ed esserne rimasto irrimediabilmente affascinato.Mi ricordo ancora lo stupore del mio compagno di appartamento, iscritto in Lingue a Sassari, quando il prof dalla biascicata pronuncia francese si presentò a lezione in abito di velluto e scarpe grosse da campagna, come un pastore appena tornato dalla mungitura. Era Gristolu, che è stato lettore di Francese all’Università ma, una decina d’anni fa, anche assessore comunale di Gavoi, nonché promotore di tante iniziative culturali. Di Gavoi, peraltro, era già cittadino onorario.Dopo trentacinque anni tra Gavoi, Capo Comino, Sassari e i tanti altri luoghi dove amici ed interessi intellettuali lo conducono, Gristolu ha affiancato la cittadinanza italiana a quella francese. Tra i tanti interessi del nostro ci sono i reading di Sardegnablogger, che segue con una partecipazione emotiva da ultrà in un derby.Ha letto il suo giuramento stamattina davanti al sindaco di Siniscola, poi è partita la festa. Preceduta dall’inno italiano suonato al sassofono da un giovane musicista, di cui il parigino di Gavoi fu insegnante.Gristolu è uomo allegro, amante della buona e della bella tavola: cucina bene e ci tiene ad apparecchiarla con ceramiche di Cerasarda e coltelli di Moledda.“Ti dicevo che ho fatto richiesta della cittadinanza nel dicembre del 2011, subito dopo la caduta di Berlusconi. Io sono antifascista fino al midollo, ho lasciato trascorrere questi vent’anni per potermi considerare pienamente italiano.Alla Prefettura di Nuoro mi assicurarono che ci sarebbe voluto poco tempo, invece i mesi passavano e non succedeva nulla. E io avevo paura, paura che Berlusconi tornasse. Se fosse successo, avrei lasciato scadere la domanda”.Invece no. Il Paese ha un protagonista politico in meno, ma un italiano in più.
24.5.14
A NEW YORK, DISCUTENDO DI GRAMSCI E PIGLIARU PASSANDO PER LOU REED: IL PROFESSOR PAOLO CARTA RACCONTA L’AMERICA
da http://tottusinpari.blog.tiscali.it/
Paolo Carta
di Barbara Faedda
Paolo Carta nato a Sassari nel 1968, è professore ordinario di Storia delle dottrine politiche nell’Università di Trento. Ha pubblicato diversi volumi sulla storia del pensiero politico nel Rinascimento e nell’età contemporanea. Ha curato la pubblicazione di due volumi di Antonio Pigliaru e il riordino delle sue carte. Visiting professor all’Ecole Normale Supérieure, Fellow dell’Italian Academy Columbia University, ha insegnato e tenuto lectures a Parigi, Lione, New York e Oxford.
Professor Carta, ci può raccontare il suo primo impatto con l’America e soprattutto con New York? È stato amore a prima vista e naturalmente New York è la città che più mi ha incantato e dalla quale, di fatto, non sono mai andato via. Ho sperimentato personalmente il significato dell’espressione ‘New York State of mind’. E in omaggio a New York, dunque, diamoci del ‘tu’. Come aveva scritto Tocqueville, New York è una città nella quale le persone, anche quelle più autorevoli, sono ‘approachable’. Ho respirato questa disponibilità e libertà quando, dopo alcuni brevi soggiorni, ho avuto modo di vivere a New York per un più lungo periodo di tempo, nel 2011, grazie a una fellowship dell’Italian Academy a Columbia University. Da allora ritorno regolarmente per proseguire le mie ricerche nelle sue ricchissime biblioteche e per godere dell’energia straordinaria che la città sprigiona. C’è poi un altro aspetto dal quale sono stato travolto e che ha poi finito per incidere anche sul mio lavoro: la curiosità insaziabile. A NYC se qualcosa è interessante, non importa di che si tratti, musica, scienza o arte, non la si può perdere. Si impara subito a profittare di questa ricchezza. Ciò funziona anche in ambito accademico: chi si occupa di pensiero politico, come me, sbaglierebbe a concentrarsi unicamente, in una realtà come NYC, sui propri specifici ambiti di ricerca. Molte idee interessanti emergono non solo nei bellissimi seminari di political theory, ma anche durante una lecture di musicologia, neuroscienze, arte contemporanea o architettura. Questo è ciò che più mi affascina della città e della sua vita accademica e culturale. Ogni volta che arrivo, tento di non perdere quel che posso e che anche solo istintivamente mi incuriosisce. Mi pare sia un atteggiamento tipicamente newyorkese. Quanto alla disponibilità e alla semplicità delle persone, ricordo di aver assistito al Miller theatre della Columbia a una splendida conferenza di Laurie Anderson, seduto accanto a un sorridente Lou Reed. In una settimana ho incontrato e conosciuto due miei miti: il compianto Rubin ‘Hurricane’ Carter e Lewis Nash. Non si tratta di casi eccezionali, è semplicemente New York, una città in cui è facile incappare in Patti Smith da Strand, mentre sei alla ricerca di un libro di aforismi curato da W.H. Auden.
Quali sono state le differenze tra l’immaginario creato intorno alla Grande Mela e la realtà che hai vissuto durante la tua permanenza in questa città? L’immaginario è legato ad alcuni cliché che non corrispondono al vero, soprattutto da una decina d’anni a questa parte. Ciò che colpisce per chi la vive è innanzitutto la serenità e la civiltà. Vivere a New York, anche con la propria famiglia e con i bambini, è molto semplice. La cordialità delle persone, la disponibilità all’ascolto, il desiderio di scambiare opinioni e punti di vista, è qualcosa che si può respirare quotidianamente, semplicemente uscendo per strada e mostrandosi disponibili al dialogo. Almeno questa è la mia esperienza. Un bagno di civiltà spontanea e contagiosa.
Che collegamento vedi – se esiste – tra le due isole: la Sardegna e Manhattan? Difficile fare un paragone. Sono però due isole, due mondi a sé, caratterizzati da un effervescente pluralismo culturale, che rappresenta l’autentica ricchezza di entrambe. Manhattan reinventa continuamente se stessa, la sua cultura, è perennemente impegnata nella costruzione di una propria tradizione. È carica di presente e futuro, nonostante una storia ormai imponente. Per costruire questa tradizione non si priva di alcuna esperienza. La Sardegna, che è invece una terra sovraccarica di storia e di tradizione, è rimasta per un lungo periodo immobile e ha finito per subire un’idea di sviluppo economico e sociale che contrastava con i suoi tempi e con la sua stessa natura, con la sua naturale vocazione. Ora, dopo un periodo di crisi, drammatico, assomiglia molto a quelle zone degli Stati Uniti che sanno rialzarsi, rimettersi in piedi. L’isola attualmente è un fermento di idee, cultura, iniziative, di intelligenze e talenti, coltivati con passione e rigore, che non fanno più fatica a mostrarsi al mondo. Ho idea che tra non molto farà quel balzo in avanti che le sue potenzialità meritano.
Da accademico, puoi spiegarci l’entità dell’apporto intellettuale sardo alla cultura internazionale/globale? Non saprei dire quale possa essere l’apporto intellettuale sardo alla cultura. Non credo ci sia una specificità in tal senso: a differenza di quanto accadeva ancora 20 anni fa, oggi non si hanno difficoltà a studiare, che so, Dickens, in Sardegna così come in qualunque parte del mondo. Dunque l’intellettuale, lo studioso nato e cresciuto in Sardegna dialoga con il mondo. Tuttavia qualcosa di più si può dire. Al di là della sua storia, particolarmente ricca, soprattutto per quel che riguarda l’antichità, penso che sia stato straordinario l’apporto che la riflessione sulla realtà sarda ha dato alla storia del pensiero politico e giuridico internazionale. Gramsci, ad esempio, matura la sua riflessione politica tenendo costantemente presente la realtà sociale dell’isola. E l’interesse intorno ai concetti elaborati da Gramsci, subalternità ed egemonia, con cui oggi si interpreta la politica e il diritto nella sua dimensione internazionale e globale, può beneficiare da una approfondita conoscenza della Sardegna, della sua storia, delle sue tradizioni e delle sue lingue. In tal senso si era mosso Antonio Pigliaru, in ambito antropologico e giuridico. Il suo fondamentale e controverso studio sulla Vendetta barbaricina non ha ancora oggi smesso di generare nuove riflessioni sugli aspetti più controversi dell’idea di giustizia. C’è molto interesse per la Sardegna nel mondo, forse più di quanto si percepisca nell’isola. Si tratta di creare ponti tra l’isola e il mondo, un po’ come è avvenuto a Manhattan, dove questi ponti sono anche visibili.
Paolo Carta nato a Sassari nel 1968, è professore ordinario di Storia delle dottrine politiche nell’Università di Trento. Ha pubblicato diversi volumi sulla storia del pensiero politico nel Rinascimento e nell’età contemporanea. Ha curato la pubblicazione di due volumi di Antonio Pigliaru e il riordino delle sue carte. Visiting professor all’Ecole Normale Supérieure, Fellow dell’Italian Academy Columbia University, ha insegnato e tenuto lectures a Parigi, Lione, New York e Oxford.
Professor Carta, ci può raccontare il suo primo impatto con l’America e soprattutto con New York? È stato amore a prima vista e naturalmente New York è la città che più mi ha incantato e dalla quale, di fatto, non sono mai andato via. Ho sperimentato personalmente il significato dell’espressione ‘New York State of mind’. E in omaggio a New York, dunque, diamoci del ‘tu’. Come aveva scritto Tocqueville, New York è una città nella quale le persone, anche quelle più autorevoli, sono ‘approachable’. Ho respirato questa disponibilità e libertà quando, dopo alcuni brevi soggiorni, ho avuto modo di vivere a New York per un più lungo periodo di tempo, nel 2011, grazie a una fellowship dell’Italian Academy a Columbia University. Da allora ritorno regolarmente per proseguire le mie ricerche nelle sue ricchissime biblioteche e per godere dell’energia straordinaria che la città sprigiona. C’è poi un altro aspetto dal quale sono stato travolto e che ha poi finito per incidere anche sul mio lavoro: la curiosità insaziabile. A NYC se qualcosa è interessante, non importa di che si tratti, musica, scienza o arte, non la si può perdere. Si impara subito a profittare di questa ricchezza. Ciò funziona anche in ambito accademico: chi si occupa di pensiero politico, come me, sbaglierebbe a concentrarsi unicamente, in una realtà come NYC, sui propri specifici ambiti di ricerca. Molte idee interessanti emergono non solo nei bellissimi seminari di political theory, ma anche durante una lecture di musicologia, neuroscienze, arte contemporanea o architettura. Questo è ciò che più mi affascina della città e della sua vita accademica e culturale. Ogni volta che arrivo, tento di non perdere quel che posso e che anche solo istintivamente mi incuriosisce. Mi pare sia un atteggiamento tipicamente newyorkese. Quanto alla disponibilità e alla semplicità delle persone, ricordo di aver assistito al Miller theatre della Columbia a una splendida conferenza di Laurie Anderson, seduto accanto a un sorridente Lou Reed. In una settimana ho incontrato e conosciuto due miei miti: il compianto Rubin ‘Hurricane’ Carter e Lewis Nash. Non si tratta di casi eccezionali, è semplicemente New York, una città in cui è facile incappare in Patti Smith da Strand, mentre sei alla ricerca di un libro di aforismi curato da W.H. Auden.
Quali sono state le differenze tra l’immaginario creato intorno alla Grande Mela e la realtà che hai vissuto durante la tua permanenza in questa città? L’immaginario è legato ad alcuni cliché che non corrispondono al vero, soprattutto da una decina d’anni a questa parte. Ciò che colpisce per chi la vive è innanzitutto la serenità e la civiltà. Vivere a New York, anche con la propria famiglia e con i bambini, è molto semplice. La cordialità delle persone, la disponibilità all’ascolto, il desiderio di scambiare opinioni e punti di vista, è qualcosa che si può respirare quotidianamente, semplicemente uscendo per strada e mostrandosi disponibili al dialogo. Almeno questa è la mia esperienza. Un bagno di civiltà spontanea e contagiosa.
Che collegamento vedi – se esiste – tra le due isole: la Sardegna e Manhattan? Difficile fare un paragone. Sono però due isole, due mondi a sé, caratterizzati da un effervescente pluralismo culturale, che rappresenta l’autentica ricchezza di entrambe. Manhattan reinventa continuamente se stessa, la sua cultura, è perennemente impegnata nella costruzione di una propria tradizione. È carica di presente e futuro, nonostante una storia ormai imponente. Per costruire questa tradizione non si priva di alcuna esperienza. La Sardegna, che è invece una terra sovraccarica di storia e di tradizione, è rimasta per un lungo periodo immobile e ha finito per subire un’idea di sviluppo economico e sociale che contrastava con i suoi tempi e con la sua stessa natura, con la sua naturale vocazione. Ora, dopo un periodo di crisi, drammatico, assomiglia molto a quelle zone degli Stati Uniti che sanno rialzarsi, rimettersi in piedi. L’isola attualmente è un fermento di idee, cultura, iniziative, di intelligenze e talenti, coltivati con passione e rigore, che non fanno più fatica a mostrarsi al mondo. Ho idea che tra non molto farà quel balzo in avanti che le sue potenzialità meritano.
Da accademico, puoi spiegarci l’entità dell’apporto intellettuale sardo alla cultura internazionale/globale? Non saprei dire quale possa essere l’apporto intellettuale sardo alla cultura. Non credo ci sia una specificità in tal senso: a differenza di quanto accadeva ancora 20 anni fa, oggi non si hanno difficoltà a studiare, che so, Dickens, in Sardegna così come in qualunque parte del mondo. Dunque l’intellettuale, lo studioso nato e cresciuto in Sardegna dialoga con il mondo. Tuttavia qualcosa di più si può dire. Al di là della sua storia, particolarmente ricca, soprattutto per quel che riguarda l’antichità, penso che sia stato straordinario l’apporto che la riflessione sulla realtà sarda ha dato alla storia del pensiero politico e giuridico internazionale. Gramsci, ad esempio, matura la sua riflessione politica tenendo costantemente presente la realtà sociale dell’isola. E l’interesse intorno ai concetti elaborati da Gramsci, subalternità ed egemonia, con cui oggi si interpreta la politica e il diritto nella sua dimensione internazionale e globale, può beneficiare da una approfondita conoscenza della Sardegna, della sua storia, delle sue tradizioni e delle sue lingue. In tal senso si era mosso Antonio Pigliaru, in ambito antropologico e giuridico. Il suo fondamentale e controverso studio sulla Vendetta barbaricina non ha ancora oggi smesso di generare nuove riflessioni sugli aspetti più controversi dell’idea di giustizia. C’è molto interesse per la Sardegna nel mondo, forse più di quanto si percepisca nell’isola. Si tratta di creare ponti tra l’isola e il mondo, un po’ come è avvenuto a Manhattan, dove questi ponti sono anche visibili.
31.3.14
Dessanay fa l’americano, da Ellington agli indiani Esce “Songbook–volume One” del contrabbassista sardo che vive in Inghilterra.
dalla nuova sardegna 31\3\2014
Dessanay fa l’americano, da Ellington agli indiani.
Esce “Songbook–volume One” del contrabbassista sardo che vive in Inghilterra. Nove composizioni nel segno della melodia, con un quartetto d’eccezione
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di Walter Porcedda
CAGLIARI. Conteggio a ritroso per il contrabbassista Sebastiano Dessanay
che dopo aver esordito un anno fa con “Songbook-Volume Two” propone finalmente il “Volume One”, cioè la prima parte di quell’ideale viaggio in due tappe nel cuore del jazz, intrapreso sin dal 1997 nei primi seminari jazz a Siena e Nuoro. Se nella prima proposta il musicista, residente da diversi anni in Inghilterra, a Birmingham, dove conduce studi avanzati nel campo della musica contemporanea – suonando allo stesso tempo con ensemble rinomati come Decibel, dell’irlandese Ed Bennet – proponeva una immersione negli umori e nelle atmosfere della musica europea, in questo “One”, cambia completamente di registro avventurandosi in America.
Sì, è alla grande culla della musica afroamericana che guarda infatti questo album, inciso per l’etichetta inglese F-ire dove il contrabbassista alla guida di una singolare formazione esplora con chiave melodica anche lo spirito originario del mainstream e del jazz contemporaneo.
Il disco suona con freschezza ed originalità d’approccio, e a onor del vero non si sente mai una nota fuori posto come la voglia di operare rifacimenti tout court di opere di celebri maestri.
Piuttosto c’è la passione di rileggere ed aggiornare con feeeling curioso, animato da vivace spirito di ricerca, la lezione della musica suonata nella Grande Mela soprattutto con un sentire aperto.
Dessanay, come già rilevato in occasione dell’uscita del precedente album “Two” ha talento compositivo ed è dotato di un ottimo livello di esecuzione. Una cavata possente quanto basta. Autorevole e presente, ma mai invadente, un fraseggio limpido, quasi trasparente, ideale per l’innesto dei soli e della musica eseguita di concerto con interessanti compagni di viaggio. A cominciare dall’altosassofonista Rachael Cohen, una voce malinconica venata di blues. Centrale la presenza del chitarrista Gianluca Corona, cresciuto alla scuola dei contemporanei, i vari Metheny, e Frisell soprattutto. Completa la formazione alla batteria il buon Alessandro Garau. Cohen e Corona, entrambi di spiccata inclinazione melodica danno il giusto supporto alla musica del leader che ha una cantabilità rigogliosa e accattivante. Sin dalla prima traccia, “Bouganville”, dall’incedere veloce con bel senso del ritmo guida immediatamente e introduce all’ascolto di un’opera a buon gradimento emotivo.
Nove composizioni nel segno della differenza, un ordito quanto mai vario che segnala spumeggianti swing come “Tuesday morning” accanto a oasi di riflessione intimistica, ved il poetico “Nuvole su Castello”. Naturalmente trovano posto i tributi alla lezione dei padri come “Duke and Monk” che chiude in un tripudio di lucido swing l’intero album.
E a proposito del grande Duca Ellington è all’elegante compositore e direttore d’orchestra che Dessanay ha sicuramente pensato nel comporre l’avvolgente “L’ultimo ballo”.
Discreto e altrettanto poetico l’omaggio ai nativi americani con rimandi alla musica suonata dalle tribù delle montagne Appalachi sono gli intriganti quanto austeri “Pianure”e “Intermezzo” affini per certi versi come segnale di vie originali al jazz a “Vow” nervoso crossover tra contemporary music e free.
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