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16.1.19

un bambino cosi sarà un ottimo adulto domani Fiorentina batte Toro, la lettera del piccolo tifoso viola al coetaneo granata che piangeva in tv: "Ti regalo una figurina di Belotti"

  da  repubblica  online  16 gennaio 2019


Fiorentina batte Toro, la lettera del piccolo tifoso viola al coetaneo granata che piangeva in tv: "Ti regalo una figurina di Belotti"




Il bambino, di Firenze, l'ha consegnata a sua madre incaricandola di trovare il destinatario: "Mi è dispiaciuto vederti in lacrime, si vince e si perde"

                               di CARLOTTA ROCCI

"Mi dispiace che la tua squadra abbia perso e mi è dispiaciuto vederti piangere. Anche se sono di Firenze, sono stato a Torino ed è una gran bella città. Ti vorrei dire che si vince e si perde e vorrei regalarti una figurina di Belotti. Ciao, Martino". Martino è un bambino di 6 anni che vive a Firenze e che domenica pomeriggio era davanti alla televisione con il nonno e il papà a guardare una delle sue squadre del cuore. Quando all'ottantasettesimo minuto i viola hanno segnato, prima rete di una vittoria colta con una doppietta di Federico Chiesa, lui si è alzato dal divano e ha esultato.Ma, dopo i replay del gol, sullo schermo Martino ha visto le immagini della tifoseria granata e lo ha colpito un bambino granata in lacrime sullo schermo. A lui è indirizzata la letterina che questa mattina, prima di andare a scuola, ha scritto su un foglio a quadretti e ha consegnato alla mamma. "Fagliela avere", le ha detto con la fede incrollabile che i bambini hanno nei loro genitori. Silvia, la madre, ci ha pensato su e ha deciso che, senza un indirizzo, la cosa migliore era affidare la lettera del figlio ai siti e ai giornali che a Torino potevano intercettare quel bambino.
"Domenica, dopo la partita, non mi aveva detto niente - spiega la mamma - ma questa mattina si è svegliato e mi ha detto che voleva raccontare una cosa brutta che era successa, e mi ha spiegato di quel piccolo tifoso". In un mondo dove le curve rischiano di restare chiuse per le violenze negli stati, la spontaneità e il cuore di Martino lasciano il segno: "Quel bambino non deve piangere, perché succede di vincere e di perdere, e poi il Toro è più forte, ma questa volta è andata così", ha ribadito alla mamma dimostrandosi più adulto di tanti adulti. Ora Silvia e Martino cercano quel bimbo in lacrime per consegnargli la figurina promessa.

16.12.18

L'inesistente teoria gender fa le sue vittime . TORINO – “Meglio bagnato di pipì che vestito di rosa fucsia”: la pensa così una mamma di Chivasso, in provincia di Torino.







Lo so che non dovrei giudicare ma a volte , ed è questo uno dei casi in cui non ci riesco . infatti mi chiedo e questa sarebbe una madre ? non oso pensare come crescerà il bambino con una madre del genere che lo preferisce pisciato che vestito da donna ed non è in grado distinguere una situazione d'emergenza da una normale. Leggendo fatti come questi credevo che l'attribuzione , con la quale son cresciuto anch'io avendo genitori pre '68 d, dell'attribuzione del colore rosa o fucsia alle donne e non ai maschi o se vestiti rosa se un gay o un appartenente al mondo LGBT , cosi come se un vecchio test ( chi ha fatto prima o con me la visita di leva lo ricorderà ) se rispondevi mi piacciono i fiori se un omosessuale , fosse ormai superata \ messa da parte e lasciata alle spalle . Invece sembra di no , vista la reazione della madre di questo bambino .








Infatti lancio un elogio agli insegnanti \ educatori che , visto l'impossibilità dei genitori dei genitori di fare un salto a scuola con della biancheria pulita o essere previdenti e dare al bimbo un paio di cambi in più , hanno saputo con il loro piano B , usare il buon senso e e dato la priorità , fregandosene delle ormai vetuste e superate teorie psico pedagogiche ante '68 , alle più elementari norme di igieniche e di decoro .
E poi se si creano stereotipi in bambini cosi piccoli sarà poi sempre più difficile , quando cresceranno , lavorare con loro sulle diversità di genere . Infatti Se non rigettiamo questo tipo di pensieri, non possiamo che alimentare idee distorte legate al modo di vestire o pensare”. Mi chiedo ma ancora Alle soglie del 2019, il rosa viene ancora visto come colore per ‘femminucce’, tanto da poter ‘deviare’ l’identità di genere di un bambino. Come detto ne l post post, tutto ciò è drammaticamente surreale.
E poi    come  sembrano  testimoniare  i commenti qui  sotto presi  dall'articolo su  fb   del ilfattoquotidiano


Stefano Gemignani Da bambino mi mettevano sempre vestiti da maschietto e... niente... sono gay lo stesso! 🤣

Giacomo Mrakic Stefano Gemignani io giocavo con le bambole delle mie amiche. e sono venuto su etero convinto.

Marilena Minto Stefano Gemignani cavolo! È successo pure a me, ho sempre amato gli abiti da uomo, fin da piccola giocavo con le macchinine, i martelli, ho pure giocato a rugby! E niente... pure a me piacciono gli uomini!


e la mia esperienza da ragazzo , visto che andavav a giocare con kle figlie di un vicino di casa di nonna materna capitava che si giocassi anche con le bambole . oppure mi mettessi i profumi nonostante i miei , come la madre del bambino sopracitata mi rimproverassero duramente di mia madre sono etero

20.12.14

meglio parlare di mafia ed antimafia fino a creare assuefazione che lasciare che prosperi in silenzio \ Il caso di maria Stefanelli la prima testimone di di 'andrangheta al nord e il suo rqpporto con i giudici

Lo   so che  v'annoierete   nel  leggere  storie  di mafie a  cosi breve distanza     ( vedere il precedente post  :  " la  storia  della  giornalista  Ester   "  di qualche  giorno fa  )   , ma come ho  già detto   nel titolo meglio un assuefazione   che  il silenzio   , o peggio   se  ne parli male  o  a  ....   come evidenzia lo stesso  Saviano


Roberto Saviano.15 dicembre alle ore 12.12

In questi giorni, dopo l'inchiesta “Mafia Capitale”, sono diventati tutti conoscitori di mafia. Ne scrivo qui: bit.ly/LaMafiaDiSempre
Non ho mai temuto i professionisti dell'antimafia, ma i dilettanti sì, e ho sentito affermazioni talmente assurde che mi viene da pensare che chi le ha pronunciate non solo non conosce il fenomeno criminale, ma forse nemmeno il Paese. D'improvviso sembra stupirsi che le organizzazioni mafiose agiscano con alleanze imprenditoriali e politiche. Ma in quale Paese ha vissuto sino ad ora? (....) 


Ma  soprattutto per  far  si che storie  come questa   non siano  casi isolati  c' cioè   : <<(...) Storia diversa per gente normale \storia comune per gente speciale  (...) >> (  per citare una famosa   canzone poesia  de  andreiana    ) e che   non diventino   solo  : <<  storie che restano sepolte nei faldoni delle procure, dimenticate negli archivi dei giornali, ma ancora vive e sanguinanti nell’animo di chi le ha vissute>>  e  condivise  e  da esempio  a   chi vuole uscirtne  o  cis ta  cadendo   . Ma  soprattutto  non ci  cada 

Ecco la  sua storia 

da  narco mafie    piu' precisamente  qui 

E’ una di queste la vita di Maria Stefanelli, classe 1965, testimone di giustizia contro la ‘ndrangheta in Piemonte dal 1998, costretta tutt’oggi a vivere sotto protezione per la ferocia della famiglia dei Marando che di lei, invece, non si è dimenticata.
Una vita spezzata dalle assurde regole dell’organizzazione, dalla rigidità dei protocolli dell’onorata società, dalla violenza del vivere mafioso. Vita raccontata, in ore di dolorosa deposizione, proprio in questi giorni a Torino nell’ambito del processo Minotauro scaturito dall’operazione che l’8 giugno del 2011, sotto il coordinamento della procura di Torino guidata da Gian Carlo Caselli, ha sgominato 9 locali di ‘ndrangheta nel capoluogo e in provincia.
Non piace che racconti, Maria. In alcuni momenti della deposizione, gli imputati dietro le sbarre si innervosiscono e il giudice Paola Trovati è costretta a richiamarli al silenzio. Un avvocato si lamenta con i giornali: “La Stefanelli non ha più nessun contatto con le persone di cui parla dal 1998, perché chiamarla a testimoniare in un processo le cui indagini sono state condotte dal 2007?”.
Le ragioni, invece, ci sono eccome. Foss’anche per portare davanti alla corte una testimonianza che faccia capire che cos’è e come opera la ‘ndrangheta, visto che troppi processi nelle regioni settentrionali stanno registrando preoccupanti assoluzioni da parte di una magistratura giudicante che, dopo sessant’anni di mafie al nord, appare ancora titubante di fronte alla natura delle organizzazioni criminali di stampo mafioso. Ma quello che racconta Maria riguarda invece da vicino la storia di molti di coloro che si trovano imputati nel maxiprocesso. E la sentenza sull’omicidio di suo fratello e del suo patrigno, per cui nel 2000 sono stati condannati Domenico Marando e Giuseppe Leuzzi, è agli atti del dibattimento in corso.
Maria Stefanelli è la sorella di Antonino Stefanelli, e figliastra dell’omonimo Antonio, i due esponenti della cosca ‘ndranghetista di Varazze (Sv) che con Francesco Mancuso il 1° giugno 1997 caddero in una trappola a Volpiano (To) a casa di Domenico Marando, che voleva vendicare la morte del fratello Francesco avvenuta nel 1996 di cui i tre erano supposti responsabili: l’ipotesi è che non avrebbero saldato con lui un debito per una partita di droga e, consapevoli dei rischi che quella mancanza comportava, lo avrebbero preceduto nell’eliminarlo. Si salvò, quella sera, solo Roberto Romeo, rimasto di guardia, che sull’alta scalinata di un noto centro commerciale dell’hinterland torinese raccontò alla stessa Stefanelli le dinamiche della scomparsa. Romeo nel 1998 sarebbe poi caduto a Rivalta (To) in un’imboscata di Antonio Spagnolo, con la collaborazione di Rocco Varacalli, uomo di fiducia dei Marando, con un ruolo chiave nell’attuale processo dell’aula bunker delle Vallette perché è stato proprio il suo pentimento nel 2006 a togliere il coperchio sugli affari delle cosche in Piemonte e a rendere così possibile l’operazione Minotauro.
Ma, soprattutto, Maria Stefanelli è la moglie di quel Francesco Marando vendicato nell’agguato di Volpiano, ucciso nel 1996.­ Il cadavere carbonizzato fu ritrovato nei boschi di Chianocco (To).
Della morte del marito Maria venne a sapere dal telegiornale: “E’ stato ritrovato il corpo carbonizzato di un uomo di origine marocchina. Portava al dito una fede nuziale con inciso “Maria 9 giugno 1990””. La donna, all’epoca trentunenne e con una bambina piccola, si stupì della coincidenza con il nome e la data delle sue nozze, ma solo quando alla porta si presentò la lunga processione per le condoglianze capì che l’anello era il suo.
“Mi crollò il mondo addosso, ma non posso negare che quella notizia fu per me una liberazione”.
Quando Maria Stefanelli pronuncia queste parole, chi il 16 gennaio 2013 era in aula comprende le ragioni dello sfogo di cui la donna sente ancora di doversi giustificare, perché ha già ascoltato la sua storia, che il pubblico ministero Monica Abbatecola le aveva chiesto di raccontare. Maria Stefanelli parla del fidanzamento combinato dalle famiglie, a cui lei aveva ceduto per la necessità di lasciare la casa materna (fidanzamento avvenuto al carcere delle Vallette, dove Francesco Marando si trovava recluso, e matrimonio in Comune a Torino, con il promesso sposo che arriva in blindato e firma gli atti con le manette ai polsi); della vita da reclusa a cui suocera e cognati la costringono, in un appartamento senza acqua, luce e riscaldamento, il cibo contato, uniche uscite ­- sempre sotto sorveglianza – le visite quotidiane al marito e la spesa per la necessità della famiglia da cui era trattata come una serva; dei pizzini che deve portare fuori dal carcere per la prosecuzione dei traffici dei Marando; delle riunioni al giardino dei Perre (un’altra famiglia affiliata) a Volpiano, dove ha assistito a riunioni di affari e a ingressi nell’“onorata società” suggellati da brindisi e grandi mangiate, da cui le donne erano escluse, buone solo per servire al tavolo. Racconta della paura quotidiana, delle corse dagli avvocati per trovare il modo di fare uscire dal carcere il marito, dell’organizzazione della rocambolesca fuga dall’ospedale psichiatrico di Genova dove Francesco Marando riuscì a farsi ricoverare fingendosi depresso.
Da quella fuga l’inizio della latitanza, il periodo più duro per lei, costretta a trasferirsi a Platì (Rc), in una casa in cui subiva continue incursioni nel cuore della notte da parte delle teste di cuoio, che entravano sfondando porte e finestre che lei aveva smesso di riparare, tanto nessuno a Platì l’avrebbe mai toccata, lei, moglie del super ricercato Francesco Marando. Che infatti si trovava ospite a poca distanza, e con cui riusciva ad avere fugaci incontri, prelevata dagli uomini che ne supportavano la latitanza, che la conducevano nelle case in cui si nascondeva, o nei bunker nel bosco, in cui lui era “attrezzato e armato di tutto punto tanto da sembrare Rambo. A volte sentivamo i cani e i passi di chi lo cercava proprio sopra le nostre teste. Ma io non ero complice, non potevo che fare così, mi avrebbero ammazzata”.
L’ultima volta che lo vede è il 6 aprile 1996, compleanno di Marando: erano stati insieme nascosti una settimana, e proprio quell’ultimo giorno lui l’aveva massacrata di botte, perché dovendo andare a portare le condoglianze per una morte si era permessa di lasciare la bambina a una vicina di casa anziché alla suocera. Botte da sanguinare, senza potersi curare da nessuna parte. Lei, che doveva anche sopportare che lui avesse un’amante.
Dopo la morte di Francesco Marando, Maria Stefanelli torna a casa dalla sua famiglia, a Varazze, in Liguria. Sola con la sua bambina, piena di debiti lasciatigli dal marito che trafficava droga per centinaia di milioni di lire. Non un soldo, costretta a lavorare nei cantieri edili per tirare avanti: “Ma volevo che mia figlia crescesse con dignità”.
L’anno dopo avviene l’omicidio di suo fratello Antonino e dello zio Antonio Stefanelli, fratello del padre morto di infarto con cui la madre si era risposata in seconde nozze.
Poi l’incontro con Roberto Romeo, che le rivela i retroscena del delitto.
Lei, intanto, continua a subire le pressioni della famiglia acquisita: “Vogliamo vedere la bambina, è nostro diritto. Devi scendere in Calabria per la messa di ricordo di tuo marito”.
Quando viene a sapere che anche Romeo è stato ucciso, si decide per la scelta più difficile. Lo dice ancora piangendo: “Ho fatto la scelta della mia vita, quella più giusta, anche se ho perso tutto, la mia famiglia che mi ha chiamata infame, mia madre che ho potuto rivedere solo quando era già morta in una cella di frigorifero. Ho scelto di dire quello che sapevo, perché altrimenti sarei stata assassina anch’io”. Preparerà di corsa una valigia con poche cose lasciandosi tutto alle spalle. Il giudice Marcello Tatangelo raccoglierà la sua testimonianza.
Ma la sua storia non è ancora finita: “Loro mi danno la caccia tuttora. Coi Marando non si scherza”.


 

Essa     ha deciso di  parlare     e rompere il muro di silenzio    ed  è spiegato benissimo in quest'altri due   articoli

 il  primo preso  da   http://www.ioacquaesapone.it/canale.php?id=39

Maria Stefanelli: la prima testimone di ’ndrangheta al nord

Il coraggio di dire no, di denunciare i familiari, di inseguire il sogno di una vita normale

Ven 28 Nov 2014 | di Angela Iantosca


Ha deciso di parlare, perché denunciare nelle aule di tribunale non è sufficiente. Ha deciso che la sua storia la doveva mettere nero su bianco, far sapere a tutti ciò che accade e continua ad accadere. E lo doveva fare soprattutto per lei, sua figlia, per la quale un giorno ha voluto lasciare il suo passato e avventurarsi in un nuovo futuro, fatto di speranza e amore.
Maria Stefanelli è la prima testimone di ’ndrangheta del Nord Italia, una donna nata e cresciuta in una famiglia di ’ndrangheta e poi diventata moglie di un uomo di ’ndrangheta. Una vita segnata, fatta di violenze, abbrutimento, illegalità, dalla quale ha trovato il coraggio di fuggire.
La incontro a Milano, in un luogo che abbiamo concordato la sera prima. So che lei arriverà in auto da una località che ignoro. So solo che ha viaggiato a lungo. Eppure la gioia di essere lì e di trascorrere una giornata diversa non le fa sentire minimamente la stanchezza.
Ci fermiamo in un bar a chiacchierare. Con noi Manuela Mareso, la giornalista che l’ha aiutata nella stesura del libro “Loro mi cercano ancora”, nel quale racconta la sua storia. 
«Sono nata in Calabria, ad Oppido Mamertina, il paese che tutti conoscono per gli inchini delle statue delle Madonne davanti alle case dei boss. Lì avevamo un esercizio commerciale che un giorno, non so ancora perché, o forse sì, ci viene bruciato. È così che perdiamo tutto e quando ho 9 anni, con i miei fratelli e mia madre, vado via da lì, per ricominciare in Liguria, dove i miei fratelli “lavorano”. Non saprei dire cosa fanno, so solo che la nostra è una vita da indigenti e che da quel momento per me è cominciato l’inferno: le botte, le violenze di mio zio, l’assenza dell’amore di mia madre, la scuola che non riesco a finire, i doveri di “femmina” e quella famiglia che non comprendo, alla quale sento di non appartenere».
Cosa significa crescere in una famiglia di ’ndrangheta?
«Non ne hai consapevolezza vivendola dall’interno. Ma vedi cose, vivi situazioni, senti discorsi che un bambino non dovrebbe mai sentire. Sei obbligato a vedere cose che ti bruciano l’infanzia, sentendo il dovere poi di obbedire. Perché chi cresce in una famiglia di ’ndrangheta sa e vede tutto. Quante donne potrebbero parlare, potrebbero ribellarsi, gridare e dire basta. Le più forti siamo noi, noi donne, che dobbiamo prendere i nostri figli e denunciare. La ’ndrangheta è come un cancro, una metastasi, ti uccide, ma si può curare. Ti uccide lentamente. Ma noi donne siamo una risorsa, siamo più forti. Noi possiamo salvare i figli, salvando noi stesse e ritrovando quella infanzia che ci hanno rubato».
La tua infanzia è stata durissima. Poi è arrivato il matrimonio.
«Quando ho conosciuto Ciccio (Marando – ndr) pensavo di poter coronare il sogno del principe azzurro che ti libera dal dolore. Non sapevo di finire dalla padella alla brace. Ciccio era in affari con i miei fratelli, che per questo vollero la nostra unione. Quando ci siamo sposati, lui era in carcere: ci siamo sposati con la polizia e lui era in manette. E dal primo giorno del matrimonio ho capito che nella mia vita non sarebbe cambiato niente, anzi. Ho cominciato a fare su e giù tra le carceri. Ero solo uno strumento per i suoi porci comodi. Poi, per fortuna, sono rimasta incinta di una bambina e lì ho creduto che qualcosa cambiasse. Invece no: usava la mia gravidanza per nascondere sotto la mia pancia quello che non voleva venisse trovato dalla polizia ai posti di blocco…». 
Un incubo che diventa un inferno, quando Ciccio la picchia con tale violenza da farle perdere il secondo bambino che aspettava, al quarto mese di gravidanza.
«Non si fidava di me, mi teneva sotto controllo. E un giorno, per farmi capire chi comandava, mi ha dato una bella lezione. Mi ha portato in montagna, vicino Platì (in provincia di Reggio Calabria – ndr), dove abitavamo in quel momento, e mi ha massacrata di botte. Aspettavo un bambino. Un maschio. Quando mi ha fatto lasciare inerme davanti alla porta di casa, ho sentito qualcosa tra le gambe. Era sangue. Era mio figlio. Credo di essere morta in quel momento. La forza, da allora, me l’ha data solo la presenza di mia figlia. Da quel momento ho solo pensato che dovevo salvarla da tutto questo».
Ma per fare quei nomi, per denunciare padre, madre, fratelli, quanta forza ci vuole? Quella della disperazione. Perché Maria, come tutte le donne, lo sa che non si può parlare. Che non è permesso sottrarsi, neanche immaginare di farlo, dalla famiglia alla quale si appartiene.
«La forza ti viene quando ti aggrappi, capisci le cose, capisci che sei in pericolo. Che non è giusta quella vita. Mi sono trovata ad un bivio: o la morte o la vita. Io ho scelto la vita. E questo l’ho fatto dopo la morte di mio fratello e mio zio, quando ho dovuto prendere una decisione definitiva, anche per salvare la vita di mia figlia, per darle un futuro, una dignità. Dopo la morte di Ciccio, che per me è stata liberatoria, ho trovato il coraggio. Con la scusa di dover denunciare i soprusi del mio datore di lavoro, sono entrata dai Carabinieri. Credo che il maresciallo mi stesse aspettando. La mia famiglia e quella di Ciccio da anni riempiva le pagine dei giornali. Tutti sapevano. Dietro di noi avevamo una striscia continua di sangue. Quando mi dicono che io sarei stata la prossima, decido che è ora di cominciare a testimoniare. Era il 5 febbraio del 1998. Di fatto si trattava di scegliere se vivere o morire. Semplicemente. Da mesi ormai mi trascinavo logorata dal pensiero di essere uccisa. È così che ho cominciato a parlare. Sono diventata una teste importante all’interno di un procedimento penale che ha portato in carcere molte persone, il processo Minotauro, che si è svolto a Torino, perché la mia famiglia operava nel territorio piemontese e ligure». 
Maria ha scelto da che parte stare e ne ha pagato le conseguenze, perché da allora vive in località protetta con il timore di essere raggiunta e uccisa, ma ora, nonostante tutto è libera.
«Ho deciso di dire basta, come vorrei lo facessero tutte le donne di ’ndrangheta, che sanno, sono complici. Devono trovare la forza e farlo per i loro figli. Non è semplice vivere in un non luogo con una falsa identità. Ma ora sono libera, libera, libera di camminare senza dover sottostare ai loro ordini. E ogni giorno posso scegliere in che direzione andare».   

il secondo preso   sempre  dal sito   da   narcomafie
di Manuela Mareso 2 lug 2013 

Io, tradita dai giudici


Quindici anni di solitudine. Di fuga, di isolamento. Per lei e sua figlia. Nessun contatto con la famiglia, nessun amico. Per loro ormai è un’“infame”, e l’hanno cancellata dalle loro vite. Nessuno a cui poter raccontare il suo passato. Un nuovo nome, una nuova identità. È la storia di Maria Stefanelli, testimone di giustizia contro la ‘ndrangheta dal 1998, dopo una vita di violenze e brutalità. Una voce che fuori dai tribunali nessuno ha mai sentito, e oggi, per la prima volta, decide di spezzare il silenzio. Il motivo è la decisione dei giudici di Torino – chiamati a emettere il verdetto di primo grado nel maxi processo sulla ‘ndrangheta in Piemonte ora alle battute finali – di revocare l’ordinanza di custodia cautelare per Rosario Marando, elemento di spicco della famiglia di Platì (Rc) che da 30 anni comanda a Volpiano, nell’hinterland torinese. “Sono molto preoccupata per l’incolumità della mia cliente”, dice l’avvocato Cosima Marocco. “Rosario Marando ha più volte espresso un fortissimo livore nei suoi confronti, sia al processo Minotauro, dove è imputato per associazione mafiosa, sia al processo Stefanelli, in cui è accusato di omicidio. Era detenuto per narcotraffico, sarebbe dovuto uscire nell’aprile del 2014, invece con un cumulo di pena è riuscito a estinguere i mesi residui e dunque ora è fuori”. Nel processo riaperto per la morte di Antonio e Antonino Stefanelli e Francesco Mancuso – per il quale nel 2000 era già stata pronunciata una condanna per il fratello Domenico Marando e per Giuseppe Leuzzi, condannati all’ergastolo –, Rosario Marando è stato protagonista di un colpo di scena: “So dove sono sepolti i tre cadaveri, ce li ho messi io”, ha affermato lo scorso aprile, interrompendo l’udienza e portando giudici, pm e avvocati nel boschi della Vauda, a Volpiano. Ad oggi le ricerche non hanno portato risultati.
Signora Stefanelli, come ha reagito alla notizia della liberazione di Marando?
Sono terrorizzata. Non dormo e non mangio da giorni, sono ripiombata nell’incubo di anni fa. Rosario Marando appartiene a una famiglia potente di ‘ndrangheta, una famiglia di assassini oltre che di grandi trafficanti di droga. E lo so perché sono sua cognata. Ne ho sposato il fratello, il boss Francesco Marando, di cui sono rimasta vedova nel 1996, quando è stato ammazzato e bruciato nei boschi di Chianocco (To) dai miei familiari, con cui era finita l’intesa negli affari. Il nostro era stato un matrimonio combinato, come avviene nelle famiglie mafiose calabresi. Non ho mai pensato che i Marando dal carcere si fossero dimenticati di me, ma ora mi preoccupa il fatto che Rosario e Domenico si siano palesemente riavvicinati dopo la grossa rottura dovuta alla spartizione del tesoro del loro mitico – in ambienti criminali – fratello Pasqualino. Dalle sue deposizioni ai processi Rosario ha lanciato palesi messaggi, l’ultimo interrogatorio con il pm Roberto Sparagna sembrava un duello. Bisogna interpretarlo il linguaggio della ‘ndrangheta. Sapere che i fratelli Marando sono tornati in sintonia per me è una notizia angosciante. Eppure non è neanche questa la cosa che mi deprime maggiormente.
Che cosa allora?
Ancor più del fatto che sia libero, mi inquietano le motivazioni addotte. Suonano chiaramente come un’anticipazione di una sentenza di assoluzione, e temo non solo per Rosario. Si trattasse di un processo a Reggio Calabria penserei male. Siamo a Torino, voglio credere che semplicemente le tre giudici non sappiano che cos’è la ‘ndrangheta. Mi sembra che non colgano la caratura criminale di questi imputati, che li considerino solo dei bifolchi, dei cafoni, non delle menti più evolute come la guida di un’associazione di stampo mafioso impone. Del resto è un atteggiamento ricorrente nella magistratura giudicante di molti processi al nord. La mia era una sensazione maturata seguendo le udienze a distanza, e questo provvedimento sembra darmi ragione.
Perché è così severa nel suo giudizio?
In quella revoca si mettono in discussione le dichiarazioni mie, di Rocco Marando – il fratello pentito – e di Rocco Varacalli, il collaboratore che ha fatto scoppiare Minotauro. Il punto è questo: io, forse ingenuamente, ho sempre detto la verità. E la verità è che nessuno di loro, non Rosario e neanche mio marito, mi ha mai confessato “sono un affiliato”. Ma io ho assistito a molti rituali, ai “battesimi”, ai brindisi per i nuovi membri. Certo, non ho assistito a quelli dei Marando, anche perché loro erano già dentro l’organizzazione quando sono entrata nella famiglia. E sulla contestazione che non me ne abbiano mai fatto esplicito cenno, bisogna chiarire che nella ‘ndrangheta non funziona così, dell’appartenenza non si parla apertamente, figuriamoci alle donne poi, che sono bistrattate, sottomesse, umiliate, picchiate. Moltissime vanno avanti a psicofarmaci, per sopportare la morte di figli e mariti, o anche solo la prigionia in cui di fatto vivono. Io ero costretta a portare i pizzini fuori dal carcere per conto di mio marito, raggiungerlo nei suoi bunker sull’Aspromonte mentre era latitante. Perché ero la moglie di un mafioso. Se un giudice non capisce questo, non può capire la ‘ndrangheta.
Lei ha scelto di abbandonare quel mondo.
Sì, e l’ho pagato caro. Ma da quel momento nella giustizia ho sempre creduto, per questo quando mi hanno richiamata per i processi Stefanelli e Minotauro, dopo anni in cui mi ero rifatta una vita, benché misera come può essere quella di una fuggiasca sotto protezione, non ho avuto dubbi sull’accettare di testimoniare. E mi sono seduta su quella sedia da cui le giudici hanno visto uomini tremare di paura, imprenditori vessati sconfessare quello che avevano denunciato, addirittura persone rinnegare la propria identità e dire: “Non sono io, è un caso di omonimia”. Si è visto di tutto in quel processo. Purtroppo capita spesso che i giudici dei tribunali del nord sottovalutino la pericolosità e il livello di infiltrazione della ‘ndrangheta nel tessuto sociale ed economico, vanificando il lavoro dei magistrati inquirenti.
Che cosa pensa di fare ora?
Non lo so. Volevo essere dimenticata e dimenticare tutto. E’ stato impossibile. Quello che ho detto nelle aule di tribunale, e che già mi sembrava molto, è un centesimo di quello che ho vissuto. Capisco solo ora come una mancanza di conoscenza delle dinamiche dell’organizzazione possa influenzare le decisioni giudiziarie. Forse è il momento di raccontare come vive una donna di ‘ndrangheta e pubblicare il libro sulla mia vita che da tempo penso di scrivere. Lea Garofalo, Maria Concetta Cacciola e tante altre donne uccise per aver parlato non hanno fatto in tempo. Lo devo anche a loro.

  Ma  sopratutto lo  ha  fatto    con  questo libro


 

 Titolo    Loro mi cercano ancora. Il coraggio di dire no alla 'ndrangheta e il prezzo che ho dovuto pagare
Autore    Stefanelli Maria; Mareso Manuela
Prezzo Sconto -15%     € 14,45
(Prezzo di copertina € 17,00)
Dati    2014, 204 p., brossura
Editore    Mondadori  (collana Strade blu. Non Fiction)
     Disponibile in eBook a € 9,99

  scheda presa  da  su http://www.ibs.it

Loro mi cercano ancora” è il libro scritto da Maria Stefanelli, con Manuela Mareso, direttore di “Narcomafie”. Pubblicato da Mondadori a settembre, racconta la storia della prima donna testimone di giustizia contro la ’ndrangheta al Nord. Originaria di Oppido Mamertina (Rc), Maria Stefanelli all’età di 9 anni emigra in condizioni di povertà drammatiche dalla Calabria alla Liguria, dove la sua famiglia controllerà il narcotraffico e sarà protagonista di illeciti di varia natura. Morto il padre, la madre si risposa con il fratello di questi, Antonino, zio dal quale verrà abusata sessualmente. Conosce e sposa Francesco Marando, del quale crede di innamorarsi per liberarsi dalla sua famiglia, ma al fianco di quest’uomo condurrà una vita infernale. Quando Ciccio viene ucciso, braccata dai Marando, che ritengono gli Stefanelli autori dell’omicidio del loro familiare, decide di denunciare, cominciando una vita sotto protezione.Ancora oggi vive nella paura e nella solitudine a cui la vita sotto protezione la costringe.

12.10.13

Lauree lavorando Rachid Khadiri Abdelmoula e Daniela Ribon

musica  consigliata  ed in sottofondo  Eroe-Caparezza

Ora   i buonisti   d'accatto mi  diranno che  sono razzista  ,  e quelli  dell'ultra  destra     che  mi  sto  convertendo  .  Ma  sinceramente , queste cose  mi scivolano via    . Infatti   chi realmente  mi conosce  sa  che non lo  sono  .Perchè   entrambi  italiani o extra comunitari   nel bene  ( i, come in questo  caso  , o  nel male     sono uguali  . Qui non intendo  fare  confronti beceri  ma   voglio solo  far riflettere , evidenziano di  come i  media  esaltano anzi meglio  rendono : << Storia diversa per gente normale \storia comune per gente speciale >> ed ignorano  di come   molti studenti-lavoratori italiani ignorati da media e istituzioni. Che studiano, lavorano, si pagano da soli gli studi e talvolta aiutano economicamente la famiglia. Addirittura crescono figli e quindi studiano nell'unico ritaglio di tempo libero: la notte. Ore sottratte al sonno e al riposto per conseguire una laurea senza pesare a nessuno. Senza agevolazioni fiscali, licenze regalate, attività detassate, sconti sulle spese universitarie. Il solo aiuto, eventuale, di borse di studio conquistate con merito.
  

la  prima  è  da www.repubblica.it del 9\X\2013




"Mi sono laureato vendendo accendini":
la straordinaria storia di Rachid

Ecco la storia straordinaria di un immigrato marocchino che vendeva accendini in strada a Torino per pagarsi gli studi al Politecnico. E che oggi è dottore in ingegneria
Rachid, ti fanno le foto? Che cosa hai combinato? ». Pomeriggio affollato nel cortile del Politecnico. Tutti conoscono la storia del marocchino che si è laureato vendendo accendini e fazzoletti, e scherzano da vecchi amici. Ma questo è il lieto fine: «All’inizio erano scioccati. Capitava per caso, sotto i portici del centro. Io li osservavo. I più non dicevano nulla. Succedeva quasi sempre così. Li vedevo arrivare da lontano. Erano i miei compagni di corso, ragazzi come me. Li avevo visti al mattino a lezione, non potevano scambiarmi
per un altro. E infatti mi fissavano. Si avvicinavano, si avvicinavano. Poi, di colpo, si allontanavano frettolosi, senza dire una parola». Quanto tempo è andato avanti questo gioco? «Poco, per fortuna. Perché al mattino, nelle aule del Politecnico, qualcuno ha cominciato a chiedere: “Ma noi ci siamo visti ieri pomeriggio sotto i portici di via Po?”». Così, poco per volta, tutti hanno saputo. Ed è stato un bene: «Sì perché molti sono diventati amici veri. Se sono arrivato alla laurea triennale devo ringraziare anche loro, i tanti che mi hanno aiutato nei momenti di difficoltà. Se c’è una cosa bella dell’Italia è questa disponibilità che ho trovato in molte persone».
Happy end ma storia difficile. «Vedi qui sotto il sopracciglio? È il taglio di un pugno. Era un gruppo di ragazzi. Avranno avuto sedici anni. In via Roma, una notte. Avevo la mia mercanzia. Mi sono volati addosso. Mi insultavano. Un branco di razzisti. Mi hanno picchiato. Sarebbe andata peggio se non fossero intervenuti dei passanti. Vedi, anche qui, in fondo c’è del buono. Io ho sempre fatto così. Quando capita qualcosa di brutto devi cercare l’aspetto positivo, fare un reset e ricominciare da capo. È la regola del grafene: adattarsi per diventare più resistenti ».
Adattarsi. A Kourigba non era possibile. La famiglia di Rachid, padre, madre e sette fratelli, viveva di agricoltura e allevamento: «Ma la terra era poca e noi eravamo tanti. I miei due fratelli più grandi sono venuti in Italia per primi. Said è andato ad Alba, in provincia di Cuneo. Per questo ha dovuto imparare un po’ di dialetto piemontese, perché nei paesi se non parli il dialetto non sei nessuno. A me non è capitato, sono arrivato direttamente in città. Già è stato difficile, il primo mese, capire l’italiano in prima media».
Agosto 1999, la vecchia Golf dei fratelli di Rachid attraversa lo stretto di Gibilterra, corre lungo le autostrade del sud della Spagna
affollate di turisti, raggiunge il golfo di Marsiglia e supera la frontiera di Ventimiglia prima di puntare su Torino. «Ogni estate i miei fratelli tornavano dall’Italia e raccontavano meraviglie. Dicevano che c’erano un sacco di possibilità di lavoro. Io ero affascinato. Un giorno ho detto a mia madre: “Qui a scuola non ci vado più. Voglio seguirli in Italia” ». E la realtà si è dimostrata all’altezza delle aspettative? «Quando siamo arrivati ad agosto non mi rendevo conto di quanto freddo possa esserci qui. Certo, i miei fratelli avevano un po’ esagerato. È umano no? Se no come spiegavano che erano andati via dal paese?».
Rachid è una delle centinaia di stranieri che frequentano uno dei politecnici più ambiti d’Italia. Arrivano da tutto il mondo ma pochi vivono di espedienti come lui. «Il conto è presto fatto. Se calcoli una media di 20 euro al giorno riesci a portare a casa 600 euro in un mese. Una parte finisce nella mia quota di affitto: vivo con i fratelli. Un’altra va in vitto, libri e bollette ». E spesso non basta: «Lo so bene. Solo qualche mese fa abbiamo rischiato che ci togliessero il gas per qualche bolletta non pagata. Ma in questi casi è sempre arrivato qualcuno che ci ha tolto dai guai. Poi io sono riuscito a ottenere due borse di studio. Questo ultimamente non capita più. I soldi mancano anche all’Università e i criteri sono diventati più rigidi ».
La crisi colpisce anche persone intraprendenti come Rachid. Li colpisce due volte. La prima con la stretta sulle borse di studio e sulle tasse universitarie. «E la seconda con il crollo delle vendite di fazzoletti e foulard. Ci sono dei giorni che trascorri ore sotto i por-
tici e non metti in tasca nemmeno dieci euro. Che ci sia la crisi non te ne accorgi solo dai soldi. Te ne accorgi dalla rabbia della gente. Da come in tanti ti mandano a quel paese quando ti avvicini. Ti urlano dietro, se la prendono con te».
Assorbire per tutto il pomeriggio il veleno che ti sputa in faccia l’Italia incazzata e tornare a casa la sera a studiare geometria e analisi 1: un vero e proprio esercizio zen. «Il primo anno al Politecnico ho davvero avuto paura di non farcela. Quei due esami erano la mia bestia nera. Mi preparavo, studiavo di notte e venivo bocciato. Ci ho messo mesi e mesi a passare analisi 1. Poi, a giugno, in una bella giornata che ricorderò sempre, sono riuscito a sbloccarmi. Quella volta, quando il professore mi ha detto che avevo superato l’esame, ho capito che se stringevo i denti avrei potuto farcela davvero ».
Perché sia davvero un lieto fine non basta la laurea triennale e per quella magistrale ci vogliono ancora due anni di studi e fazzolettini. Rachid spera che non sia così: «Per me questa è solo una tappa. Voglio immaginare che con la laurea triennale ci sia qualche studio di ingegneria che possa farmi lavorare. Sarebbe importante capire presto che cosa è davvero il mondo del lavoro in questo mestiere. Certo, non nascondo che trovare il lavoro in uno studio per me vorrebbe dire abbandonare finalmente la vetrina ». Il salto sociale che non solo lui ma tutta la famiglia ha sognato da quindici anni. «Io non sono solo. I miei fratelli e i miei cugini hanno lavorato anche per me, si sono sacrificati perché studiassi in questi anni. Senza di loro non ce l’avrei mai fatta». Rachid è il front man di un gruppo rock, l’ultimo velocista di una staffetta sociale, il rugbista che i compagni sollevano perché possa salire in cielo a catturare il pallone. Dietro di lui c’è un lavoro di gruppo, diviso tra l’Italia e il Marocco, tra i fazzoletti di carta che i fratelli vendono nel centro storico e il piccolo terreno coltivato a Kourigba dalla madre e dagli altri fratelli rimasti in patria. Tutti hanno puntato su di lui, tutti lui oggi deve ringraziare.
E dopo? Che cosa c’è nelle prossime sequenze del film sulla favola bella dell’ingegnere dei fazzoletti? Una sola certezza: «Il principale obiettivo è il lavoro. Un lavoro buono, da ingegnere, che serve per vivere e serve perché ti piace». Non sono molti i cantieri aperti a Torino in questo periodo, anche la vita dell’ingegnere civile rischia di essere grama: «Ti sbagli. Stanno costruendo due grattacieli, una stazione nuova, il passante ferroviario. E in ogni caso, se non troverò lavoro qui andrò altrove. Ho fatto tremila chilometri da casa mia per arrivare in questa città e cercare di avere un titolo di studio. Non mi sconvolge certo l’idea di spostarmi da un’altra parte se sarà necessario. Caro giornalista ricordati una cosa: il grafene non si spaventa. Resiste quattro volte più dell’acciaio».


La seconda   è quella di Daniela Ribon, di San Donà di Piave, laureatasi presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia tratta  da  http://www.qelsi.it/2013/  del 10\X\2013  


Sono seconda di tre sorelle, di una famiglia povera ma dignitosa che ci ha sempre insegnato a lavorare e ottenere ciò che vogliamo con fatica e sudore. Il mio sogno è sempre stato quello di laurearmi in Lingue e fare la giornalista, oltre a viaggiare. Così mi sono iscritta all’Univesità Ca’ Foscari di Venezia nel 1994“. Una storia come tante, all’apparenza, ma Daniela non ha dimenticato gli insegnamenti dei suoi genitori e non ha voluto pesare sulla famiglia: “Per mantenermi agli studi facevo la cameriera in pizzeria. Poi nel 1996 è nata la mai amata prima
figlia Diletta. Ho smesso di lavorare in pizzeria ed ho iniziato a fare supplenze. La mattina a scuola e il pomeriggio con la bimba al parco o a giocare alle bambole. Poi è arrivato il mio secondo adorato figlio Diego Teodoro. Stessa vita, di giorno supplente, il pomeriggio mamma e la sera studentessa“.
Mamma e studentessa, ma di conseguenza anche lavoratrice, per potersi mantenere non solo gli studi, ma anche vitto, alloggio e prole. Senza l’aiuto di nessuno, anzi con qualche ostacolo: “Il mio ex non sopportava che studiassi e mi prendeva in giro dicendo che mai mi sarei laureata. Nel 1999, oltre a dare esami ho studiato per il concorso per la scuola primaria e l’ho vinto. Studiavo sempre e solo di notte perché di giorno mi dedicavo all’educazione dei miei figli e a loro volevo dedicare tutto il mio tempo libero. La notte loro dormivano e non avevano bisogno di me, quello era il tempo per me“.
L’unico aiuto è arrivato da una borsa di studio: “Ho vinto una borsa di studio di circa tre milioni (di vecchie lire n.d.r.), ossigeno per le scarse finanze. Solo mia mamma sapeva la data degli esami perché il mio ex pur di non farmeli fare mi sequestrava l’auto, che era sua, o mi strappava libri e appunti“.
Daniela però non si è arresa e ha continuato a lottare. Da sola: “Non potendo frequentare andavo a ricevimento dai docenti per concordare il programma e quella diventava l’occasione per fare un gita a Venezia con i miei bimbi. Con la tesi è arrivata anche la fine del mio matrimonio. Il giorno della Laurea ho pianto. C’erano le persone che più amo: i miei figli, i miei genitori che hanno sempre creduto in me, mia nonna, le mie sorelle, e poi tanti amici“.
Si è laureata, nonostante i figli da seguire e un matrimonio fallito, proprio per colpa della laurea. Ma Daniela non ha finito, anche ora sta continuando a studiare: “Sto studiando per la specialistica in lettere, sempre e solo di notte. Come sempre
Pensi che gli studenti-lavoratori siano una categoria dimenticata da media e istituzioni?
Sicuramente i media non si occupano degli studenti-lavoratori, non capisco perchè. A volte sono i più motivati.
La tua storia potrebbe essere considerata straordinaria, eppure è quella di tanti italiani. Tu ti senti speciale?
Non mi sento speciale, sicuramente orgogliosa per ciò che sono riuscita a fare, se guardo al passato mi sembra incredibile esserci riuscita, ci vuole una gran dose di forza di volontà!
Repubblica recentemente ha pubblicato un articolo raccontando la storia di un marocchino che è riuscito a laurearsi vendendo accendini per pagarsi gli studi. Pensi che i quotidiani nazionali potrebbero essere interessati pure alla tua storia?
Non voglio essere polemica, ma credo che il venditore di accendini abbia fatto notizia solo perché marocchino. Ti assicuro che ci sono tanti cittadini italiani che fanno lavori molto umili pur di mettere assieme i soldi per le tasse ma di loro non si parla, non facciamo notizia, forse neppure audience. Ma siamo tanti…


emergenza femminicidi non basta una legge che aumenti le pene ma serve una campaga educativa altrimenti è come svuotare il mare con un secchiello

Apro l'email  e tovo  queste  "lettere "   di  alcuni haters  \odiatori  ,  tralasciando  gli  insulti  e le  solite  litanie ...