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11.10.25

DIARIO DI BORDO N 151 ANNO III . IDIOZIE POLITICHE IL CASO DI Francesco Vincenzi primo cittadino di Inverigo , SCUOLA MATERNA E IL burnout , ARTE ALL'ARIA APERTA IL CASO DI BRUNO PETRETTO , Un anno fa la tragedia alla Sailboard: «Dedico la laurea a mio padre»

colonna sonora Di. cosa stiamo parlando https://www.ilfattoquotidiano.it/2025/10/07/sindaco-inverigo-rimuove-striscione-pace-notizie/8152645/ Va benenon essere della stessa opinione \ schieramento ma qui si esagera si è su posizioni negazioniste . Infatti la sa tira di Makkox descrive benissimo la ossessione al dissenso ( vedere link sopra ) e il video sotto  

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   da  https://www.today.it/storie/lettera-insegnante-clara-holt.html

 "Mio padre dice che la gente come te non conta più, non hai nemmeno un TikTok": l'addio di una maestra d'asilo Il monito affidato ai social è lo specchio di un fenomeno tutt'altro che isolato: il burnout nel settore dell'insegnamento è sempre più esplosivo

 "Dopo quarant’anni passati a insegnare l’ABC ai bambini, la mia carriera non si è conclusa con una festa o con un applauso, ma con una piccola, tagliente frase pronunciata da un bambino di sei anni: ‘Mio padre dice che la gente come te non conta più’." È amaro lo sfogo di una maestra neo pensionata che ha trascorso la propria vita professionale insegnando in un asilo alla periferia di Denver, metropoli statunitense capitale del Colorado. La riflessione è firmata Clara Holt, probabilmente uno pseudonimo dato che non risultano insegnanti con questo nome. Tuttavia lo sfogo lasciato sui social è diventato virale a inizio ottobre 2025, cupo riflesso della svalutazione della professione di insegnante in America (ma non solo). Un monito che sottolinea ciò che sta andando perduto nel mondo dell’istruzione. Clara non invoca colpevoli, ma chiede rispetto - non per sé - per la funzione insostituibile che ogni insegnante svolge: prendersi cura dei bambini, della loro fiducia, del loro desiderio di scoprire. A innescare la riflessione è la tagliente frase pronunciata da un bambino di sei anni mentre lei si preparava a impilare negli scatoloni i ricordi di una vita da insegnante: "Mio padre dice che la gente come te non conta più" dice, per poi aggiungere senza sarcasmo. "Non hai nemmeno un TikTok". “Sanno scorrere app sul display prima ancora di impugnare un pastello” Clara, maestra d'asilo Quando iniziò la sua carriera nei primi anni Ottanta, Holt ricorda come l'insegnamento fosse vissuto come una promessa condivisa: "Ciò che facciamo conta". Le sere erano dedicate a ritagliare fogli colorati, applicare glitter, costruire angoli di lettura. I genitori portavano biscotti alle serate scolastiche. I bambini consegnavano biglietti fatti a mano con cuori diseguali. Il riconoscimento era nei gesti piccoli, non nei numeri. Negli ultimi anni, però, quel mondo è cambiato. “Mio padre dice che persone come te non contano più” Clara descrive un sistema che l’ha risucchiata in procedure burocratiche, in schermate da compilare per difendersi da lettere arrabbiate, in genitori che urlano davanti ai figli mentre uno registra con il cellulare. I bambini stessi arrivano già esausti, ansiosi, abituati alla luminosità degli schermi: sanno scorrere app sul display prima ancora di impugnare un pastello. E l’insegnante è chiamata a essere tutore emotivo, psicologo, operatore sociale, riparatore di traumi e alunna del curriculum. "Tutto in sei ore, con risorse esigue". "Un giovane preside una volta mi disse: “Clara, forse sei troppo affettuosa. Il distretto vuole risultati misurabili”. Come se la gentilezza fosse un deficit". Eppure, Clara è restata. Per quegli attimi che nessun foglio Excel può catturare: un alunno che le sussurra "Mi ricordi mia nonna"; un biglietto tremolante con scritto "Mi sento al sicuro qui"; un bambino che, per la prima volta, alza lo sguardo e dice "Ho letto l'intera pagina". Ma Clara ha visto anche crescere l'aggressività, il silenzio prendere il posto delle risate nella sala insegnanti. Le colleghe, dice, sono scomparse una dopo l’altra, piegate da un burnout crescente. E lei stessa si è sentita sparire "come gesso cancellato dopo troppe lavate". Secondo gli ultimi dati dell'associazione degli insegnanti americani negli Stati Uniti ogni anno l’8 per cento degli insegnanti abbandona la professione, e sono i più giovani quelli che sarebbero a rischio più elevato. In Italia oltre la metà dei docenti manifesta sintomi di burnout o livelli significativi di stress denunciando di lavorare fino a tre ore in più rispetto al pattuito. La lettera d'addio di “Clara Holt” Nell'impacchettare le ultime cose prima di andare in pensione ha infilato in una scatola decine di biglietti ricevuti in trent’anni. Nel fondo di un cassetto ha trovato una lettera di una studentessa del 1998: "Grazie per avermi voluto bene quando ero difficile da amare". Clara si è seduta sul pavimento e ha pianto. L'addio senza cerimonie, senza applausi. Solo la stretta di mano sommessa di un giovane preside assorto nel suo smartphone. "Se conoscete un insegnante, qualsiasi insegnante, ringraziatelo - conclude - Non con una tazza o un buono. Ma con parole, rispetto, consapevolezza che dietro ogni voto c’è un cuore che ha provato. Perché in un mondo che spesso li dimentica, gli insegnanti sono quelli che non dimenticano i nostri bambini". -- "Mio padre dice che la gente come te non conta più, non hai nemmeno un TikTok"

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LA  NUOVA  SARDEGNA  11\10\2025 


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LA  NUOVA  SARDEGNA  11\10\2025 
La storia
Un anno fa la tragedia alla Sailboard: «Dedico la laurea a mio padre»
di Marco Bittau

L’olbiese Anna Maria Campus discute una tesi ispirata alla veleria di famiglia

Olbia
La prima pagina della sua tesi di laurea è un foglio bianco, in alto una piccola dedica in corsivo: «A mio padre». E già così è un colpo al cuore. Anna Maria Campus – olbiese, neodottoressa in economia aziendale all’Università di casa, la “fabbrica” dei manager del turismo – per completare gli studi ha scelto la via dell’emozione forte, dell’orgoglio di famiglia e della gioia di fare un regalo al padre che non c’è più, Giancarlo Campus, velista e imprenditore conosciutissimo in città, titolare della veleria Sailboard nell’area industriale di Olbia. Proprio un anno fa aveva perso la vita nel suo capannone, un tragico incidente sul lavoro, che ha posto i tre figli (Anna Maria, Nicola e Mattia) di fronte alla realtà di un’azienda da mandare avanti, di un progetto d’impresa da sviluppare e della memoria di un padre-imprenditore da consegnare alla piccola grande storia degli olbiesi di mare. Pochi ma buoni. Il tema della tesi la dice lunga: “Il passaggio generazionale nelle imprese familiari: il caso Sailboard”. Cioè, la veleria avviata dal padre Giancarlo. Inevitabile che la tesi di laurea a questo punto diventi anche la storia della propria famiglia, spezzata da una tragedia, ma ripresa di petto e di studio, perché la vita non si ferma.
La mia tesi – racconta Anna Maria – è dedicata al tema del passaggio generazionale nelle imprese familiari, un argomento di grande rilevanza per l’economia italiana e sarda, dove la maggior parte delle aziende è a conduzione familiare. Il lavoro analizza le sfide e le opportunità che accompagnano il ricambio generazionale, approfondendo gli aspetti economici, organizzativi e relazionali che influiscono sulla continuità dell’impresa».
«Una parte del lavoro – aggiunge – è dedicata al caso Sailboard, la veleria di famiglia, utilizzato come esempio concreto per comprendere come il processo di transizione possa essere vissuto dall’interno di una realtà artigianale locale. Attraverso questo caso ho voluto mostrare come il passaggio generazionale non sia solo una questione di successione nella proprietà o nella gestione, ma anche di trasmissione di valori, competenze e identità aziendale, elementi fondamentali per garantire la sostenibilità e l’evoluzione dell’impresa nel tempo».
È la stessa neodottoressa a raccontare nella tesi di laurea la storia dell’impresa di famiglia: «La veleria Sailboard nasce a Olbia oltre trent’anni fa da una scelta radicale del fondatore, Giancarlo Campus, cioè abbandonare il mondo itinerante del luna park per stabilirsi in un contesto marino stabile, dove la passione per la vela potesse diventare una vera professione. Nel corso degli anni, il modello di business artigianale di Sailboard ha subìto un’evoluzione naturale guidata dalla visione e dall’intraprendenza del suo fondatore».
«Nato con l’intento di fornire servizi specializzati nel mondo della vela – prosegue Anna Maria Campus nella sua tesi – il laboratorio si è inizialmente concentrato sulla riparazione delle vele e su tutto ciò che ruotava intorno alla pratica del windsurf, disciplina molto diffusa in Sardegna già negli anni Ottanta».
Tra le intuizioni di Giancarlo Campus anche l’espansione della veleria anche fuori dal naturale ambito nautico. Nell’arredamento, per esempio. Poi nel 2021 il passaggio dal piccolo laboratorio al grande capannone in via Namibia, nell’area industriale. Oggi, un anno dopo la tragedia, nella spiaggia dello Squalo (davanti al chiosco ristorante Sa Joga, base dei surfisti olbiesi) i tre figli hanno posato nell’erba un piccolo altare con due vele al vento e una targa che spezza il cuore: «Il mare era la tua casa, il vento la tua guida, Il Capitano della nostra vita che naviga ora mari senza confini».

1.2.25

diario di bordo n 101 anno III . francesco lotoro e L’archivio è raccolto nella Fondazione Istituto di Letteratura Musicale Concentrazionaria di Barletta rqccoglie la musica dei lager nazisti ., Sebastiano Notarnicola rapito da una donna in un bar a 5 mesi, dopo 16 anni ritrova la famiglia: «Lei non poteva avere figli» ., La curerà Dio”, bimba di 8 anni muore di diabete: i genitori le avevano negato l’insulina .,La curerà Dio”, bimba di 8 anni muore di diabete: i genitori le avevano negato l’insulina

 da   ilfatto  quotidiano  del  28\1 \2025  


UN ARCHIVIO PER LE ARMONIE DELLA PRIGIONIA SI CHIAMA Fo n d a z i o n e Istituto di Letteratura Musicale C o n c e n t ra z i o n a r i a . Raccoglie manoscritti, partiture, materiali epistolari, ma ormai anche strumenti musicali. È frutto del lavoro del musicista e compositore Francesco Lotoro, che ha contattato sopravvissuti e famiglie di ex prigionieri in tutto il mondo. Il catalogo dei documenti raccolti è sul sito fondazioneilmc.it. Da quest ’esperienza nascerà una cittadella della musica concentrazionaria su un’area di 10 mila metri quadri a Barletta


Non solo i campi tedeschi, ma pure i gulag russi, le prigioni americane e degli altri alleati. L’archivio è raccolto nella Fondazione Istituto di Letteratura Musicale Concentrazionaria di Barletta. “Ho iniziato a 24 anni – racconta – oggi ne ho 60. Era un’altra epoca, non avevo i mezzi per un lavoro di ricerca scientifico, era tutto basato sui rapporti diretti con i superstiti. Non era solo incontrarli, ma diventare amici, entrare nelle loro case, nelle loro vite”.
Che genere di documenti ha catalogato?
Manoscritti, partiture, materiali epistolari, foto. Da qualche anno raccolgo anche strumenti musicali: ho cominciato tardi, ma ho capito che sono fondamentali per disegnare la geografia musicale del luogo da cui provengono.
Quali strumenti?
Abbiamo tre violini. Nel 2018 la CBS realizzò un servizio di 30 minuti sulla mia ricerche, la videro negli Stati Uniti e mi contattò un amico di John Stanislav Hillenbrand, che era stato violinista dell’orchestra di Auschwitz. La vedova ci donò lo strumento. L’altro violino è di un italiano, internato dopo la battaglia di Gondar in Etiopia del 1941. Il terzo è uno strumento di liuteria arrivato a brandelli da Dachau, restaurato da un bravissimo liutaio di Ruvo.
Li usa per suonare le musiche che ha riscoperto.
Deve sapere che i violini hanno memoria. Sono come una pianta: vedono, sentono e riconoscono. Sembra un pensiero immateriale, ma è provato scientificamente. Il legno ha respirato l’aria dei lager, il suono di questi violini non è uguale agli altri: ha una voce diversa.
Che musica suonavano nei campi di prigionia?
Ovviamente i classici: Beethoven, Mozart, Wagner. Ma c’è u n’enorme produzione musicale ex novo: valzer, intrattenimento, musica religiosa. Ci sono prigionieri che hanno lasciato segni profondi nella storia della letteratura musicale: penso a Jean Martinon, Leibu Levin, Vsevolod Zaderatzki. 
Ha raccolto anche opere di musicisti anonimi?
Certo. Arrivano documenti su cui non c’è scritto nulla, a volte solo le iniziali in calce. Altre musiche sono lavori collettivi: scritte a più mani, in camerata. C’era anche una forma, come dire, di solidarietà musicale: a Sachsenhausen le parole venivano tradotte in otto o nove lingue, perché tutti potessero cantarle. Una sorta di Unione europea artistica ante litteram.
 Si suonava anche per intrattenere i carcerieri? Sì. La banda poteva accompagnare l’uscita e il ritorno dei gruppi di lavoro, a volte anche i prigionieri all’esecuzione. Un uso perverso, ma era forse l’uno per cento. Per il resto era musica scritta per necessità e per un’esigenza testamentaria, una spinta letteraria. Mi viene in mente l’orchestra sul Titanic: il mondo affondava, spettava al musicista conservare e tramandare una forma di civiltà. Ma la libertà espressiva era clandestina o tollerata? C’era una forte controllo sui testi, ovviamente, ma la
musica non veniva proibita. A volte era favorita. Il campo toglie la libertà e la dignità umana, doveva dare qualcosa in cambio, altrimenti rischiava di esplodere. I tedeschi lo facevano per controllare meglio i lager. Le sarà capitato di suonare musica inedita, che era stata solo scritta. Ci sono opere che sono state portate alla luce perché finalmente il testo è stato decrittato. Una volta invece sono stato raggiunto da un americano di nome Jack Gaffain, venne a Barletta da New York per cantarmi questa canzoncina... una melodia che dura un paio di minuti: l’aveva ascoltata durante la prigionia e aveva conservato il ricordo per decenni. 
C’è un’opera, o una storia, che le è rimasta nel cuore più delle altre?
 La musica scritta sulla carta igienica da Rudolf Karel, prigioniero politico nel campo di Pankrac, Praga. Fu torturato, non parlò, ma si ammalò di dissenteria, quindi disponeva di quantità cospicue di carta igienica e carbonella, da cui ricavò una puntina a forma di matita. Scriveva nelle due ore al giorno che passava in infermeria, con una tensione cerebrale che non possiamo neanche immaginare. Stendeva prima la minuta, poi la bella copia, infine nascondeva le strisce di carta tra la biancheria sporca che consegnava alla famiglia. Così ha scritto un’intera opera in tre atti: Tre capelli di vecchio saggio. Quando suono questa musica, provo sensazioni fortissime



Essendo una storia importante ho deciso di non limitarmi ad un solo sito ma ho riportato anche un altra intervista trovata in rete più precisamente questa di https://musicabile.tgcom24.it/ del 27\1\201

Delle poche cose che mia madre ricordava, ragazzina in Friuli negli anni del secondo conflitto mondiale, a parte la fame, il nulla imposto dalla guerra, il terrore del rombo degli aerei che venivano a bombardare (trauma che l’ha convinta a non salire mai a bordo di un aereo e che si è portata sino alla morte), c’era il ricordo dei treni dei deportati diretti ai campi di concentramento, che facevano sosta nella stazione del paese dove viveva. Era un ricordo meticoloso, quasi un’imposizione per non dimenticare, così vivido da materializzarsi. 


L’ho immaginato tante volte, prima con la mente di un bimbo e poi con quella di un adulto, come se fossi lì anch’io. Ancora oggi che mia mamma non c’è più, rivedo quelle scene, le urla di richiamo e aiuto dei prigionieri rinchiusi nei carri bestiame, perché questo erano, le mani che si allungavano oltre le strette ferritoie poste in alto, mani affusolate, mani piccole, mani callose, mani che chiedevano cibo, acqua, o anche solo una carezza. E il paese si mobilitava con generi di conforto, quel poco che c’era nel niente assoluto.

Sono passati quasi 80 anni da quegli eventi, i sopravvissuti dei lager sono ormai pochissimi, il tempo fa il suo corso. L’orrore dell’olocausto è diventato un’ansia mentale intorpidita; il racconto serve a tenere vive le putrefazioni a cui l’uomo può arrivare, poiché ce ne dimentichiamo troppo spesso.

A questo serve la giornata della memoria. Almeno un giorno all’anno ci viene imposto di pensare che, nemmeno un secolo fa, sono state commesse atrocità senza fine, sono state cancellate milioni di vite, famiglie, amori, passioni, storie…

E arrivo al punto di oggi: sì, anche questa volta c’entra la musica. Anzi, la musica è la protagonista. Perché lo è stata nei campi di detenzione, di sterminio, di rieducazione – e non solo nazisti. C’è un musicista italiano, che certamente molti di voi conosceranno, che da oltre trent’anni sta dedicando la sua vita e la sua professione alla causa: raccogliere opere, canzoni, spartiti, brani, partiture scritte su fogli musicali, altre annotate su carta igienica o pezzi di tessuto, altre tramandate oralmente. Musica come resilienza, musica come anelito di libertà, musica come scansione delle attività giornaliere nei campi, anche quelle terribili, musica per salvare la propria mente e la vita.





Parigi. Wally Lowenthal Karveno e Francesco Lotoro con in mano l’autografo del “Concertino per pianoforte e orchestra da camera” scritto a Gurs – courtesy Fondazione Istituto di Letteratura Musicale Concentrazionaria, Barletta



Ho trovato la “missione” di Francesco Lotoro, classe 1964, musicista di Barletta, pianista, compositore e direttore d’orchestra, docente di pianoforte presso il Conservatorio Niccolò Piccinni di Bari, un enorme atto d’amore, verso chi è stato privato della libertà, torturato e massacrato ma anche verso la musica stessa.Avere la possibilità di riascoltare quello che è stato scritto nei campi, una musica che potremmo definire sicuramente nuova, “concentrazionaria” come è stata battezzata, è una delle concrete possibilità per non dimenticare, testimonianza diretta e reale delle atrocità commesse. Francesco Lotoro lavora per questo, perché le prossime generazioni possano “ascoltare” la cruda realtà di quello che l’essere umano è riuscito a concepire ma anche cogliere la creatività e la necessità di vedere la propria esistenza oltre i confini di un lager nazista. Musica per evadere, per volare, per fissare momenti “resistenti”. Nel 2017 il regista franco-argentino Alexandre Valenti ha dedicato a Francesco un docufilmMaestro, una coproduzione italo-francese.

Gli ho scritto se potevo intervistarlo, mi ha risposto immediatamente. Ne è nata una lunga e intensa chiacchierata…

Francesco come è iniziato tutto ciò?
«Ho cominciato nel 1988, spinto da molti elementi giovanili, passioni, curiosità. Mi mancava la visione d’insieme di ciò a cui stavo andando incontro… I primi quattro anni cercavo solo musiche composte da musicisti ebrei. Mano a mano che contattavo persone, le incontravo, mi documentavo, lavoravo con l’aiuto di tutor perché trovavo manoscritti scritti in diverse lingue, catalogavo, suonano, eseguivo le partiture, sono passati gli anni e mi sono accorto che questa ricerca si era mangiata un po’ tutto della mia vita. Non era prevedibile. Sono arrivato a migliaia di opere catalogate e non è ancora finita…CI vogliono tante risorse ancora per finire il lungo lavoro».

Come musicista che idea ti sei fatto?
«Sono un pianista e ciò mi ha aiutato a cercare un repertorio pianistico denso di linguaggi molto avanzati, che andavano persino oltre Arnold Schönberg (il compositore austriaco naturalizzato americano, considerato dirimente per aver scritto musica al di fuori dalle regole del sistema tonale, ndr).


Charles Abeles, prima pagina del Valzer Rondo Felicità op.282 – courtesy Fondazione Istituto di Letteratura Musicale Concentrazionaria, Barletta


Negli anni hai contribuito a creare un’orchestra, l’Orchestra di Musica Concentrationaria, con la quale hai inciso un’enciclopedia in 24 volumi CD KZ Musik, contenente 407 opere scritte da prigionieri civili e militari in quel periodo…

«L’ossigeno della ricerca e la sua bellezza estetica è suonare molta di questa musica. Sai, ho sempre pensato che eseguirla sia un gesto magico, liberarla dai campi, in una sorta di redenzione».

Quando pensiamo ai campi di concentramento spesso ci facciamo dei “film” errati…
«I campi di concentramento, internamento, sterminio erano realtà metropolitane zippate, con elementi di eterogeneità. L’elemento artistico ha fatto scattare connessioni tra gruppi sociali e linguistici. Nel campo di Birkenau (Auschwitz II), per esempio, è impossibile distinguere tra musica ebraica e musica rom. La promiscuità nel gergo artistico è illuminante, fertile. Capitava anche che i musicisti prestassero i loro strumenti ad altri musicisti, come è successo nel campo di Sandbostel quando i francesi che stavano nello Stalag XB dettero più volte il violoncello a Giuseppe Selmi, grande violoncellista, compositore e didatta italiano (Selmi ha scritto in prigionia molte partiture per violoncello e il meraviglioso Concerto Spirituale per violoncello e orchestra, ndr) che stava nell’attiguo Stalag XA» (Selmi, come scrive lo stesso Francesco, «si esibì per i prigionieri italiani in un intero concerto imbracciando un violino a mo’ di violoncello…»).

Ci sono stati anche sodalizi gloriosi e proficui nei campi, come quello di Giovannino Guareschi e Arturo Coppola…
«Sono nati brani bellissimi. Prendi La favola di Natale che Guareschi scrisse nel 1944 nel campo di Sandbostel e Coppola mise in musica, è un’opera straordinaria e così poco rappresentata oggi. Coppola scrisse molti altri brani, come Treviso (la città in cui passò maggior parte della sua vita, ndr) quando seppe del bombardamento sulla città, molti mesi dopo l’avvenimento. Da ricordare anche Dai Dai Bepin, un’esortazione a Stalin che si muovesse in fretta per liberarli dalla prigionia…».


Gerusalemme. Francesco Lotoro con il pianista e compositore Alex Tamir, sopravvissuto al Ghetto di Vilnius – courtesy Fondazione Istituto di Letteratura Musicale Concentrazionaria, Barletta

Quanto ha influito la privazione della libertà sui musicisti e sulle partiture composte?
«Il musicista in prigionia componeva per esorcizzare il campo, l’ambiente non influiva, dunque, più del necessario sui criteri architettonici della composizione. Il campo c’è, attraversa la musica, ma il musicista è ancorato alle proprie visioni, alla propria storia. Il dramma esiste, ma in chiaroscuro, il musicista in questo modo vuole annichilire il campo. Spesso, sono stati gli stessi musicisti prigionieri a costringere i loro carcerieri ad acquistare strumenti musicali, fogli per scrivere partiture, a farsi esentare dal lavoro per dedicarsi alla composizione».

La musica faceva vedere la prigionia in un altro modo…
«Hai presente l’orchestra del Titanic che non smetteva di suonare mentre il transatlantico affondava? O Pau Casals il grande violoncellista catalano, che si esibiva anche durante il regime franchista perché mai come in quei momenti la gente aveva bisogno della musica? Così era nei campi. Ogni musicista ha portato nella prigionia la propria esperienza, che è rimasta patrimonio del luogo. L’elemento campo ha modificato, evoluto, deteriorato, agito da drenante, intaccato certe corde, certe sensibilità. Gli artisti sopravvissuti alla prigionia, una volta liberi, sono diventati fondamentalmente diversi, hanno voluto cancellare completamente la detenzione. Ci sono dolori che vengono redenti in maniera diversa. Di per sé nei campi abbiamo avuto lo sviluppo, l’estremizzazione, la radicalizzazione di certi linguaggi, forme brecktiane possibili solo perché, appunto, nate all’interno del campo».

Quindi la musica è stata tante cose: un atto di liberazione, una forma di rigore mentale e pure la summa di colonne sonore della vita quotidiana nei campi…
«A Buchenwald c’era un’orchestra di 80 elementi. Auschwitz, nelle sue tre declinazioni, il campo principale (I), Birchenau (II) e Monowitz (III) contava ben sette orchestre. D’opposto, Hans Gál (musicista viennese che fuggì dall’Austria nazista rifugiandosi in Gran Bretagna dove, per ironia della sorte venne recluso dagli inglesi che arrestarono gran parte dei profughi tedeschi scampati al regime, tra questi anche numerosi ebrei, ndr) nel campo di detenzione di Douglas, sull’isola di Man compose la Huyton Suite op.92 con gli strumenti che aveva a disposizione, un flauto e due violini».

Ma nella musica concentrazioanria c’era anche altro…
«È una musica sessista, divisa per genere. Orchestre maschili e orchestre femminili. Solo nel campo di Theresienstadt c’era un’orchestra mista. È stata poi usata per il più sublime e il più perverso degli scopi. Si suonava quando arrivavano i treni con i nuovi prigionieri e i nazisti facevano una selezione veloce delle persone: vecchi, malati, bambini venivano soppressi, gli altri in salute andavano ai lavori forzati. L’orchestra suonava quando il gruppo di deportati partiva e arrivava dal lavoro coatto. Suonava la domenica nei villaggi dei militari per rallegrare le passeggiate pomeridiane dei nazisti con le loro famiglie, ma suonava anche per i deportati…».


Berto Boccosi, prima pagina del quaderno di Saida (abbozzo dell’opera La Lettera Scarlatta) – courtesy Fondazione Istituto di Letteratura Musicale Concentrazionaria, Barletta

La musica era dunque sempre concessa?
«Nei campi di detenzione dove c’erano ebrei si poteva scrivere musica, in quelli dove c’erano i prigionieri politici, no. In questo caso gli artisti memorizzavano ciò che componevano, o scrivevano le partiture sulla carta igienica o sui teli di juta, addirittura sulla terra, quando andavano a lavorare nei campi di patate. Ognuno dei detenuti imparava a memoria quattro battute e poi la sera venivano trascritte su mezzi di fortuna. Ma non dobbiamo pensare a gesti di magnanimità da parte dei carcerieri. Il polacco Artur Gold, per esempio, famosissimo musicista, una delle star del tempo, venne arrestato e deportato a Treblinka. Fu ricevuto dal comandante del campo con tutti gli onori, gli venne concessa un’orchestra con cui allietò i militari, poi venne messo a morte. La negazione di ogni logica. Al musicista non poteva che rimanere la sua musica, poteva contare solo su quella».

Venendo a oggi, dopo trent’anni di lavoro, qualcuno ti ha chiamato lo Sherlock Holmes della musica, che valore ha questo enorme patrimonio che stai raccogliendo?
«Sono convinto che questa sia una musica di portata universale. Per completare il quadro ci vorranno ancora 15, 20 anni. Siamo ben oltre gli ottomila brani raccolti e catalogati e ogni settimana arrivano partiture, segnalazioni, note all’ILMCl’Istituto di Letteratura Musicale Concentrationaria. Con il lockdown ho smesso di viaggiare ma presto spero di ritornare a intervistare, raccogliere, ascoltare. Dovrei andare in Francia dove c’è una testimone che mi aspetta, appena il virus lo permetterà volerò a Parigi. Questa musica è come se fosse stata chiusa in una capsula del tempo. Ti ricordi il film con Nicolas Cage Segnali dal Futuro? Ecco, la musica concentrazionaria è chiusa lì dentro, non si è mai interfacciata con la musica a lei contemporanea, è tanto simile quanto differente. Credo che abbia molto da darci. Però, ne usufruiranno con quotidianità le generazioni future, tra venti o trent’anni».

E la capsula del tempo dovrebbe trovare posto a Barletta in un’ex distilleria, giusto? Sono anni che se ne parla…
«Nel 2016 partecipammo a un bando per la riqualificazione delle periferie, indetto dal governo Renzi. Barletta si candidò e sposò in pieno il progetto di una cittadella della musica concetrazionaria. Considero questo genere di musica in un periodo che va dal 1933 al 1953 includendo anche i gulag sovietici, praticamente fino alla morte di Stalin. Il nostro progetto arrivò dodicesimo. I primi 24 avrebbero avuto una sovvenzione statale. Che però è stata insufficiente. Quindi abbiamo atteso ancora e, se tutto andrà per il meglio, dovremmo inaugurarla nel 2024. Sarà un campus con biblioteca, museo, libreria, teatro, ristorante, due laboratori, un polo di studio della musica ebraica… allora sì, potremo finire la ricerca, ci vogliono altri fondi, è un lavoro enorme, ma che dobbiamo portare a termine».


SI CHIAMA Fondazione Istituto di Letteratura Musicale Concentrazionaria. Raccoglie manoscritti, partiture, materiali epistolari, ma ormai anche strumenti musicali. È frutto del lavoro del musicista e compositore Francesco Lotoro, che ha contattato sopravvissuti e famiglie di ex prigionieri in tutto il mondo. Il catalogo dei documenti raccolti è sul sito fondazioneilmc.it. Da quest’esperienza nascerà una cittadella della musica concentrazionaria su un’area di 10 mila metri quadri a Barletta




Il dediserio smodato di avere un figlio e l'impossibilità di averne uno biologico, la folle idea di rapire un bambino e tenerlo nascosto al mondo pur di non vederselo portare via. La storia di Sebastiano Notarnicola assomiglia per alcuni versi a quella della piccola Sofia rapita a  qualche tempo fa  Cosenza, anche se il finale è del tutto diverso: lui aveva solo 5 mesi e mezzo

quando è stato portato via alla sua famiglia. Era il 20 aprile 1978. Dopo 16 anni è riuscito a ritrovare la sua famiglia biologica, oggi ha ripercorso la sua storia in un'intervista a Fanpage. L'infanzia di Sebastiano, che credeva di chiamarsi Hermann, è stata segnata dalla solitudine, senza documenti e senza la possibilità di frequentare la scuola. Dopo un incendio, il bambino fu messo in collegio. Una sua foto pubblicata su una rivista dell'istituto segnò l'inizio del suo ricongiungmento con la famiglia. 
Il rapimento
Sebastiano Notarnicola ricostruisce il suo passato a partire dal rapimento. Dopo la sua nascita, a Milano, nel 1977, sua madre Annamaria mise un annuncio su un quotidiano chiedendo abiti usati per il suo bambino. All'appello rispose una donna che, spacciandosi per un'assistente sociale, conquistò la fiducia della neomamma, tanto da riuscire con un inganno a restare da sola con il neonato mentre si trovavano in un bar di Milano: «Ha chiesto a mia madre se poteva lasciarmi con lei, che mi avrebbe comprato dei vestiti al negozio Chicco», spiega Sebastiano. Da quel momento, il bambino è cresciuto con quelli che credeva essere i suoi genitori.
L'infanzia nascosta
La donna aveva fornito un indirizzo falso e non fu possibile rintracciarla. «Lei non poteva avere figli, però desiderava averne, non tanto per sé ma per suo marito. Aveva avuto delle gravidanze isteriche e, dal momento che mi aveva portato a casa a cinque mesi e mezzo, a suo marito aveva detto che ero dovuto stare in ospedale perché non stavo bene, lui non sapeva niente e quando sono arrivato era molto felice», spiega Sebastiano, che nel frattempo era stato chiamato Hermann. Vivevano in Valsassina, in provincia di Lecco, ma il bambino non poteva frequentare la scuola poiché senza documenti. Un'infanzia «diversa dagli altri, ma non ho un ricordo brutto». Quello che credeva essere suo padre gli ha insegnato a leggere e scrivere, anche se non usciva mai di casa e non frequentava coetanei. 
Il collegio
La situazione è cambiata quando, in seguito a un incendio in casa, Sebastiano - che all'epoca aveva circa 10 anni - è stato messo in un collegio religioso. L'istituto ha pubblicato delle foto dei ragazzi su una rivista che girava gratuitamente nelle parrocchie di tutta Italia ed è stato così che quell'immagine è arrivata in Puglia, tra le mani di una cugina del padre biologico di Sebastiano, che ha notato la somiglianza tra quel ragazzino e suo nipote. Da lì sono partite le ricerche: «Dentro di me sapevo da sempre che mio figlio era ancora vivo e il dna ce ne ha dato la prova».
L'incontro con i genitori biologici
L'incontro di Sebastiano con la sua famiglia biologica è avvenuto quando aveva 16 anni. «Ho conosciuto prima mio padre e i miei fratelli, con cui finita la scuola ho iniziato a vivere. Mamma e papà si erano nel frattempo separati e mia madre l'ho incontrata solo tempo dopo, perché il giudice aveva disposto che stessi con l'unico dei due genitori che aveva un lavoro». Poi, il ricongiungimento con la madre: «Io ero seduto sul divano e quando lei mi ha visto è scoppiata a piangere». Il rapporto tra i due, però, non è stato idilliaco: «Purtroppo con mia madre non ho avuto un rapporto madre-figlio, ma io penso che non sia colpa sua, è colpa mia, perché sono cresciuto con una famiglia che ho sempre creduto che fosse la mia mentre non lo era, perciò mi è molto difficile oggi costruire legami». 


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Senza parole  davanti a tali forme di fanatismo religioso e fondamentalista 

Quattordici membri di un gruppo religioso australiano sono stati dichiarati colpevoli della morte di Elizabeth Struhs, una bimba diabetica di otto anni a cui era stata negata l’insulina per quasi una settimana. La piccola è deceduta nel 2022 nella sua casa di Toowoomba, nel Queensland, a causa di una grave chetoacidosi diabetica. Secondo la ricostruzione del tribunale, il gruppo noto come i “Saints” si opponeva alle cure mediche, nella convinzione che solo Dio potesse guarire Elizabeth. Anche il padre della bambina,

Jason Struhs, la madre e il fratello della bambina, oltre al leader della congregazione, Brendan Stevens, sono stati condannati per omicidio colposo. Nel pronunciare il verdetto di quasi 500 pagine, il giudice Martin Burns ha evidenziato che, sebbene Elizabeth fosse amata e accudita sotto molti aspetti, le sue condizioni di salute erano state ignorate a causa della fede cieca nel potere di guarigione divino. “Le è stata negata l’unica cosa che le avrebbe salvato la vita”, ha dichiarato il giudice.
La tragedia e il processo

Elizabeth, descritta come una bimba intelligente e vivace, ha trascorso gli ultimi giorni della sua vita tra sofferenze atroci. Secondo la testimonianza dell’accusa, la piccola era debole, parlava a fatica ed era incapace di camminare autonomamente. Mentre le sue condizioni peggioravano, i membri della setta si limitavano a pregare e cantare, convinti che la guarigione sarebbe arrivata per intervento di Dio. Nessun medico venne chiamato, e le autorità furono avvisate solo 36 ore dopo il decesso. Il processo, iniziato nel luglio scorso, ha visto la deposizione di 60 testimoni e ha svelato dettagli inquietanti sulla comunità religiosa, che conta circa due dozzine di membri provenienti da tre famiglie. Gli imputati, di età compresa tra i 22 e i 67 anni, hanno scelto di rappresentarsi da soli, rifiutando ogni assistenza legale e senza dichiararsi colpevoli. Il tribunale ha pertanto registrato automaticamente dichiarazioni di non colpevolezza.
Una lunga storia di negligenza

Il caso di Elizabeth non era il primo episodio di negligenza da parte della sua famiglia. Nel 2019, la bambina era stata ricoverata in ospedale in coma diabetico, pesando appena 15 chili. I medici le diagnosticarono il diabete di tipo 1 e spiegarono alla famiglia che avrebbe avuto bisogno di iniezioni quotidiane di insulina per sopravvivere. Tuttavia, il padre, inizialmente favorevole alle cure, cambiò posizione dopo il battesimo nella setta e, sotto la pressione degli altri membri, smise di somministrarle il farmaco salvavita. Durante il processo, Jason Struhs ha dichiarato tra le lacrime che lui ed Elizabeth avevano deciso insieme di interrompere l’insulina, convinto che la figlia sarebbe “risorta”. Stevens, leader della setta, ha difeso le azioni del gruppo, sostenendo che il processo fosse un atto di “persecuzione religiosa” e rivendicando il diritto della congregazione di credere unicamente nella parola di Dio. I “Saints”, una piccola congregazione separatasi dalla Revival Centres International di Brisbane, continuano a rimanere un gruppo chiuso e poco conosciuto. Fondato da Stevens dopo il suo fallimento nel diventare pastore, il gruppo tiene sermoni settimanali nella sua abitazione. La sentenza per gli altri imputati è attesa il mese prossimo. Il caso ha riacceso il dibattito in Australia sull’intervento dello Stato nei confronti di gruppi religiosi estremisti e sulla protezione dei minori in contesti di negligenza dovuta a credenze radicali.

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La voglia di essere abbronzati anche in inverno è molto comune, tanto che in molti cedono allo sfizio di farsi una lampada pur di vedersi più colorati allo specchio. A farla è stata anche una ragazza a cui, però, questa volta non è andata bene. Dopo una seduta di 20 minuti sotto il lettino abbronzante, infatti, ha iniziato a perdere pelle dal viso. A raccontare la disavventura è stata lei stessa sui social.

Cosa è successo

Natalia Armstrong ha mostrato su TikTok le orribili conseguenze di essersi sottoposta ad una lampada abbronzante "al contrario" per ben 20 minuti. Appena uscita ha riferito di sentirsi «bene», come sempre. Tutto è cambiato due giorni dopo la seduta. Da allora si è rivolta al social per sensibilizzare le altre ragazze all'utilizzo di queste apparecchiature.

La ragazza, che ha esortato gli altri a non commettere lo stesso errore che ha commesso lei, ha spiegato di aver messo il viso dove avrebbero dovuto esserci i piedi, e le dita dei piedi sotto i tubi abbronzanti. Natalia ha scoperto solo dopo, che le luci UV nella zona dei piedi sono «più forti di quelle della lampada abbronzante per il viso».

Le conseguenze e il messaggio

Sebbene all'inizio Natalia si sentisse benissimo e non avesse segni evidenti di alcuna scottatura, due giorni dopo la sua faccia ha iniziato a spellarsi. La ragazza ha spiegato sul social che la pelle del viso era talmente tesa da non riuscire neanche a sorridere correttamente. Tuttavia, il peggio doveva ancora arrivare, la ragazza, infatti, presentava anche alcune dita delle mani rosse e gonfie.

Dopo alcune visite mediche, a Natalia sono stati tagliati quattro anelli che indossava alle dita e che non riusciva più a togliere. Un suo dito ha anche sviluppato un'infezione. «Sono lesa, ma è riparabile», ha detto Natalia, spiegando che erano state delle sue amiche a parlarle del metodo di sdraiarsi a testa in giù nel lettino abbronzante. La ragazza, nonostante si dichiari «dipendente dalle lampade» ha voluto mandare un messaggio di avvertimento a chiunque, come lei, ne faccia uso: «Condividetelo, ripubblicatelo. Se conoscete qualcuno che lo fa, per favore ditegli di non farlo». 

Rischi dei lettini abbronzanti

I lettini abbronzanti sono da tempo ormai associati al cancro della pelle, sono stati addirittura vietati in alcuni paesi, come Brasile e Australia. Secondo l'International Agency for Research on Cancer (IARC) (Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro), ci sono prove significative che dimostrano che l'uso dei lettini abbronzanti causino il melanoma. Secondo gli esperti, infatti, i lettini abbronzanti aumentano il rischio di cancro della pelle fino al 20 percento.«Siamo chiari sui lettini abbronzanti. Non sono solo “alcuni” esperti a dire che fanno male alla pelle. Sono quasi tutti - ha dichiarato la dottoressa Carol Cooper - I raggi UV danneggiano il DNA nelle cellule della pelle, quindi è più probabile che si trasformino in cancro. Non devi nemmeno scottarti perché ciò accada».

24.2.22

il potere ed il cambiamento della musica .Come nasce un tormentone su TikTok: la storia di Povero gabbiano ., Il violino fatto con il legno dei barconi dei migranti





Come nasce un tormentone su TikTok: la storia di Povero gabbianodi Francesco Marino
"Tu comm’a me", del cantante neomelodico Gianni Celeste, diventa virale e arriva in classifica su Spotify. E dimostra come l’app di Bytedance stia cambiando anche l’industria musicale

A scorrere la Viral 50 Italia di Spotify, in questi giorni, può capitare di imbattersi in una storia interessante. Insieme ai reduci di Sanremo, come Tananai e Ditonellapiaga, e a Martelli, concorrente di Italia’s got Talent, al numero 2 compare Gianni Celeste, fra i più famosi cantanti neomelodici napoletani.

A sorprendere, oltre alla presenza di un autore non proprio di moda di questi tempi, è anche il brano che ha permesso al 57enne partenopeo di entrare nella playlist: una canzone del 1998, che si chiama Tu comm’a me, abbastanza sconosciuta fino a un paio di settimane fa.
Per risalire ai motivi di questa impennata, bisogna spostarsi da Spotify a TikTok: è sul social network di proprietà di Bytedance che la canzone ha trovato una notorietà imprevista, tanto da essere usata come colonna sonora di quasi 50mila video nelle ultime settimane. I contenuti con hashtag #poverogabbiano, che riprendono il ritornello della canzone diventato tormentone, hanno ricevuto quasi 70 milioni di visualizzazioni .Tracciare i percorsi di questo genere di viralità è davvero arduo. A quanto sembra, la canzone è stata utilizzata in un contenuto per la prima volta da Duracell e Franco, due tiktoker del quartiere Zen di Palermo sbarcati in tv nelle ultime settimane, tra Le Iene e Sanremo, insieme a Nicolò De Devitiis. A partire da qui, con la complicità di un po’ di pagine che cercano e condividono video trash come Mimmo Modem su Instagram, la canzone è letteralmente esplosa, fino a diventare un vero e proprio meme prima, e poi un fenomeno anche su Spotify.Del resto, su TikTok i suoni sono una delle modalità più efficaci per arrivare a un numero molto alto persone. Quelli popolari vengono considerati un segnale positivo per arrivare nel feed dei Per te, la homepage di TikTok, curata dall’algoritmo. In altri termini, quando un suono diventa virale sulla piattaforma si attiva un circolo virtuoso, per cui chi utilizza quell’audio ha più possibilità di arrivare a un pubblico più ampio. Questo genera una corsa al suono virale, che viene utilizzato da un numero molto alto di utenti per raggiungere più persone possibili.

Tiktok: il leone e Povero gabbiano

Come TikTok sta cambiando l’industria musicale

La musica è una componente fondamentale di TikTok, che sta già cambiando l’industria musicale e il modo in cui scopriamo nuove canzoni e nuovi artisti. Secondo un’analisi commissionata dalla stessa piattaforma agli analisti Mrc Data e Flamingo, il 67% degli utenti del social network si sono detti propensi a cercare una canzone ascoltata sul social network su un servizio di streaming musicale. Un impatto tale che il “L’ho sentita su TikTok” è sempre più diffuso: oltre 7 persone su 10 associano determinati brani proprio alla piattaforma. E non è raro, ormai, sentire di artisti nati e cresciuti all’interno dello spazio del social network cinese: basti pensare a Matteo Romano, che da TikTok è arrivato fino al palco di Sanremo.
Il potere di scoperta di nuova musica della piattaforma di Bytedance è naturalmente ben noto all’industria musicale. Le case discografiche sono al lavoro da anni per interpretare, individuare e analizzare i dati del social network e prevedere i trend, i nuovi suoni popolari. Secondo quanto rivelato da un approfondimento di Business Insider, molte etichette discografiche hanno team dedicati al monitoraggio dell'app, con l’obiettivo di individuare e prevedere le nuove canzoni di tendenza. Che, come nel caso di Gianni Celeste, possono essere anche datate e parzialmente sconosciute."Il nostro intero catalogo musicale viene effettivamente monitorato su base giornaliera”, ha spiegato Andy McGrath, vicepresidente senior del marketing di Legacy Recordings, una divisione all'interno di Sony Music focalizzata sul catalogo delle canzoni più datate dell'etichetta. Naturalmente, non c’è solo l’analisi. Quasi tutte le case discografiche mettono in campo strategie che coinvolgono influencer con grande seguito sulla piattaforma nel lancio di nuovi brani.

Sarà TikTok la vera alternativa a Spotify?

Insomma, ciò che più di ogni altra cosa TikTok ha cambiato è la dimensione della scoperta, del marketing musicale. Si ascolta un estratto di una nuova canzone sull’app, magari più volte, e poi si va su una piattaforma di streaming musicale per completare l’opera. Ecco, Bytedance è al lavoro per entrare anche all’interno di questo processo. Nel 2020, la compagnia cinese ha fatto debuttare Resso, una nuova applicazione di streaming a pagamento, pensata per Generazione Z e Millennial. La piattaforma, disponibile solo in India, Indonesia e Brasile, è in crescita costante: in India (dove TikTok non è disponibile) gli utenti unici sono aumentati di oltre il 300% tra gennaio 2021 e gennaio 2022; in Indonesia e in Brasile la strategia di crescita è semplice quanto efficace e quando si scopre una canzone su TikTok, basta un click per ascoltarla in versione completa su Resso.




Il violino fatto con il legno dei barconi dei migranti: "Ridiamo voce a chi non può più parlare"



Si chiama "Violino del Mare" ed è il primo violino al mondo ricavato con il legno di uno dei tanti barconi usati dai migranti per i viaggi della speranza che purtroppo, più volte, si trasformano in tragedie del mare. "Il sogno del progetto Metamorfosi è quello di poter mandare un segnale di coscienza e di testimonianza a tutte le persone" spiega Arnoldo Mosca Mondadori, presidente della Fondazione Casa dello Spirito e delle Arti, accogliendo i 10 barconi provenienti da Lampedusa all'interno della Casa di Reclusione di Milano-Opera.

"Per produrre questo violino ci sono voluti circa due mesi e mezzo - ha raccontato Mondadori - e assieme ad altri strumenti che verranno prodotti allo stesso modo comporrà l'orchestra d'archi del mare destinata a portare questa musica nel mondo". L'opera è stata prodotta all'interno  del laboratorio di liuteria situato nel carcere di Opera a Milano e gestito dal liutaio Enrico Allorto con l’aiuto di tre detenuti del penitenziario. "Trovo miracoloso che un prodotto riciclato dal legno dei barconi suoni così bene - racconta il violinista Carlo Lazzaroni - il risultato acustico è sorprendete e se chiudo gli occhi non noto la differenza".  
 

Manuale di autodifesa I consigli dell’esperto anti aggressione Antonio Bianco puntata n LX IMPARATE A “LEGGERE” IL LINGUAGGIO DEL CORPO

 Il linguaggio del corpo da solo non basta a prevenire femminicidi o violenze, ma può essere un segnale precoce utile se integrato con educ...