La seconda puntata del tour nei luoghi repubblicani vede due luoghi simboli di quelli che vengono definiti misteri d'italia che segneranno e segnano tutt'ora la nostra storia repubblicana
e che possoi essere causa di morti sospette e misteriose come esempio quella di riino Gaetano ( cerca in archivio le interviste fatte a Bruno Mautone ) ed accuse di complottismo a coloro ( sottoscritto compreso ) che osano esprimere dubbi suelle versioni ufficiali .
Su di essi ho ha ancora testimonianze e ricordi indiretti il libro ( ancora in fase di lettura ) Noi che Gridavamo al vento di Loriano Macchiavelli ( copertina a destra ) foto a destrea e il dossier ( finito da qualche parte in soffitta o in qualche armadio del settimanale avvenimenti ora left che fece nel lontano 1997 per i 50m anni di tale evento ) , le trasmissioni tipo la storia siamo noi , blu notte di lucarelli , le news letters ed articoli del sito www.misteriditalia.com e le e canzoni citate .
il primo
diede alla dipendenza dell'italia dagli Usa e
della nato \ blocco occidentale anti sovietico durante la guerra
fredda e che indirettamente continua ancora oggi . Fu la
prima strage di stato. Anche essa fu al centro di canzoni
popolari III
il secondo
La spiaggia di Capocotta è la zona di litorale romano compresa tra il mare laziale, dal km 7,600 al km 10,100 della via Litoranea, e tra Castel Porziano e Torvaianica, ed è uno dei tratti di dune meglio conservati d'Italia. Capocotta si estende per 45 ettari e dal 1996 fa parte della Riserva naturale Litorale romano.
fu l'inizio di quella << stagione di scandali destinata a durare fino alla fine della prima repubblica, e ben oltre. >> ( http://cronologia.leonardo.it/storia/tabello/tabe1648.htm ) .Ed ebbe e un riflesso nella cultura popolare \ di massa :
La leggenda legata a Capocotta è stata narrata dal poeta dialettale romano Augusto Sindici a fine '800.
Il nome della spiaggia è divenuta nota al pubblico italiano per un celeberrimo caso di cronaca nera, il caso Montesi che, secondo la storica statunitense Karen Pinkus, avrebbe ispirato il film di Federico FelliniLa dolce vita[10].
In riferimento al medesimo caso di cronaca, la canzone Nuntereggae più (1978) di Rino Gaetano cita il nome della spiaggia.
I Flaminio Maphia la citano nel testo della loro rivisitazione (2010) di Vamos a la playa, noto successo dei Righeira qui reintitolato Vamos alla playa (coi Flaminio Maphia).
Emilio Stella gli dedica una canzone ironica (2014) Capocotta non è Kingston.[11]
La vecchia credeva che fossero mortaretti e cominciò a battere le mani festosa. Rideva. Per una frazione di secondo continuò a ridere, allegra, dentro di sé, ma il suo sorriso si era già rattrappito in un ghigno di terrore. Un mulo cadde con il ventre all'aria. A una bambina, all’improvviso, la piccola mascella si arrossò di sangue. La polvere si levava a spruzzi come se il vento avesse preso a danzare. C'era gente che cadeva, in silenzio, e non si alzava più. Altri scappavano urlando, come impazziti. E scappavano, in preda al terrore, i cavalli, travolgendo uomini, donne, bambini. Poi si udì qualcosa che fischiava contro i massi. Qualcosa che strideva e fischiava. E ancora quel rumore di mortaretti. Un bambino cadde colpito alla spalla. Una donna, con il petto squarciato, era finita esanime sulla carcassa della sua cavalla sventrata. Il corpo di un uomo, dalla testa maciullata cadde al suolo con il rumore di un sacco pieno di stracci. E poi quell'odore di polvere da sparo.
La carneficina durò in tutto un paio di minuti. Alla fine la mitragliatrice tacque e un silenzio carico di paura piombò sulla piccola vallata. In lontananza il fiume Jato riprese a far udire il suo suono liquido e leggero. E le due alture gialle di ginestre, la Pizzuta e la Cumeta, apparvero tra la polvere come angeli custodi silenti e smarriti.
Era il l° maggio 1947 e a Portella della Ginestra si era appena compiuta la prima strage dell'Italia repubblicana.
Ma i fatti che lo rendono inquadrabile in quelli che sono stati chiamati misteri d'italia io preferisco chiamarli scheletri nell'armadio so descriti da per cbi volesse approfondire da questo sunto di wikipedia
La località è nota per essere stata teatro il 1º maggio 1947 della prima strage dell'Italia repubblicana, la strage di Portella della Ginestra, con l'eccidio di lavoratori ad opera della banda criminale di Salvatore Giuliano(Montelepre, 16 novembre1922 – Castelvetrano, 5 luglio1950),Per alcuni mesi sfruttò la copertura dell'EVIS, il braccio armato del Movimento Indipendentista Siciliano attivo a partire dalla fine della seconda guerra mondiale,
Il 5 luglio 1950 il ventottenne Giuliano venne ritrovato morto nel cortile della casa di un avvocato di Castelvetrano: un comunicato del Comando forze repressione banditismo
annunciò ufficialmente che era stato ucciso in un conflitto a fuoco
avvenuto la notte precedente con un reparto di carabinieri alle
dipendenze del capitano Antonio Perenze, un uomo del colonnello Luca. Sin dall'inizio apparvero però diverse incongruenze nella versione degli inquirenti sulla fine del bandito.
Il giornalista de L'EuropeoTommaso Besozzi pubblicò un'inchiesta sull'uccisione di Giuliano dal titolo Di sicuro c'è solo che è morto,
nella quale mise in luce le incongruenze della versione data dai
carabinieri sulla morte del bandito e indicò come assassino di Giuliano
il suo sodale Gaspare Pisciotta[12].
Durante le udienze del processo per il massacro di Portella della Ginestra tenutosi a Viterbo, Pisciotta si autoaccusò dell'omicidio di Giuliano e incolpò anche i deputati monarchiciGianfranco Alliata di Montereale, Tommaso Leone Marchesano, Giacomo Cusumano Geloso e i democristiani Bernardo Mattarella e Mario Scelba di essere i mandanti della strage di Portella, dichiarando che costoro incontrarono Giuliano per mandarlo a sparare sulla folla[3]. Tuttavia la Corte d'Assise
di Viterbo dichiarò infondate le accuse di Pisciotta poiché il bandito
aveva fornito nove diverse versioni sui mandanti politici della strage[3];
come emerso dalla sentenza del processo di Viterbo, Pisciotta divenne
confidente del Comando forze repressione banditismo (che gli fornì una
tessera di riconoscimento che gli permetteva di circolare liberamente) e
Giuliano fu da lui ucciso nel sonno nella casa di Castelvetrano
dove si nascondeva; il cadavere sarebbe poi stato trasportato nel
cortile della casa stessa, dove gli uomini del colonnello Luca e del
capitano Perenze inscenarono una sparatoria per permettere a Pisciotta
di fuggire e continuare così la sua opera di confidente sotto copertura[3].
Nel 1954 Pisciotta fu avvelenato nel carcere dell'Ucciardone con un caffè alla stricnina[3].
oltre il link di wikipedia d che trovate sotto qui in questo interessante articolo su www.vittimemafia.it un interessante approfindimentocon le varie versioni ( solo mafia , mafia con refferenti parlamentari con servizi segret Usa ed ex fascisti )
Capocotta spiaggia
Ecco in sintesi cosa accade L'11 aprile 1953 sulla spiaggia di Tor Vaianica, a sud di Ostia, viene trovato il corpo senza vita di una bella ragazza, Wilma Montesi( 1932-1953) sparita da casa due giorni prima. Qualche mese più tardi un oscuro cronista, certo Silvano Muto, ipotizza che la ragazza non sia morta sulla spiaggia, ma in seguito ad assunzione eccessiva di stupefacenti durante una festa molto osé nella tenuta di Capocotta presso Castel Porziano, residenza abituale del marchese Ugo Montagna. Alla festa, scrive Muto, era presente anche Piero Piccioni, abituale accompagnatore della signorina nonché figlio del ministro democristiano Attilio Piccioni.Ulteriori dettagli La spiaggia di Capocotta è la zona di litorale romano compresa tra il mare laziale, dal km 7,600 al km 10,100 della via Litoranea, e tra Castel Porziano e Torvaianica, . Esso ebbe grande rilievo mediatico a causa del
coinvolgimento di numerosi personaggi di spicco della politica dell'epoca , e segno secondo alcuni l'inizio della crisi del dominio a senso unico ( 1947\8-1953 ) della dc , e l'inizio dell'apertura che si verificherà negli anni '60 dell'alleanza Dc -Psi . Il caso risulta tuttora irrisolto, ivi
compresa la causa del decesso della giovane. per chi volesse approfondirlo e saperne di più https://it.wikipedia.org/wiki/Caso_Montesi
“Chi ha ucciso Rino Gaetano? “, è il nuovo saggio di Bruno
Mattone. Circa tre anni fa l’avvocato salernitano pubblicava un libro
dedicato a Rino Gaetano, il cantautore crotonese scomparso
prematuramente all’età di 30 anni a seguito di un tragico sinistro
stradale avvenuto a Roma il 2 giugno 1981. La pubblicazione del volume
ha suscitato grande interesse e pure una polemica reazione di Anna
Gaetano, sorella del cantautore, in ordine a due precipui punti. Una
presunta affiliazione massonica di Rino Gaetano e la dinamica
del’incidente mortale secondo Mautone fortemente sospetta al punto da
ipotizzare che non fu legata al caso ma frutto di una deliberata
pianificazione.
QUELLO STRANO INCIDENTE
Con il secondo volume Mautone ha portato una serie di riscontri
documenti che indubbiamente riaprono le questioni rimaste insolute e che
gli scettici hanno voluto liquidare frettolosamente come frutto di
fantasia. Ed ecco che viene portato alla luce del materiale
oggettivamente interessante, infatti il legale salernitano ha
scoperto addirittura la esistenza di una interrogazione parlamentare
rivolta il 4 giugno 1981 per iscritto al governo Forlani, in carica nel
giugno 1981, con la quale si chiede in via ufficiale e in sede
politico-istituzionale chiarimenti sulla drammatica morte di Rino
Gaetano.
Bruno Mautone
I due senatori Di Crollalanza, già ministro di Mussolini, e Mitrotti
invocano dall’Esecutivo risposte su quanto successo sulla via Nomentana
e su cosa accadde effettivamente al Policlinico e nei vari ospedali
coinvolti a vario titolo nella vicenda. La esistenza di tale documento
ufficiale rappresenta un indubbio sostegno a quelle teorie che legano la
morte dell’artista ad una macchinazione. L’autore ha pure “scovato” la risposta, sopravvenuta con vari
mesi di ritardo, fornita dall’Esecutivo, tramite il ministro della
sanità dell’epoca, il liberale Altissimo (vicino, peraltro, ad
ambienti massonici. Il dominus politico del PLI, ad esempio, era Valerio
Zanone, politico affiliato alla massoneria). Ebbene nel saggio si
rimarca la assoluta genericità della nota governativa di risposta
fornita in Parlamento, ai limiti della omertà. Effettivamente non si
chiariscono tantissime circostanze della drammatica vicenda, ad esempio
non si precisa l’ora dell’incidente, chi allertò i soccorsi e come,
perché intervenne una unica ambulanza in loco nonostante il camionista
coinvolto svenne e rimase giacente sull’asfalto esanime e nello stesso
tempo l’artista era immobilizzato nella sua automobile,non si precisa
perché la unica ambulanza venuta sui luoghi era un mezzo poco attrezzato
dei vigili del fuoco e perché Rino, una volta prelevato con una
gravissima ferita cranica, venne condotto fatalmente in un ospedale
privo del reparto di traumatologia cranica. Non si fanno neppure i nomi
dei medici che avrebbero curato o cercato di curare il ferito in gravi
condizioni, non si fa nessunissimo cenno ai presunti motivi che spinsero
altri ospedali, pur se allertati, a non approntare nessunissima forma
di soccorso ulteriore al paziente in condizioni di estrema gravità. Né
si fa cenno su chi convocò medico- traumatologo, fatto venire da altro
ospedale poiché al Policlinico non vi era il reparto, né a che ora
sopraggiunse al Policlinico tale medico, né se ne precisano le
generalità, così come non si indicano i nomi
dell’anestestista\rianimatore che pure si dice fosse intervenuto. In
sostanza la risposta del Governo non forniva alcun chiarimento
limitandosi ad una dozzinale nota burocratica destinata, per la evidente
vaghezza,a moltiplicare i dubbi e gli interrogati sulla intera
drammatica vicenda. Tali riscontri documentali provano che sin dai
primi momenti la morte prematura morte dell’artista calabrese suscitò
interrogativi e dubbi. Ma nel libro la vicenda viene accostata ad
un’altra morte prematura che colpì un caro amico di Rino, pure seguita
ad un incidente stradale.
la copertina del libro
Tale persona lavorava in importanti uffici
consolari-diplomatici a Roma e Mautone chiede alla Procura di Roma di
riaprire le indagini non solo sulla morte dell’artista ma anche
di tale suo caro amico che l’avvocato indica come coraggiosa fonte di
tante notizie e fatti trasfusi altrettanto coraggiosamente nelle
canzoni. Tra l’altro l’amico di Rino venne seppellito al Verano, così
ristabilendo una vicinanza ideale già riscontratasi in vita e tuttavia
vicende post mortem danno delle inquietanti connotazioni a
fatti illustrati. Infatti , senza nessunissima plausibile ragione,
l’amico dell’artista viene disseppellito dopo pochissime settimane e
portato in un altro cimitero di Roma. La vicenda già strana diventa
ancora più oscura poiché l’autore dello spostamento dei resti mortali ha
una identità che coincide con un personaggio storico dello spionaggio
italiano, collegato addirittura al Noto servizio segreto, cioè ad un
apparato riservato dello stato che compiva atti di intelligence in modo
autonomo rispetto ai Servizi istituzionali (prima il SID poi il SISMI e
il SISDE), spesso sfociando in atti illegali e gravissimi. Specialità
inquietante del Noto servizio segreto risultò essere, con atti
sequestrati e acquisiti dalla magistratura, la uccisione di persone
ritenute “scomode” con incidenti stradali!! Nel volume di Mautone sono
indicati i nomi delle persone protagoniste delle illustrate vicende e
riferimenti documentali e bibliografici di tutti gli avvenimenti. UNA PRESUNTA AFFILIAZIONE MASSONICA Nel volume l’avvocato salernitano ha raccolto le
testimonianze dirette di due carissimi amici del cantautore, Mimì
Messina, amico di infanzia e di scuola, frequentate assieme a Narni, e
Franco Pontecorvi, addetto artistico e compagno assiduo di ogni tournèe e
dei viaggi all’estero, entrambi hanno escluso in modo
convintissimo che Rino fosse massone, così come lo ha escluso Anna
Gaetano. Nel libro Mautone, quindi, perviene alla conclusioni che il
cantante calabrese non fosse affiliato a qualsiasi loggia massonica e
che riferimenti agli ambienti dei liberi muratori fatti in via continua
in vari brani e anche in interviste siano il frutto di un interesse da
studioso e di interessato osservatore. Nel libro si rimarca una
clamorosa dichiarazione rilasciata da Rino dopo i trionfi sanremesi al
giornalista Manuel Insolera, il festival della canzone viene paragonato
in modo esplicito ad “un ordine massonico(!!). Sempre proseguendo nella
sua opera di certosina ricerca Mautone dimostra come la ventilata
colleganza Rino Gaetano-Universo massonico non sia una tesi nata in
questi ultimi anni. Infatti l’autore del saggio ha reperito un
interessante articolo del 3 giugno 1981, quindi risalente al giorno
appena successivo alla morte, pubblicato sull’importantissimo e diffuso
quotidiano La Stampa nel quale esplicitamente e senza mezzi termini
testi gaetaniani vengono rapportati a fatti inquietanti della p2, la
famigerata loggia guidata dal Venerabile Licio Gelli.Quello che
sconcerta è la identità del coraggioso giornalista che sul giornale dei
bilderberghiani Agnelli ha stilato l’articolo, è una
identità…misteriosa, infatti il notevole pezzo giornalistico è siglato
solo da due lettere e il quotidiano di Torino, a richiesta esplicita di
Mautone, ha risposto che a distanza di 35 anni non è possibile risalire
al nome e cognome poiché vari giornalisti si firmavano con sigle non
corrispondenti alle proprie iniziali e che poi mutavano frequentemente.
Nel libro si rimarca, altresì, la singolare circostanza rappresentata
da esplicite citazioni dedicate a Rino Gaetano da Stefano Bisi cioè il
Venerabile Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia, la loggia massonica
più potente della penisola, addirittura nel suo discorso di
insediamento alla guida della potentissima obbedienza massonica. I versi
di una misconosciuta e inedita canzone di Rino vengono fatti propri da
Bisi per sottolineare che i dignitari massoni devono operare in unione e
concordia per rafforzare il potere e la forza della loggia.
Sempre in tale quadro una notizia di grande interesse è rappresentata
da una stretta frequentazione di Rino, precisamente nel cerchio delle
sue più care amiche si annovera la giornalista Elisabetta Ponti figlio
di un medico, Lionello Ponti, che risultò inserito nella lista della
P2. Ma il dr. Ponti non è un medico qualunque ma è addirittura il
sanitario di fiducia di Licio Gelli, quindi a tutti gli effetti e in
concreto la persona più in stretto contatto e in intimità col
Venerabile maestro piduista. Elisabetta Ponti ha detto che dopo la
pubblicazione della lista degli affratellati alla p2 parlò molto volte
di massoneria con Rino e che l’artista, pur riferendo dei concetti
alquanto indecifrabili, non espresse alcuna attenzione e\o interesse
particolari per la fenomenologia massonica. In realtà tale ricostruzione
della Ponti, forse per il gran tempo trascorso, non risulta plausibile.
Infatti Rino morì appena 10 giorni dopo la pubblicazione della lista
della p2 e in un lasso di tempo così ristretto non era possibile che
avesse potuto parlare “molte volte” di massoneria con la Ponti,
oltretutto impegnato come era, fino all’ultimo, nella sua frenetica
attività artistico-canora. I CONTENUTI DELLE CANZONI
Nel volume si sottolineano pure i tanti mirabili significati dei testi gaetaniani, dimostrandosi che l’artista faceva trapelare le proprie cognizioni, frutto di fonti di alto profilo, di fatti e personaggi. Ad esempio Mario e Gino de La Berta Filava
non sono due baristi della RCA come taluni riduttivamente hanno
sostenuto,ma indicano i ministri Mario Tanassi e Gino (Luigi) Gui.
Infatti nel 1976, anno in cui venne inciso il brano, l’artista non era
nella casa discografica RCA ma cantava ancora per la IT di Vincenzo
Micocci. Inoltre Rino in vari concerti, compreso quello immortalato in
una registrazione “storica” a San Cassiano, in Puglia, dichiara
esplicitamente che il brano è dedicato al mondo dei grossi politici ed
altri enigmatici mondi, quindi conferma che il brano non è assolutamente
rapportato alla figura di …due baristi. Inoltre anche un altro
coraggioso, per quanto più controverso, testimone di quegli anni scrive
in una propria filastrocca di Mario, Gino e Berto e accosta tali suoi
versi allo scandalo Lockheed e fa coincidere, per sua stessa
ammissione, le identità di Mario e Gino con le figure politiche di
Mario Tanassi e Gino (Luigi) Gui. Sempre in modo minimalistico taluni hanno individuato il Cazzaniga nominato in Nuntereggaepiù in un giornalista sportivo non certo passato alla storia per chiarezza di argomenti e acume nei commenti.
In realtà Mautone evidenzia che si tratta di Vincenzo Cazzaniga, già
amministratore delegato della Esso Italia e poi vice-presidente della
Bastogi un carrozzone pubblico, oggi non più esistente, che si
interessava di energia e costruzioni. Tale Vincenzo Cazzaniga risulto
essere un collaboratore dei Servizi americani e per conto degli USA
finanziava segretamente la DC in chiave anti-sinistra. Ebbene in Nuntereggaepiù Rino, mostrando ancora una volta di avere conoscenza di fatti assai riservati, canta DC DC DC DC CAZZANIGA….
mostrando di sapere il ruolo occulto che quest’ultimo rivestiva, cioè
di finanziatore segreto della Democrazia Cristiana. A ulteriore
dimostrazione che si tratta di Vincenzo Cazzaniga, posto alla direzione
della Bastogi, sotto l’ala protettiva quanto asfissiante di Giulio
Andreotti e di Eugenio Cefis, supermanager del mondo energetico,vi è una
intervista di Rino Gaetano ove nomina esplicitamente la BASTOGI di
Vincenzo Cazzaniga, rispondendo in maniera del tutto avulsa ad una
domanda di musica che gli pone un giornalista. Ma sono innumerevoli i casi ove Rino mostra di avere notizie
di fatti inquietanti, e nello stesso tempo li svela in modo geniale
inserendoli in contesti musicali apparentemente ironici ed allegri. In Mio Fratello è figlio unico
menziona il treno Taranto-Ancona, cioè il convoglio e tratto
ferroviario che qualche anno dopo emerse essere sotto controllo dei
servizi segreti deviati. Infatti due ufficiali dei servizi segreti,
“fratelli” affiliati alla p2, Belmonte e Musumeci, furono condannati per
aver architettato sul treno Taranto-Ancona falsi attentati per
confondere le indagini della magistratura sui drammatici e purtroppo
reali attentati ai treni avvenuti in Italia attorno alla metà degli anni
settanta.
Anche i riferimenti allarmati in taluni brani rivolti ad una “rosa”
nonchè allusioni altrettanto allarmate ad un “pugnale USA” sono altri
geniali riferimenti a fatti inquietanti di cronaca politica e
giudiziaria contemporanei al cantautore, infatti Rino, tra le righe,
richiama vicende giudiziarie di pericolosissime associazioni riservate
quali la “Rosa dei venti” e “Gladio” (come è noto un lungo pugnale, una
piccola spada). Con il secondo saggio Mautone ha avuto e trovato conferme documentali alle ipotesi che aveva lanciato nel primo libro
e in ogni caso dimostra che le questioni da lui sollevate non erano il
frutto avvelenato di una immaginazione galoppante ma avevano già
trovato origine e dibattito sin da primo giorno della morte di Rino
Gaetano, pur occultate da organi di stampa “distratti” se non proprio
colpevolmente silenti.
Lo so che le due canzoni " simbiotiche " che propongo come colonna sonora è nota e stra nota meglio ovvia \ scontata da chi s'interessa e segue sempre questi fatti ma non ne ho trovato altre
molti
leggendo questo post mi dirann che sono complottista senza entrare
nel dettaglio . Allora chiedo a queste persone di spiegarmi
sia la 2 notizia sotto riportata presa da una fonte non per usare una loro sarcastica espressione " comunista " .
A distanza di quasi 23 anni sembrava che tale
fenomeno vedere link sopra fosse finito con il crollo dell'ex
Urss nel lonrtano 1989-1992 e che l'articolo ( vedere url sopra oppure http://www.rivistapaginauno.it/ ) del 2010 fosse solo qualcosa di eventi passati alla storia . Invece esso continua come ha
detto Imposimato a Sassari quialche giorno fa da la nuova sardegna del 4\3\2015
A Sassari Ferdinando Imposimato, il giudice che ha indagato su molti misteri Il ruolo della Sardegna: da Gladio a “lavatrice” dei soldi sporchi delle mafie
di Francesco Bellu
La verità ha un colore. Quello nero dell’inchiostro delle carte processuali, dei documenti secretati, degli “omissis” tra le righe. E ha il colore rosso del sangue dei tanti morti che hanno costellato la nostra storia più recente. Una geografia dell’insoluto che va da Portella della Ginestra, passa per piazza Fontana, piazza della Loggia, via Fani e arriva sino all’altro ieri con le stragi di Capaci, via d’Amelio e Brindisi
La scena del rapimento di Aldo Moro, in via Fani, a Roma
Ferdinando Imposimato ( sotto a destra ) ha passato
buona parte della sua vita a riannodare i fili spezzati di tutte queste
vicende attraverso un lavoro che mescola l’acume dell’uomo di legge
all’analisi dello storico.
«In primisque hominis est propria veri
inquisitio atque investigatio», ovvero: «Innanzi tutto è propria
dell’uomo l’indagine e la ricerca del vero». Cita più volte una frase
del “De Officiis” di Cicerone che riassume più di ogni altra il senso
stesso del suo lavoro che si è coagulato poi in una serie di libri che
hanno cementificato nelle pagine la sua ricerca della verità.
Il
magistrato era ieri a Sassari per una lectio magistralis agli studenti
del Dipartimento di scienze umanistiche e sociali dell’università di
Sassari. Linea guida uno dei suoi ultimi libri: “La Repubblica delle
stragi impunite” in cui Imposimato ricostruisce, dati alla mano, i
capitoli più oscuri d’Italia.
Vicende apparentemente scollegate
tra loro che trovano però un collante solidissimo. «Le stragi del
terrorismo rosso, nero, mafiose hanno un obiettivo comune. – spiega –
Assecondare i disegni della politica, rafforzando il potere politico
esistente». Per certi versi, i protagonisti di quegli anni sembrano
quasi fantasmi di un'Italia che molti, soprattutto i più giovani, vedono
come incomprensibile. E non solo per una mera questione anagrafica ma
anche perché è oggettivamente difficile districarsi in una matassa di
trame oscure, servizi deviati, fascisti, anarchici, tritolo e pistole.
Ma
le parole di Imposimato riescono a dare un quadro ben preciso: «La
strategia della tensione è frutto di un disegno preciso di
destabilizzazione del Paese per scoraggiare l’instaurarsi di governi in
accordo con la Sinistra, in cui dietro è chiaramente visibile la mano
degli Stati Uniti e in sostanza di Gladio».
Il sequestro e
l’omicidio di Aldo Moro sono il culmine di questa azione di cui tutt’ora
ci portiamo dietro il peso. È grazie, infatti, al suo lavoro che è
stata nuovamente aperta un’inchiesta dalla Procura di Roma per cercare
di diramare una volta per tutte le nebbie da questa storia. Ripercorre i
giorni concitati dell’agguato in via Fani delle Brigate Rosse, con la
presenza di “barbefinte” che dovevano controllare che nessuna intrusione
esterna creasse problemi e di come il covo di via Montalcini, in cui
l'esponente della Democrazia Cristiana era tenuto prigioniero, fosse
noto ai rappresentanti delle forze di polizia sin dal primo momento e
che nessuno dall'alto volle disporre un intervento, sino alla sua morte
decisa per una precisa “ragione di Stato”.
Se tutto ciò non fosse
avvenuto, sottolinea: «L’Italia sarebbe cambiata in meglio, perché Moro
era il più grande statista che abbiamo avuto dalla nascita della
Repubblica».
E il futuro? Per Imposimato è ancora in bilico,
perché quando gli si chiede se la strategia della tensione sia ancora in
atto o sia finita definitivamente risponde senza esitare: «È ancora in
atto».
Ha anche parole sulla Sardegna, tutt’altro che avulsa dai
misteri d’Italia in quanto pedina fondamentale nello scacchiere
mediterraneo nella logica del patto atlantico per via della presenza di
Gladio a Poglina vicino a Capo Marraggiu ad Alghero.
L’isola,
sostiene il magistrato, conferma il suo ruolo di “lavatrice” del
malaffare della criminalità organizzata, come recentemente è stato
evidenziato anche dalla Dia di Cagliari. «Non mi meraviglia. – spiega
Imposimato - Lo è sempre stato sin dagli anni Ottanta, quando la Banda
della Magliana veniva qui a ripulire il suo denaro, frutto dell’attività
di commercio della droga, in immobili sulla costa. Tutto ciò è stato
ampiamente provato e le indagini di questi giorni dimostrano che non c’è
stata soluzione di continuità rispetto al passato».
« La Sardegna
– continua – è un posto più agevole rispetto ad altri, meno
controllato. Il che non significa che il lavoro delle forze dell’ordine
sia insufficiente, ma è sicuramente una zona più defilata rispetto ad
altre che fa sì che sia più semplice aprire società che possano coprire
questi affari illeciti».
Roma è un crocevia di spie provenienti da tutti i paesi del mondo.
Agenti segreti, infiltrati e sotto copertura si aggirano, più o meno
identificati, facendo la spola tra le ambasciate, le sedi istituzionali,
le organizzazioni umanitarie che costellano la Capitale e lo Stato del
Vaticano. Un centro di interessi politici ed economici che ha davvero
ben pochi rivali. Qualcuno forse sfugge o è sfuggito, alle operazioni di
controspionaggio della nostra intelligence. Altri, probabilmente, sono
monitorati. Altri ancora, come in ogni spy story che si rispetti, si
dileguano nel nulla e risultano come mai esistiti. La vicenda del
nordcoreano Kim Su-Gwang, con tutti i suoi alias, scoperta da Il Foglio,
è solo una parte della complessa e fitta rete di spie che si muove nel
nostro paese. Al momento, infatti, l'attenzione sarebbe rivolta anche ad
un gruppo di iraniani che vivono a Roma e di cui le vere attività non
sono molto chiare. Già dagli anni '80, infatti, i servizi segreti
iraniani operano nella Capitale sotto mentite spoglie, che spesso
possono essere anche quelle di giornalisti. Nei fatti, però, sono dei
veri e propri informatori che hanno accesso a numerosi luoghi e tessono
infinite relazioni. In particolare questo gruppo eserciterebbe
un'attività di spionaggio contro i dissidenti dell'Iran che vivono nel
nostro paese, i mujihadden e khalk (Mek). Più di una volta, infatti, i
presunti giornalisti iraniani sono stati notati, durante le
manifestazioni di piazza dei Mek, in atteggiamenti insoliti. Un gioco
sottile quanto pericoloso, che disegna però una trama di spionaggio cheè
radicata da anni. In passato, inoltre, fu scovato anche un gruppo di
spie russe, mai perseguiti anche se segnalati alla polizia giudiziaria.
All'interno delle organizzazioni umanitarie, poi, secondo fonti
investigative, si trova il più grande ricettacolo di agenti sotto
copertura che, grazie a qualcosa di molto simile alle immunità
diplomatiche, riescono ad arrivare e vivere in Italia, anche per lunghi
periodi, operando come vere e proprie spie.
Tornando al nordcoreano, alcune fonti intelligence specificano che
Su-Gwang «era noto ai nostri servizi già dal 2003». La sua condizione di
funzionario del World Food Program, che gli concedeva una immunità
diplomatica come per altri esponenti delle agenzie Onu, sarebbe stata
una copertura per raccogliere informazioni sui programmi nucleari di
altri paesi. L'Italia, spiega ancora la fonte, «non essendo un paese che
sviluppa tale attività non poteva rappresentare una fonte diretta di
informazioni. Da Roma, invece, Kim poteva accedere a notizie che
riguardavano altri Stati». Ad ogni modo la prima segnalazione della
nostra intelligence sarebbe pervenuta agli inizi del 2004, quando i
nostri 007 hanno comunicato agli Stati Uniti il profilo equivoco del
personaggio. Da quel momento in poi, Su-Gwang sarebbe finito sotto
stretta osservazione «per ricostruire la sua fitta rete di relazioni».
Il sospetto era che la spia nordcoreana si occupasse dell'acquisto di
tecnologia e componenti per il programma nucleare del suo paese. Una
vera spy story che vorrebbe l'uomo, ormai scomparso dagli scenari
europei, una chiave di volta per il monitoraggio dei rapporti tre le due
Coree, ma anche per lo sviluppo del programma nucleare. Tra il 2004 e
il 2008 ad occuparsi della vicenda sarebbe stata proprio la struttura
operativa preposta al contrasto dei programmi di proliferazione nucleare
del Sismi, gestita dall'attuale direttore dell'Aise, Alberto Manenti.
Una spia nota, dunque, che però non è stata mai perseguita. "Era utile
monitorarlo", spiega ancora la fonte, anche perché "non era un vero e
proprio spionaggio a danni del nostro paese». Meglio, dunque, mandare
ogni anno un report dettagliato su Kim agli americani. Un equilibrio
precario, dunque, che va di pari passo con la scomparsa della spia,
residente a Roma fino a gennaio di quest'anno. In questo giro di servizi
segreti entra anche la Francia, che nel 2014 ha congelato i beni di Kim
Su-Gwang, della sorella e del padre, per molti anni residente a Parigi,
perchè appartenenti ai servizi segreti di Pyongyang, sottoposti a
sanzioni economiche da parte dell'Unione Europea. Nonostante le sanzioni
della Francia l'uomo ha continuato a lavorare a Roma per un altro anno.
«Ha fatto il doppio gioco - spiega la fonte - ecco perché i servizi
francesi lo hanno incastrato
Questo articoli che costituiscono il post d'oggi . tratti dalla nuova sardegna del 23\6\2013 , costituiscono una sorta di mia rivincita verso chi mi dice : << sei complottista ., leggi troppi siti , letteratura e fumetti noir \ gialli ., lavori troppo di fantasia , vedi misteri ovunque , oppure mi dicono sei un po' matto ,ecc o mi fanno delle parodie come questa la lunga notte dell'ispettore scaneau >>
Ma io me ne frego perchè il matto :
(...)
Di cause perse
E di buoni motivi
Il matto arriva con le pezze al culo
E se ti vede ti tende la mano
Il matto parla con lo sguardo perso
Sogna forte
E vede lontano
Il matto parla e grida e scherza
E ti guarda, poi ride di gusto
Ma ora bado alle ciancie ed eccovi gli articoli in questione buona lettura
Finanziere sardo: una telefonata fermò il blitz per liberare Moro
La palazzina di via Montalcini era controllata dai servizi segreti dalla metà di aprile del 1978
Le teste di cuoio dovevano entrare in azione l’8 maggio, 24 ore dopo le Br uccisero il presidente dc
di Piero Mannironi
ROMA
Le clamorose rivelazioni di un ex finanziere sardo e di un gladiatore che faceva l’istruttore a Poglina
riaprono il “caso Moro”. I due hanno raccontato che la prigione del presidente della Dc in via Montalcini era stata identificata e messasotto controllo. Ma l’8 maggio 1978 il blitz per liberare Moro fu bloccato da una telefonata arrivata dal Viminale. Il giorno dopo le Brigate Rosse assassinarono
lo statista dc. L’ex magistrato Ferdinando Imposimato, che aveva istruito le inchieste sul rapimento
Moro e che ha raccolto queste testimonianze,ha presentato un esposto alla procura della Repubblica di Roma che ha riaperto il caso.
Le sentenze non scrivono la storia e tanto meno le storie possono chiudersi con una sentenza. Perché ci sono verità che restano nascoste in fondo a bui abissi, protette dalla paura di chi sa e dal cinismo di poteri che non vogliono farle emergere. Così è per il sequestro e la morte del presidente della Democrazia cristiana Aldo Moro, avvenuta il 9 maggio del 1978. Vicenda scritta dalla ferocia delle Brigate Rosse, ma forse anche da oscuri burattinai che sono rimasti finora nell'ombra. Dunque, una storia che ancora nasconde nelle sue pieghe torbide presenze e regie occulte che inchieste e processi non sono riusciti a svelare. Ma il tempo corrompe le complicità, modifica gli scenari e affranca le coscienze.Così,dopo 35 anni, è possibile che la storia della morte di Moro possa essere riscritta, liberata dalle catene del silenzio e dei depistaggi.Nei giorni scorsi la procura della Repubblica di Roma ha infatti riaperto il caso, in seguito alla presentazione di una denuncia che propone una sconvolgente ipotesi: la prigione di Moro, in via Montalcini 8 ( foto sottoa destra ) , a Roma, era stata individuata dai servizi segreti e da Gladio e controllata per settimane.
Non solo: l'8 maggio del 1978 lo statista Dc che sognava di cambiare la politica italiana doveva essere liberato con un blitz delle teste di cuoio dei carabinieri e della polizia, ma una telefonata dal Viminale bloccò tutto.La Renault rossa. E il giorno dopo Moro fu ucciso. Il suo cadavere fu fatto ritrovare nel portabagagli di una Renault rossa in via Caetani. In quel momento la storia italiana deragliò da un percorso progettato da Moro e dal suo amico-nemico Berlinguer,tornando nello schema ortodosso della politica dei blocchi e incamminandosi poi verso un tragico declino morale. Per la procura romana impossibile sottovalutare quell' esposto. Perché a redigerlo e depositarlo è stato Ferdinando Imposimato, oggi avvocato,ma soprattutto presidente onorario aggiunto della suprema corte di Cassazione e in passato magistrato che ha seguito alcune
tra le più complesse e importanti inchieste della storia del Paese. Come quelle sul sequestro-omicidio di Aldo Moro.
A fornire a Imposimato la chiave che ha consentito di aprire questa nuova porta sul caso Moro è stato un sardo,Giovanni Ladu che ha oggi 54 anni.Un brigadiere della guardia di finanza in servizio a Novara che, nel 1978, era militare di leva nel corpo dei bersaglieri e fu testimone della decisione che condannò a morte Moro. Imposimato conobbe Ladu nell'ottobre del 2008. Si presentò nel suo studio all'Eur insieme a due colleghi, autorizzato dal suo comandante. Aveva scritto un breve memoriale nel
quale sosteneva di essere stato,con altri militari a Roma, in via Montalcini per sorvegliare l'appartamento-prigione in cui era tenuto il presidente della Democrazia cristiana. Un appostamento cominciato il 24 aprile 1978 e conclusosi l'8 maggio, alla vigilia dell'omicidio di Moro.
Perché Ladu aveva atteso ben 30 anni prima di parlare? «Avevo avuto la consegna del silenzio e il vincolo al segreto - disse -, ma soprattutto avevo paura per la mia incolumità e per quella di mia moglie. La decisione di parlare mi costa molto,ma oggi spero che anche altri,tra quelli che parteciparono con me all'operazione trovino il coraggio di parlare per ricostruire la verità sul caso Moro ».
Nome in codice: Archimede. Ladu raccontò così che il 20 aprile del 1978 era partito dalla Sardegna
per il servizio militare.Destinazione: 231° battaglione bersaglieri Valbella di Avellino. Dopo tre giorni, lui e altri 39 militari di leva, furono fatti salire su un autobus, trasportati a Roma e alloggiati nella caserma dei carabinieri sulla via Aurelia,vicino all'Hotel Ergife. Furono divisi in quattro squadre e istruiti sulla loro missione:sorveglianza e controllo di uno stabile. A tutti i militari fu attribuito uno pseudonimo: Ladu diventò “Archimede”. Lui e la sua squadra presero possesso di un appartamento in via Montalcini che si trovava a poche decine di metri dalla casa dove, dissero gli ufficiali che coordinavano l'operazione,«era tenuto prigioniero un uomo politico che era stato rapito ». Il nome di Moro non venne fatto, ma tutti capirono. Il racconto di Ladu era ricco di dettagli: controllo visivo 24 ore su 24, microtelecamere nascoste nei lampioni, controllo della spazzatura nei cassonetti.
Per mimetizzarsi indossavano tute dell'Enel o del servizio di nettezza urbana. Così controllarono gli spostamenti di "Baffo" (poi riconosciuto come Mario Moretti) che entrava e usciva sempre con una valigetta o della "Miss" (Barbara Balzerani). Un giorno Ladu fu inviato con un commilitone a verificare l'impianto delle telecamere all'interno della palazzina dove era detenuto Moro. Era vestito
da operaio. Invece di premere l'interruttore della luce, il brigadiere sardo suonò il campanello. Aprì la "Miss" e Ladu improvvisò con prontezza di spirito, chiedendo se era possibile avere dell'acqua.
Il piano di evacuazione. Il racconto era agghiacciante nella sua precisione. Nell'appartamento sopra la prigione di Moro,poi, erano stati piazzati dei microfoni che captavano le conversazioni. La cosa che stupì Ladu era che il personale addetto alle intercettazioni parlava inglese. «Scoprimmo in seguito
- ricordò - che si trattava di agenti segreti di altre nazioni, anchese erano i nostri 007 a sovrintendere a tutte le operazioni ». Altri particolari: era stato predisposto un piano di evacuazione molto discreto per gli abitanti della palazzina ed era stata montana una grande tenda in un canalone vicino, dove era stata approntata un'infermeria nel caso ci fossero stati dei feriti nel blitz delle teste di cuoio.
«L'8 maggio tutto era pronto - disse ancora Ladu - , ma accadde l'impensabile. Quello stesso giorno, alla vigilia dell'irruzione,ci comunicarono che dovevamo preparare i nostri bagagli perché abbandonavamo la missione. Andammo via tutti, compresi i corpi speciali pronti per il blitz e gli agenti segreti.
Rimanemmo tutti interdetti perché non capivamo il motivo di questo abbandono.La nostra impressione fu che Moro doveva morire».
Nella caserma dei carabinieri sull'Aurelia Ladu raccontò di aver sentito dire da alcuni militari dei corpi speciali che tutto era stato bloccato da una telefonata arrivata dal ministero dell'Interno. Mentre smobilitavano,un capitano intimò al brigadiere sardo: «Dimenticati di tutto quello che hai fatto in questi ultimi 15 giorni».
“Brillantina Linetti”. Successivamente, seguendo una trasmissione in tv, Ladu riconobbe uno degli ufficiali che coordinavano l'operazione: era il generale Gianadelio Maletti (ex capo del controspionaggio del Sid ) che i militari avevano soprannominato, per la sua pettinatura, "Brillantina Linetti".Imposimato rimase inizialmenteolto perplesso e diffidente.Il racconto di Ladu sconvolgeva
tutte le esperienze investigative precedenti, ne annullava tutte le certezze e, soprattutto,poneva un problema terribile: bloccando il blitz,qualcuno aveva decretato la morte di Aldo Moro. Per quattro
anni, così, quel racconto rimase sospeso, in attesa di conferme e riscontri. Fino a quando non comparve il gladiatore Oscar Puddu. Con lui il quadro di quei giorni drammatici del 1978 sembrò completarsi e trovare una nuova credibilità. Nel mentre, Imposimato aveva conosciuto i gladiatori sardi Arconte e Cancedda e sentito i loro sconvolgenti racconti sul caso Moro. Confermavano che nel mondo dei servizi segreti si sapeva dell’imminente sequestro di Moro.
Giovanni Ladu, poi, non aveva e non ha alcun interesse a risvegliare i fantasmi che popolano uno dei fatti più oscuri della vita della Repubblica. Lui, soldato di leva in quel 1978, venne proiettato in un
universo sconosciuto del quale sapeva poco o nulla. La scelta del Sismi di utilizzare questo manipolo di ragazzi era originata dal fatto che, vista l’età, erano meno visibili, meno sospettabili da parte dei terroristi. Ladu, dopo aver parlato con Imposimato, fu poi interrogato il 9 settembre 2010 dal pm romano Pietro Saviotti.Lo stop a Dalla Chiesa. Resta da capire, a questo punto, chi fece quella telefonata che condannò a morte Aldo Moro. Chi poteva ordinare al generale Musumeci,coordinatore dell’operazione Moro, di fermare tutto?L’unica risposta possibile è:Cossiga e Andreotti. Uno ministro
dell’Interno e l’altro presidente del Consiglio. D’altra parte, la fatidica telefonata arrivò dal Viminale. Poi, sempre secondo quanto ha raccontato il gladiatore Oscar Puddu, il generale dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa insisteva per il blitz, ma fu bloccato da Andreotti e da Cossiga. Lo convocarono
a Forte Braschi, la sede del Sismi, e lo redarguirono duramente.
e sempre dallo stesso giornale parlano : il giudice imposimato , e due gladiatori ( Oscar Puddu era istruttore di elettronica nella base di Gladio a Poglina Lavorò nella centrale di intercettazione e allestita sopra l’appartamento-prigione e l’agente Antonino Arconte noto G-71 )
Ferdinando Imposimato: «Quei sardi
così leali con le istituzioni vanno premiati»
Il vecchio vizio non lo ha mai abbandonato. Lui, Fernando Imposimato (nella foto),oggi avvocato penalista, non ha mai tradito la sua vera natura di investigatore acuto e di talento. Come magistrato ha cercato di penetrare in alcuni dei più oscuri misteri italiani: dall'attentato al Papa Giovanni Paolo II al sequestro-omicidio Moro. Della morte dello statista democristiano pensava di sapere tutto quello che era possibile sapere, dopo aver scandagliato i meandri del terrorismo e studiato lo scenario internazionale dove erano tanti i nemici di Aldo Moro. Come il potentissimo Henry Kissinger, ma anche il Kgb sovietico che gli aveva messo alle costole il capitano Feodor Sergey Sokolov. Imposimato, nel suo straordinario libro "I 55 giorni che hanno cambiato l'Italia", ricorda così la terribile confessione del braccio destro di Kissinger, Steve Pieczenik, che faceva parte del comitato di crisi parallelo, organizzato dall'allora ministro dell'Interno Francesco Cossiga: «Sono stato io, lo confesso, a preparare la manipolazione strategica che ha portato alla morte di Aldo Moro. Allo scopo dì stabilizzare la situazione italiana. Le Brigate rosse avrebbero potuto rilasciare Aldo Moro e così avrebbero senza dubbio conquistato un grande successo, aumentando la loro legittimità. Al contrario, io sono riuscito con la mia strategia, a creare una un'anime repulsione contro questo gruppo di terroristi e allo stesso tempo un rifiuto verso i comunisti. Il prezzo da pagare è stata la vita di Moro.». Imposimato ha così condotto una nuova inchiesta e le conclusioni sono diventate lo scheletro dell'esposto che ha presentato alla procura della Repubblica di Roma. Giovanni Ladu, Oscar Puddu, Nino Arconte, Pier Francesco Cancedda. Tutti sardi. Hanno avuto un ruolo fondamentale nella riapertura del caso. Di loro Imposimato dice: «Questi sardi, così leali alle istituzioni, mi hanno riconciliato con la speranza. Hanno affrontato rischi gravissimi per onorare la loro fedeltà allo Stato. Proporrò che venga concesso loro il premio Emanuela Loi».
Oscar Puddu era istruttore di elettronica nella base di Gladio a Poglina
Lavorò nella centrale di intercettazione allestita sopra l’appartamento-prigione
Microfoni e microcamere
per spiare i terroristi
ROMA La svolta arrivò alle 15,35 del 13 settembre 2012 con una e-mail firmata con il nome fittizio Oscar Puddu. Il misterioso personaggio aveva appena letto il libro-inchiesta di Imposimato "Doveva morire" e proponeva all'ex magistrato notizie sul caso Moro, che aveva appreso per esperienza diretta. Questo l'identikit che Puddu fece di se: ufficiale dell'Esercito, nato a Gorizia, istruttore per quattro anni nella base segreta di Gladio a Poglina, vicino ad Alghero. Esperto di elettronica. Imposimato mostrò inizialmente una grande diffidenza verso questo personaggio senza volto che, «per motivi di sicurezza», preferiva restare nascosto dietro uno pseudonimo. Poi, sentendo il suo racconto che coincideva in modo incredibile con quello fattogli 4 anni prima dal brigadiere Giovanni Ladu, sospettò perfino che si trattasse della stessa persona. Ecco, in estrema sintesi, cosa disse Puddu. Quattro giorni dopo l'agguato di via Fani fu spostato da Poglina a Roma, prima nella caserma di forte Boccea, poi a Forte Braschi, sede del servizio segreto militare. Il suo corpo di appartenenza era il Sismi, ma faceva parte anche della struttura supersegreta Gladio. Per le sue conoscenze di elettronica, Puddu veniva chiamato in codice "Sapienza". Il racconto di Ladu veniva drammaticamente confermato in ogni dettaglio. Il covo delle Br in via Montalcini era circondato e controllato. A capo delle operazioni c'erano il direttore del Sismi Giuseppe Santovito, il suo braccio destro Pietro Musumeci e il generale Gianadelio Maletti. Nell'appartamento sopra la prigione di Moro le apparecchiature elettroniche di intercettazione e le microcamere erano gestite da uomini delle Sas inglesi e del Bnd tedesco, ma anche gli uomini di Gladio si alternavano all'ascolto. Il giorno prima del blitz programmato, che doveva essere attuato da otto uomini del Gis dei carabinieri, arrivò l'ordine di smobilitazione. «Sconcerto» è la parola che il gladiatore usò per definire lo stato d'animo degli 007 italiani e stranieri coinvolti nell'operazione. Alla domanda di Imposimato su chi fosse andato nella sede del Sismi a Forte Braschi durante il periodo di controllo in via Montalcini, il gladiatore Puddu rispose: Andreotti e Zaccagnini. Cossiga no, ma, aggiunse, che era sempre presente un uomo di fiducia dell'ex presidente della Repubblica, nome in codice “Aquila”. Si tratterebbe del sottosegretario all’Interno Nicola Lettieri. I pezzi del mosaico andavano così tutti al loro posto. I racconti di Ladu e di Puddu si completavano a vicenda. Ma, incredibilmente, c'erano anche altre tessere prima non capite che trovavano finalmente un posto e una congruenza. Come l'incontro tra Imposimato e un ex carabiniere, tale Alfonso Ferrara, che il 3 settembre 2009 lo avvicinò durante la presentazione di un libro. Ferrara raccontò che nel maggio 1978 era giunto da Milano a Roma con altri commilitoni per liberare il presidente della Dc. «Arrivammo quasi nell'androne delle scale dove era la prigione di Moro - disse - quando ricevemmo l'ordine di tornare indietro. Moro era ancora vivo. Il giorno dopo l'hanno ucciso». Ferrara faceva parte dei reparti speciali creati dal generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Che quindi sapeva tutto, visto che i suoi uomini erano coinvolti nel blitz in via Montalcini. Imposimato riferisce poi una quarta storia, parallela a quelle di Ladu, Puddu e Ferrara, secondo la quale dell'operazione facevano parte anche i Nocs della polizia. L'apprese dal giornalista Pino Nicotri che gli parlò del racconto fattogli nell'agosto 1993 da un docente gesuita. Un suo allievo si era arruolato in polizia e poi era entrato nelle teste di cuoio dei Nocs. Al suo ex professore e padre spirituale aveva raccontato che erano arrivati alla casa vicina a quella dove stava Moro. Erano ad appena 20 metri quando ricevettero l'ordine di fermarsi. Il poliziotto era rimasto tanto schifato che si era dimesso dalla polizia. In conclusione, il mosaico ricomposto da Imposimato pone interrogativi inquietanti e rilancia la tesi del complotto. E cioè che Moro poteva essere salvato. Anzi, stava per essere liberato, ma qualcuno decise di fermare tutto, condannando a morte il presidente della Dc. Il lavoro della procura di Roma riprende da qui. (p.m.)
Ordine al colonnello Giovannone: chiedere ai palestinesi di far pressione sulle Br
Il viaggio a Beirut dell’agente G-71
SASSARI In alcuni ambienti dei servizi segreti si sapeva che il presidente della Dc Aldo Moro sarebbe stato sequestrato dalle Brigate rosse. Sicuramente la notizia era arrivata alla struttura super segreta Gladio, che si attivò subito per affrontare e gestire la crisi. La prova è nel racconto del super agente
Antonino Arconte, oggi 59enne, sardo di Cabras, nome in codice G-71 ( foto a sinistra ) . «Partii dal porto della Spezia il 6 marzo 1978, a bordo del mercantile Jumbo Emme. Sulla carta era una missione molto semplice: avrei dovuto ricevere da un nostro uomo a Beirut dei passaporti che avrei poi dovuto consegnare ad Alessandria d'Egitto. Dovevo poi aiutare alcune persone a fuggire dal Libano in fiamme, nascondendole a bordo della nave. Ma c'era un livello più delicato e più segreto in quella missione. Dovevo infatti consegnare un plico a un nostro uomo a Beirut. In quella busta c'era l'ordine di contattare i terroristi palestinesi per aprire un canale con le Br, con l'obiettivo di favorire la liberazione di Aldo Moro». E qui, ecco il mistero: il documento è del 2 marzo '78 e viene consegnato a Beirut il 13. Moro verrà rapito dalle Br il 16. Cioè, nel mondo sotterraneo degli 007 qualcuno si mosse per liberare il presidente della Dc, prima del rapimento. Quindi, si sapeva che Moro sarebbe stato sequestrato. Arconte non conosce i retroscena. «Per me è un mistero. Io dovevo solo effettuare la consegna. D'altra parte, il mio lavoro era quello di fare da istruttore militare. Addestravo "ribelli" e profughi in zone calde. Soprattutto in Africa». Arconte consegnò a Beirut il 13 marzo 1978 il documento “a distruzione immediata” al gladiatore G-219. Il destinatario finale del plico era il gladiatore G-216. Il primo era il colonnello Mario Ferraro, passato poi al Sismi, che venne trovato impiccato a un portasciugamani nella sua abitazione romana, nel 1995. Una morte molto strana, archiviata come suicidio, ma che non ha mai convinto i familiari dello 007. G-216, invece, è il colonnello Stefano Giovannone, capocentro dei servizi segreti militari italiani in Medio Oriente. Giovannone, conosciuto tra le "barbe finte" come “Stefano D'Arabia” o come “Il Maestro”, era, guarda caso, un uomo fidatissimo di Aldo Moro, del quale condivideva la linea filopalestinese. E dalla prigione delle Br Moro chiese l'aiuto di Giovannone. Scrivendo a Flaminio Piccoli (allora presidente dei deputati Dc), infatti, aveva chiesto di far «intervenire il colonnello Giovannone, che Cossiga stima». Prima di morire, nel 1995, Ferraro affidò ad Arconte il messaggio originale che G-71 gli aveva consegnato a Beirut. Aveva evidentemente paura di essere ucciso. Un messaggio che prova inequivocabilmente che negli apparati dello Stato c’era chi sapeva che si stava preparando il sequestro di Moro. Agghiacciante il fatto che il presidente della Dc non venne avvertito e protetto. Partì allora una velenosa campagna di delegittimazione contro Arconte, naufragata però tra sentenze e perizie che gli hanno dato ragione. Perfino Cossiga e Andreotti provarono a minarne la credibilità. Inutilmente. C’è infine un altro gladiatore sardo nel “caso Moro”. È Piero Francesco Cancedda, nome in codice “Franz . Era infiltrato in Cecoslovacchia. Fu lui a far uscire dalla cortina di ferro la notizia del covo Br in via Gradoli. Notizia che il capitano Labruna passò alla polizia e alla moglie di Moro. Ma qualcuno non volle capire l’informazione. (p.m.)
un altro caso (vedere qui il precedente) di confessioni estorte con la tortura , prima delle torture del carcere di Bolzaneto cioè G8 di Genova del 2001 è la storia di Giuseppe Gulotta ne trovate la storia sotto insieme al video e alcuni link a fine post sulla vicenda
da repubblica online del 13\2\2012
Ventuno anni all'ergastolo, era innocente "Chi mi ridarà la mia vita perduta?"
Giuseppe Gulotta con il suo avvocato Salvatore Lauria
Giuseppe Gulotta con il suo avvocato Salvatore Lauria
Giuseppe Gulotta aveva 18 anni quando venne prelevato e portato nella caserma dei carabinieri di Alcamo come sospettato dell'omicidio di due militari dell'Arma. Venne picchiato e seviziato per ore finché non confessò quello che non aveva fatto Poi ritrattò invano. IL processo nel '90 con la condanna a vita. Nel 2007,con il pentimento di uno dei carabinieri che parteciparono all'interrogatorio,il nuovo processo e, oggi, la sentenza: "Non è colpevole. Lo Stato deve restituirgli libertà e dignità"Dopo 21 anni, 2 mesi, 15 giorni e sette ore di carcere, Giuseppe Gulotta, adesso cinquantenne, ha ottenuto giustizia e dignità. Alle ore 17,35 di oggi la Corte d'Appello di Reggio Calabria dove si è celebrato il processo di revisione, ha pronunciato la sentenza. Giuseppe Gulotta è innocente, e da oggi non è più un ergastolano, non è l'assassino che il 26 gennaio del 1976 avrebbe ucciso, assieme ad altri complici, due carabinieri, Salvatore Falcetta e Carmine Apuzzo, in un attentato alla caserma di Alcamo Marina, un paese al confine tra le province di Palermo e Trapani.
"Gulotta non c'entra nulla; abbiamo il dovere di proscioglierlo da ogni accusa e restituirgli la dignità che la giustizia gli ha indebitamente tolto" ha detto oggi la pubblica accusa prima che la corte si riunisse in camera di consiglio per emettere una sentenza di assoluzione che Giuseppe Gulotta ( foto sotto a sinistra ) attendeva da troppo tempo. Da quando, 35 anni fa, appena diciottenne, fu arrestato, condotto in carcere e, più tardi, dopo la durissima trafila dei diversi gradi processuali, condannato all'ergastolo definitivamente. E con lui gli altri tre suoi presunti complici: due sono ancora latitanti in Brasile; il terzo, Giuseppe Vesco, si suicidò in carcere qualche anno dopo il suo arresto.
Ad accusare Gulotta della strage fu appunto Giuseppe Vesco, considerato il capo della banda, suicidatosi - in circostanze non del tutto chiare - nelle carceri di ''San Giuliano'' a Trapani, nell'ottobre del 1976. A provocare la revisione del processo che si è finalmente concluso oggi con l'assoluzione di Gulotta, sono state le dichiarazioni, molto tardive, di un ex ufficiale dei carabinieri Renato Olino che nel 2007 raccontò che le confessioni di Gulotta e degli altri erano state ottenute a seguito di terribili torture da parte dei carabinieri. Olino, che si era dimesso dal'Arma proprio in seguito alla vicenda di Alcamo, non aveva retto al rimorso e aveva deciso di dire la verità. Gli altri carabinieri, oggi quasi tutti molto anziani, hanno fatto qualche ammissione o si sono rifiutati di rispondere. Ma la giustizia ha trovato elementi sufficienti per il processo di revisione e per questa assoluzione che, inevitabilmente, dovrebbe aprire la strada a un congruo risarcimento per gli imputati. Anche per gli altri due condannati, Vincenzo Ferrantelli e Gaetano Santangelo, fuggiti all'estero prima che la condanna diventasse esecutiva, ci sarà adesso la revisione.
La notte del 27 Gennaio di quell'anno Carmine Apuzzo (19 anni) e l'appuntato Salvatore Falcetta, due militari dell'Arma,
furono trucidati da alcuni uomini che avevano fatto irruzione nella piccola caserma di Alcamo Marina. L'attacco suscitò ovviamente forte impressione in Sicilia e in tutta Italia. Si puntò sulla pista politica e finirono nel mirino delle indagini alcuni giovani di sinistra. Pochi giorni dopo venne fermato un giovane alcamese, Giuseppe Vesco, trovato in possesso di una pistola in dotazione ai carabinieri. La sua casa venne perquisita e saltò fuori anche l'arma utilizzata per il delitto. Il giovane, però, si dichiarò estraneo ai fatti affermando soltanto che aveva avuto il compito di consegnare delle armi. In seguito alle pressioni dei carabinieri, Giuseppe Vesco cambiò rapidamente la sua versione: condusse gli inquirenti al luogo in cui erano conservati gli indumenti e gli effetti personali dei due agenti uccisi (in una stalla di proprietà di Giovanni Mandalà, un bottaio di Partinico), dichiarò di aver fatto parte del commando che aveva fatto irruzione nella casermetta e fece il nome dei suoi tre complici: Gulotta, Ferrantelli e Santangelo.
Dopo poco tempo Vesco ritrattò tutto e dichiarò che quanto da lui affermato era stato ottenuto in seguito di terribili torture. Nelle sue lettere dal carcere San Giuliano di Trapani descrive minuziosamente il comportamento dei carabinieri e come erano state estorte le confessioni dei fermati. Ma pochi giorni prima di essere nuovamente ascoltato dagli inquirenti, venne trovato impiccato nella sua cella, con una corda legata alle grate della finestra, cosa resa abbastanza difficile dal fatto che a Vesco era stata amputata una mano a causa di un incidente. E proprio a questa vicenda si legano le confessioni del pentito Vincenzo Calcara, che lascia intravedere una verità fino ad ora soltanto accennata, ma resa più concreta anche da alcune rivelazioni in cui si attesta una collaborazione tra mafia e Stato. Calcara avrebbe affermato che gli venne intimato di lasciare da solo in cella Giuseppe Vesco e che lo stesso venne ucciso da un mafioso aiutato da due guardie carcerarie.
Anche quanto affermato dal pentito Peppe Ferro libera i quattro dalle gravi accuse: "Li ho conosciuti in carcere quei ragazzi arrestati... Erano solamente delle vittime... pensavamo che era una cosa dei carabinieri, che fosse qualcosa di qualche servizio segreto".
Dopo la chiamata di correità di Vesco, Giuseppe Gulotta fu arrestato e massacrato di botte per una notte intera. La mattina, dopo i calci, i pugni, le pistole puntate alla tempia, i colpi ai genitali e le bevute di acqua salata, avrebbe confessato qualunque cosa e firmò un documento in cui affermava di aver partecipato all'attacco alla caserma. Il giorno dopo, davanti al procuratore, Gulotta ritrattò tutto e provò a spiegare quello che gli era successo. Non venne mai creduto, neanche al processo che, nel 1990 lo condannò in via definitiva all'ergastolo. Poi, nel 2007, la confessione di Olino e la revisione chiesta e ottenuta dal suo avvocato Salvatore Lauria. Oggi l'assoluzione. Ma Giuseppe Gulotta ha trascorso gran parte della sua vita in carcere. Durante un breve periodo di soggiorno si è sposato con la donna che lo ha sempre "protetto" e che gli ha dato un figlio. Adesso, completamente libero, andrà a vivere a Certaldo, in Toscana, dove, da quando è in semilibertà, fa il muratore. "Sono felice di essere stato riconosciuto finalmente innocente. Ma chi potrà mai farmi riavere la gioventù che ho passato in carcere, chi potrà mai darmi quegli anni che ho perduto senza potere crescere mio figlio?".
contorinchiesta su abusi ed eccidi delle forze dell'ordine in Italia dal 1943 al 1976 edito da Stampa alternativa diGianni Viola e Mario Pizzola dove a pag 86 si parla dei fatti di Alcamo