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9.6.16

misteri e sprechi .tour suoi luoghi dell'altra storia della repubblica italiana II puntata‬ Portella delle ginestre\ e le morti di Giuliano e gaspare Pisciotta ., e il delitto di Capocotta



 La   seconda  puntata  del  tour  nei luoghi repubblicani   vede   due  luoghi  simboli di  quelli che  vengono definiti misteri  d'italia    che  segneranno e  segnano tutt'ora  la  nostra  storia   repubblicana
  e  che possoi essere   causa  di morti sospette  e misteriose  come  esempio  quella di riino Gaetano  ( cerca in archivio le  interviste  fatte  a  Bruno Mautone  ) ed  accuse di complottismo   a  coloro (  sottoscritto compreso )    che osano esprimere  dubbi   suelle versioni ufficiali   .
   Su   di essi   ho ha  ancora  testimonianze  e ricordi indiretti   il libro ( ancora  in fase di lettura   )  Noi che  Gridavamo al vento di Loriano Macchiavelli  (  copertina a destra )    foto  a destrea  e  il dossier  ( finito  da  qualche parte  in soffitta  o  in qualche armadio     del settimanale  avvenimenti  ora  left    che  fece  nel lontano 1997 per  i  50m anni di tale   evento  )   , le trasmissioni tipo la storia siamo noi  , blu  notte  di lucarelli  , le news  letters  ed  articoli    del sito  www.misteriditalia.com   e le e  canzoni     citate  .
 il primo
 diede   alla  dipendenza dell'italia  dagli Usa e della  nato  \  blocco occidentale  anti sovietico  durante la  guerra fredda e  che  indirettamente     continua  ancora  oggi   . Fu la  prima strage  di stato. Anche essa  fu al  centro  di  canzoni  popolari  I II

il secondo 
La spiaggia di Capocotta è la zona di litorale romano compresa tra il mare laziale, dal km 7,600 al km 10,100 della via Litoranea, e tra Castel Porziano e Torvaianica, ed è uno dei tratti di dune meglio conservati d'Italia. Capocotta si estende per 45 ettari e dal 1996 fa parte della Riserva naturale Litorale romano.

 fu l'inizio    di quella    <<  stagione di scandali destinata a durare fino alla fine della prima repubblica, e ben oltre.  >>  ( http://cronologia.leonardo.it/storia/tabello/tabe1648.htm  ) .Ed  ebbe e un riflesso  nella  cultura   popolare  \  di massa  :
 
  • La leggenda legata a Capocotta è stata narrata dal poeta dialettale romano Augusto Sindici a fine '800.
  • Il nome della spiaggia è divenuta nota al pubblico italiano per un celeberrimo caso di cronaca nera, il caso Montesi che, secondo la storica statunitense Karen Pinkus, avrebbe ispirato il film di Federico Fellini La dolce vita[10].
  • In riferimento al medesimo caso di cronaca, la canzone Nuntereggae più (1978) di Rino Gaetano cita il nome della spiaggia.
  • In tempi recenti, ad essa allude Alberto Arbasino in più punti nel suo romanzo Fratelli d'Italia.
  • I Flaminio Maphia la citano nel testo della loro rivisitazione (2010) di Vamos a la playa, noto successo dei Righeira qui reintitolato Vamos alla playa (coi Flaminio Maphia).
  • Emilio Stella gli dedica una canzone ironica (2014) Capocotta non è Kingston. [11]
essi sono 

portella dele ginestre  \ piana degli albanesi 
(nota come Purtelja e Gjinestrës in lingua arbëreshe) è una località montana del comune di Piana degli Albanesi, situata a 3 km circa dall'abitato, nella città metropolitana di Palermo. Si trova tra Piana e la valle del fiume Iato.Un a giornata di festa   che si trasformo  in strage
  da  http://www.misteriditalia.it/giuliano/strage-portella/





La vecchia credeva che fossero mortaretti e cominciò a battere le mani festosa. Rideva. Per una frazione di secondo continuò a ridere, allegra, dentro di sé, ma il suo sorriso si era già rattrappito in un ghigno di terrore. Un mulo cadde con il ventre all'aria. A una bambina, all’improvviso, la piccola mascella si arrossò di sangue. La polvere si levava a spruzzi come se il vento avesse preso a danzare. C'era gente che cadeva, in silenzio, e non si alzava più. Altri scappavano urlando, come impazziti. E scappavano, in preda al terrore, i cavalli, travolgendo uomini, donne, bambini. Poi si udì qualcosa che fischiava contro i massi. Qualcosa che strideva e fischiava. E ancora quel rumore di mortaretti. Un bambino cadde colpito alla spalla. Una donna, con il petto squarciato, era finita esanime sulla carcassa della sua cavalla sventrata. Il corpo di un uomo, dalla testa maciullata cadde al suolo con il rumore di un sacco pieno di stracci. E poi quell'odore di polvere da sparo.
La carneficina durò in tutto un paio di minuti. Alla fine la mitragliatrice tacque e un silenzio carico di paura piombò sulla piccola vallata. In lontananza il fiume Jato riprese a far udire il suo suono liquido e leggero. E le due alture gialle di ginestre, la Pizzuta e la Cumeta, apparvero tra la polvere come angeli custodi silenti e smarriti.
Era il l° maggio 1947 e a Portella della Ginestra si era appena compiuta la prima strage dell'Italia repubblicana.
Ma  i fatti  che  lo rendono  inquadrabile  in quelli che   sono  stati chiamati misteri d'italia  io preferisco chiamarli    scheletri  nell'armadio   so  descriti    da   per  cbi volesse approfondire   da questo  sunto di wikipedia 

La località è nota per essere stata teatro il 1º maggio 1947 della prima strage dell'Italia repubblicana, la strage di Portella della Ginestra, con l'eccidio di lavoratori ad opera della banda criminale di Salvatore Giuliano(Montelepre, 16 novembre 1922Castelvetrano, 5 luglio 1950),Per alcuni mesi sfruttò la copertura dell'EVIS, il braccio armato del Movimento Indipendentista Siciliano attivo a partire dalla fine della seconda guerra mondiale,
Il 5 luglio 1950 il ventottenne Giuliano venne ritrovato morto nel cortile della casa di un avvocato di Castelvetrano: un comunicato del Comando forze repressione banditismo annunciò ufficialmente che era stato ucciso in un conflitto a fuoco avvenuto la notte precedente con un reparto di carabinieri alle dipendenze del capitano Antonio Perenze, un uomo del colonnello Luca. Sin dall'inizio apparvero però diverse incongruenze nella versione degli inquirenti sulla fine del bandito.
Il giornalista de L'Europeo Tommaso Besozzi pubblicò un'inchiesta sull'uccisione di Giuliano dal titolo Di sicuro c'è solo che è morto, nella quale mise in luce le incongruenze della versione data dai carabinieri sulla morte del bandito e indicò come assassino di Giuliano il suo sodale Gaspare Pisciotta[12].
Durante le udienze del processo per il massacro di Portella della Ginestra tenutosi a Viterbo, Pisciotta si autoaccusò dell'omicidio di Giuliano e incolpò anche i deputati monarchici Gianfranco Alliata di Montereale, Tommaso Leone Marchesano, Giacomo Cusumano Geloso e i democristiani Bernardo Mattarella e Mario Scelba di essere i mandanti della strage di Portella, dichiarando che costoro incontrarono Giuliano per mandarlo a sparare sulla folla[3]. Tuttavia la Corte d'Assise di Viterbo dichiarò infondate le accuse di Pisciotta poiché il bandito aveva fornito nove diverse versioni sui mandanti politici della strage[3]; come emerso dalla sentenza del processo di Viterbo, Pisciotta divenne confidente del Comando forze repressione banditismo (che gli fornì una tessera di riconoscimento che gli permetteva di circolare liberamente) e Giuliano fu da lui ucciso nel sonno nella casa di Castelvetrano dove si nascondeva; il cadavere sarebbe poi stato trasportato nel cortile della casa stessa, dove gli uomini del colonnello Luca e del capitano Perenze inscenarono una sparatoria per permettere a Pisciotta di fuggire e continuare così la sua opera di confidente sotto copertura[3].
Nel 1954 Pisciotta fu avvelenato nel carcere dell'Ucciardone con un caffè alla stricnina[3].

oltre  il  link  di wikipedia  d  che trovate  sotto   qui in questo interessante articolo   su  www.vittimemafia.it   un interessante    approfindimentocon le  varie versioni ( solo mafia ,  mafia con  refferenti  parlamentari     con servizi segret Usa ed  ex  fascisti   )




  Capocotta   spiaggia 

Ecco in sintesi  cosa  accade  L'11 aprile 1953 sulla spiaggia di Tor Vaianica, a sud di Ostia, viene trovato il corpo senza vita di una bella ragazza, Wilma Montesi( 1932-1953)  sparita da casa due giorni prima. Qualche mese più tardi un oscuro cronista, certo Silvano Muto, ipotizza che la ragazza non sia morta sulla spiaggia, ma in seguito ad assunzione eccessiva di stupefacenti durante una festa molto osé nella tenuta di Capocotta presso Castel Porziano, residenza abituale del marchese Ugo Montagna. Alla festa, scrive Muto, era presente anche Piero Piccioni, abituale accompagnatore della signorina nonché figlio del ministro democristiano Attilio Piccioni.Ulteriori dettagli  La spiaggia di Capocotta è la zona di litorale romano compresa tra il mare laziale, dal km 7,600 al km 10,100 della via Litoranea, e tra Castel Porziano e Torvaianica, . Esso  ebbe grande rilievo mediatico a causa del coinvolgimento di numerosi personaggi di spicco  della politica  dell'epoca   ,  e  segno secondo alcuni l'inizio della  crisi del  dominio  a senso  unico     ( 1947\8-1953 )   della  dc  , e  l'inizio   dell'apertura   che  si verificherà  negli anni   '60  dell'alleanza  Dc -Psi  .  Il caso risulta tuttora irrisolto, ivi compresa la causa del decesso della giovane.     per  chi volesse  approfondirlo e  saperne di più https://it.wikipedia.org/wiki/Caso_Montesi 

23.5.16

Chi ha ucciso Rino Gaetano? “, è il nuovo saggio di Bruno Mattone

Vediamo adesso come reagirà   la sorella di Rino    davanti ad ulteriori prove  che   mettono sepre  più  in crisi  la versione ufficiale  della  morte  di Rino  .

  da http://www.scomparsi.eu/rino-gaetano-fu-ucciso-documenti-lo-provano/


“Chi  ha ucciso Rino Gaetano? “, è il nuovo saggio di Bruno Mattone. Circa tre anni fa l’avvocato salernitano pubblicava un  libro dedicato a Rino Gaetano, il cantautore crotonese scomparso prematuramente all’età di 30 anni a seguito di un tragico sinistro stradale avvenuto a Roma il 2 giugno 1981. La pubblicazione del volume ha suscitato grande interesse e pure una polemica reazione di Anna Gaetano, sorella del cantautore, in ordine a due precipui punti. Una presunta affiliazione massonica di Rino Gaetano e la dinamica del’incidente mortale secondo Mautone fortemente sospetta al punto da ipotizzare che non fu legata al caso ma frutto di una deliberata pianificazione.

QUELLO STRANO INCIDENTE
Con il secondo volume Mautone ha portato una serie di riscontri documenti che indubbiamente riaprono le questioni rimaste insolute e che gli scettici hanno voluto liquidare frettolosamente come frutto di fantasia. Ed ecco che viene portato alla luce  del materiale oggettivamente interessante, infatti il legale salernitano ha scoperto addirittura  la esistenza di una interrogazione parlamentare rivolta il 4 giugno 1981  per iscritto al governo Forlani, in carica nel giugno 1981,  con la quale si chiede in via ufficiale e in sede politico-istituzionale  chiarimenti sulla drammatica morte di Rino Gaetano.
Bruno Mautone
Bruno Mautone
I due senatori Di Crollalanza, già ministro di Mussolini,  e Mitrotti invocano dall’Esecutivo risposte su quanto successo sulla via Nomentana e su cosa accadde effettivamente al Policlinico e nei vari ospedali coinvolti a vario titolo nella vicenda. La esistenza di tale documento ufficiale rappresenta un indubbio sostegno a quelle teorie che legano la morte dell’artista ad una macchinazione.
L’autore ha pure “scovato” la risposta, sopravvenuta con vari mesi di ritardo, fornita dall’Esecutivo, tramite il ministro della sanità dell’epoca, il liberale Altissimo (vicino, peraltro, ad ambienti massonici. Il dominus politico del PLI, ad esempio, era Valerio Zanone, politico affiliato alla massoneria). Ebbene nel saggio si rimarca la assoluta genericità della nota governativa di risposta fornita in Parlamento, ai limiti della omertà. Effettivamente non si chiariscono tantissime circostanze della drammatica vicenda, ad esempio non si precisa l’ora dell’incidente, chi allertò i soccorsi e come, perché intervenne una unica ambulanza in loco nonostante il camionista coinvolto svenne e rimase giacente sull’asfalto esanime e nello stesso tempo l’artista era immobilizzato nella sua automobile,non si precisa perché la unica ambulanza venuta sui luoghi era un mezzo poco attrezzato dei vigili del fuoco e perché  Rino, una volta prelevato con una gravissima ferita cranica, venne condotto fatalmente in un ospedale privo del reparto di traumatologia cranica. Non si fanno neppure i nomi dei medici che avrebbero curato o cercato di curare il ferito in gravi condizioni, non si fa nessunissimo cenno ai presunti motivi che spinsero altri ospedali, pur se allertati, a non approntare nessunissima forma di soccorso ulteriore al paziente in condizioni di estrema gravità.  Né si fa cenno su chi convocò medico- traumatologo, fatto venire da altro ospedale poiché al Policlinico non vi era il reparto, né a che ora sopraggiunse al Policlinico tale medico, né se ne precisano le generalità, così come non si indicano i nomi dell’anestestista\rianimatore che pure si dice fosse intervenuto.  In sostanza la risposta del Governo non forniva alcun chiarimento limitandosi ad una dozzinale nota burocratica destinata, per la evidente vaghezza,a moltiplicare i dubbi e gli interrogati sulla intera drammatica vicenda.   Tali riscontri documentali provano che sin dai primi momenti la morte prematura morte dell’artista calabrese suscitò interrogativi e dubbi. Ma nel libro la vicenda viene accostata ad un’altra morte prematura che colpì un caro amico di Rino, pure seguita ad un incidente stradale.
La copertina del libro
la  copertina del libro
                                                      


Tale persona lavorava in importanti uffici consolari-diplomatici a Roma e Mautone chiede alla Procura di Roma di riaprire le indagini non solo sulla morte dell’artista ma anche di tale suo caro amico che l’avvocato indica come coraggiosa fonte di tante notizie e fatti trasfusi altrettanto coraggiosamente nelle canzoni. Tra l’altro l’amico di Rino venne seppellito al Verano, così ristabilendo una vicinanza ideale già riscontratasi in vita e tuttavia vicende post mortem  danno delle inquietanti connotazioni a fatti illustrati. Infatti , senza nessunissima plausibile ragione, l’amico dell’artista viene disseppellito dopo pochissime settimane e portato in un altro cimitero di Roma. La vicenda già strana diventa ancora più oscura poiché l’autore dello spostamento dei resti mortali ha una identità che coincide con un personaggio  storico dello spionaggio italiano, collegato addirittura al Noto servizio segreto, cioè ad un apparato riservato dello stato che compiva atti di intelligence in modo autonomo rispetto ai Servizi istituzionali (prima il SID poi il SISMI e il SISDE), spesso sfociando in atti illegali e gravissimi. Specialità inquietante del Noto servizio segreto risultò essere, con atti sequestrati e acquisiti dalla magistratura, la uccisione di persone ritenute “scomode” con incidenti stradali!! Nel volume di Mautone sono indicati i nomi delle persone protagoniste delle illustrate vicende e riferimenti documentali e bibliografici di tutti gli avvenimenti.
UNA PRESUNTA AFFILIAZIONE MASSONICA
Nel volume l’avvocato salernitano ha raccolto le testimonianze dirette di due carissimi amici del cantautore, Mimì Messina, amico di infanzia e di scuola, frequentate assieme a Narni, e Franco Pontecorvi, addetto artistico e compagno assiduo di ogni tournèe e dei viaggi all’estero, entrambi hanno escluso in modo convintissimo che Rino fosse massone, così come lo ha escluso Anna Gaetano. Nel libro Mautone, quindi, perviene alla conclusioni che il cantante calabrese non fosse affiliato a qualsiasi loggia massonica e che riferimenti agli ambienti dei liberi  muratori fatti in via continua in vari brani e anche in interviste siano il frutto di un interesse da studioso e di interessato osservatore. Nel libro si rimarca una clamorosa dichiarazione rilasciata da Rino dopo i trionfi sanremesi al giornalista Manuel Insolera, il festival della canzone  viene paragonato in modo esplicito ad “un ordine massonico(!!). Sempre proseguendo nella sua opera di certosina ricerca Mautone dimostra  come la ventilata colleganza Rino Gaetano-Universo massonico non sia una tesi nata in questi ultimi anni. Infatti l’autore del saggio ha reperito un interessante articolo del 3 giugno 1981, quindi risalente al giorno appena successivo alla morte, pubblicato sull’importantissimo e diffuso quotidiano La Stampa nel quale esplicitamente e senza mezzi termini  testi gaetaniani vengono  rapportati a fatti inquietanti della p2, la famigerata loggia guidata dal Venerabile Licio Gelli.Quello che sconcerta è la identità del coraggioso giornalista che sul giornale dei bilderberghiani Agnelli ha stilato l’articolo, è una identità…misteriosa, infatti il notevole pezzo giornalistico è siglato solo da due lettere e il quotidiano di Torino, a richiesta esplicita  di Mautone, ha risposto che a distanza di 35 anni non è possibile risalire al nome e cognome poiché vari giornalisti si firmavano con sigle non corrispondenti alle proprie iniziali e  che poi mutavano frequentemente. Nel libro si rimarca, altresì, la singolare circostanza rappresentata da esplicite citazioni dedicate a Rino Gaetano da Stefano Bisi cioè il Venerabile Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia, la loggia massonica più potente della penisola, addirittura nel suo discorso di insediamento alla guida della potentissima obbedienza massonica. I versi di una misconosciuta e inedita canzone di Rino vengono fatti propri da Bisi per sottolineare che i dignitari massoni devono operare in unione e concordia per rafforzare il potere e la forza della loggia.
Sempre in tale quadro una notizia di grande interesse è rappresentata da una stretta frequentazione di Rino, precisamente nel cerchio delle sue più care amiche si annovera la giornalista Elisabetta Ponti figlio di un medico, Lionello Ponti, che risultò inserito  nella lista della P2. Ma il dr. Ponti non è un medico qualunque ma è addirittura il sanitario di fiducia di Licio Gelli, quindi a tutti gli effetti e in concreto la persona più in stretto contatto e in intimità col  Venerabile maestro piduista.  Elisabetta Ponti ha detto che dopo la pubblicazione della lista degli affratellati alla p2 parlò molto volte di massoneria con Rino e che l’artista, pur riferendo dei concetti alquanto indecifrabili, non espresse alcuna attenzione e\o interesse particolari per la fenomenologia massonica. In realtà tale ricostruzione della Ponti, forse per il gran tempo trascorso, non risulta plausibile. Infatti Rino morì appena 10 giorni dopo la pubblicazione della lista della p2 e in un lasso di tempo così ristretto non era possibile che avesse potuto parlare “molte volte” di massoneria con la Ponti, oltretutto impegnato come era, fino all’ultimo,  nella sua frenetica attività artistico-canora.
I CONTENUTI DELLE CANZONI
Nel volume si sottolineano pure i tanti mirabili significati dei testi gaetaniani, dimostrandosi che l’artista faceva trapelare le proprie cognizioni, frutto di fonti di alto profilo,  di fatti e personaggi. Ad esempio Mario e Gino de La Berta Filava  non sono due baristi della RCA come taluni riduttivamente hanno sostenuto,ma indicano i ministri Mario Tanassi e Gino (Luigi) Gui.   Infatti nel 1976, anno in cui venne inciso il brano, l’artista non era nella casa discografica RCA ma cantava ancora per la IT di Vincenzo Micocci. Inoltre Rino in vari concerti, compreso quello immortalato in una registrazione “storica” a San Cassiano, in Puglia, dichiara esplicitamente che il brano è dedicato al mondo dei grossi politici ed altri enigmatici mondi, quindi conferma che il brano non è assolutamente rapportato alla figura di …due baristi. Inoltre anche un altro coraggioso, per quanto più controverso, testimone di quegli anni scrive in una propria filastrocca di Mario, Gino e Berto e accosta tali suoi versi allo scandalo Lockheed e fa coincidere, per sua stessa ammissione,  le identità di Mario e Gino con le figure politiche di Mario Tanassi e Gino (Luigi) Gui.
Sempre in modo minimalistico taluni hanno individuato il Cazzaniga nominato in Nuntereggaepiù in un giornalista sportivo non certo passato alla storia per chiarezza di argomenti e acume nei commenti.  In realtà Mautone evidenzia che si tratta di Vincenzo Cazzaniga, già amministratore delegato della Esso Italia e poi vice-presidente della Bastogi un carrozzone pubblico, oggi non più esistente, che si interessava di energia e costruzioni. Tale Vincenzo Cazzaniga risulto essere un collaboratore dei Servizi americani e per conto degli USA finanziava segretamente la DC in chiave anti-sinistra. Ebbene in Nuntereggaepiù Rino, mostrando ancora una volta di avere conoscenza di fatti assai riservati, canta DC DC DC DC CAZZANIGA….  mostrando di sapere il ruolo occulto che quest’ultimo rivestiva, cioè di finanziatore segreto della Democrazia Cristiana. A ulteriore dimostrazione che si tratta di Vincenzo Cazzaniga, posto alla direzione della Bastogi, sotto l’ala protettiva quanto asfissiante di Giulio Andreotti e di Eugenio Cefis, supermanager del mondo energetico,vi è una intervista di Rino Gaetano ove nomina esplicitamente la BASTOGI di Vincenzo Cazzaniga, rispondendo in maniera del tutto avulsa ad una domanda di musica che gli pone un giornalista.
Ma sono innumerevoli i casi ove Rino mostra di avere notizie di fatti inquietanti, e nello stesso tempo li svela in modo geniale inserendoli in contesti musicali apparentemente ironici ed allegri. In Mio Fratello è figlio unico  menziona il treno Taranto-Ancona, cioè il convoglio e tratto ferroviario che qualche anno dopo emerse essere sotto controllo dei servizi segreti deviati. Infatti due ufficiali dei servizi segreti, “fratelli” affiliati alla p2, Belmonte e Musumeci, furono condannati per aver architettato  sul treno Taranto-Ancona falsi attentati per confondere le indagini della magistratura sui drammatici e purtroppo reali attentati ai treni avvenuti in Italia attorno alla metà degli anni settanta.
Anche i riferimenti allarmati  in  taluni brani rivolti ad una “rosa” nonchè allusioni altrettanto allarmate ad un “pugnale USA”  sono altri geniali riferimenti a fatti inquietanti di cronaca politica e giudiziaria contemporanei al cantautore, infatti Rino, tra le righe, richiama vicende giudiziarie di pericolosissime associazioni riservate quali la “Rosa dei venti” e “Gladio” (come è noto un lungo pugnale, una piccola spada).
Con il secondo saggio Mautone ha avuto e trovato conferme documentali alle  ipotesi che aveva lanciato nel primo libro e in ogni caso dimostra che le questioni da lui sollevate non erano il frutto avvelenato di una immaginazione  galoppante ma avevano già trovato origine e dibattito sin da primo giorno della morte di Rino Gaetano, pur occultate da organi di stampa “distratti” se non proprio colpevolmente silenti.

7.3.15

«La strategia della tensione? In Italia continua, ecco come»

40 anni   - Modena city ramblers  60  anni  - Talco

Lo so  che    le  due   canzoni  "  simbiotiche "  che propongo come colonna sonora    è nota  e  stra nota  meglio  ovvia  \  scontata   da  chi s'interessa   e segue sempre   questi fatti  ma    non ne  ho trovato altre 
 


http://it.wikipedia.org/wiki/Strategia_della_tensione_in_Italia
http://it.wikipedia.org/wiki/Strategia_della_tensione
http://www.misteriditalia.it/strategiatensione/
http://www.treccani.it/enciclopedia/strategia-della-tensione_%28Dizionario-di-Storia%29/http://www.rivistapaginauno.it/Strategia-tensione-tecnica-governo.php

molti   leggendo questo post  mi dirann che  sono complottista  senza  entrare  nel dettaglio   .   Allora  chiedo   a queste persone     di spiegarmi sia  la  2   notizia  sotto riportata presa  da una fonte  non per  usare una loro sarcastica espressione " comunista  " .


A  distanza    di  quasi  23  anni   sembrava  che tale fenomeno  vedere  link  sopra    fosse  finito  con il crollo dell'ex  Urss   nel  lonrtano  1989-1992  e  che   l'articolo (  vedere url sopra   oppure    http://www.rivistapaginauno.it/ )  del 2010   fosse  solo  qualcosa  di  eventi passati alla storia .  Invece  esso   continua  come ha detto   Imposimato  a  Sassari   quialche  giorno fa  da   la nuova  sardegna del 4\3\2015

A Sassari Ferdinando Imposimato, il giudice che ha indagato su molti misteri Il ruolo della Sardegna: da Gladio a “lavatrice” dei soldi sporchi delle mafie

                                            di Francesco Bellu 
La verità ha un colore. Quello nero dell’inchiostro delle carte processuali, dei documenti secretati, degli “omissis” tra le righe. E ha il colore rosso del sangue dei tanti morti che hanno costellato la nostra storia più recente. Una geografia dell’insoluto che va da Portella della Ginestra, passa per piazza Fontana, piazza della Loggia, via Fani e arriva sino all’altro ieri con le stragi di Capaci, via d’Amelio e Brindisi

La scena del rapimento di Aldo Moro, in via Fani, a Roma



Ferdinando Imposimato  ( sotto a destra  )   ha passato buona parte della sua vita a riannodare i fili spezzati di tutte queste vicende attraverso un lavoro che mescola l’acume dell’uomo di legge all’analisi dello storico.
«In primisque hominis est propria veri inquisitio atque investigatio», ovvero: «Innanzi tutto è propria dell’uomo l’indagine e la ricerca del vero». Cita più volte una frase del “De Officiis” di Cicerone che riassume più di ogni altra il senso stesso del suo lavoro che si è coagulato poi in una serie di libri che hanno cementificato nelle pagine la sua ricerca della verità.
Il magistrato era ieri a Sassari per una lectio magistralis agli studenti del Dipartimento di scienze umanistiche e sociali dell’università di Sassari. Linea guida uno dei suoi ultimi libri: “La Repubblica delle stragi impunite” in cui Imposimato ricostruisce, dati alla mano, i capitoli più oscuri d’Italia.
Vicende apparentemente scollegate tra loro che trovano però un collante solidissimo. «Le stragi del terrorismo rosso, nero, mafiose hanno un obiettivo comune. – spiega – Assecondare i disegni della politica, rafforzando il potere politico esistente». Per certi versi, i protagonisti di quegli anni sembrano quasi fantasmi di un'Italia che molti, soprattutto i più giovani, vedono come incomprensibile. E non solo per una mera questione anagrafica ma anche perché è oggettivamente difficile districarsi in una matassa di trame oscure, servizi deviati, fascisti, anarchici, tritolo e pistole.
Ma le parole di Imposimato riescono a dare un quadro ben preciso: «La strategia della tensione è frutto di un disegno preciso di destabilizzazione del Paese per scoraggiare l’instaurarsi di governi in accordo con la Sinistra, in cui dietro è chiaramente visibile la mano degli Stati Uniti e in sostanza di Gladio».
Il sequestro e l’omicidio di Aldo Moro sono il culmine di questa azione di cui tutt’ora ci portiamo dietro il peso. È grazie, infatti, al suo lavoro che è stata nuovamente aperta un’inchiesta dalla Procura di Roma per cercare di diramare una volta per tutte le nebbie da questa storia. Ripercorre i giorni concitati dell’agguato in via Fani delle Brigate Rosse, con la presenza di “barbefinte” che dovevano controllare che nessuna intrusione esterna creasse problemi e di come il covo di via Montalcini, in cui l'esponente della Democrazia Cristiana era tenuto prigioniero, fosse noto ai rappresentanti delle forze di polizia sin dal primo momento e che nessuno dall'alto volle disporre un intervento, sino alla sua morte decisa per una precisa “ragione di Stato”.
Se tutto ciò non fosse avvenuto, sottolinea: «L’Italia sarebbe cambiata in meglio, perché Moro era il più grande statista che abbiamo avuto dalla nascita della Repubblica».
E il futuro? Per Imposimato è ancora in bilico, perché quando gli si chiede se la strategia della tensione sia ancora in atto o sia finita definitivamente risponde senza esitare: «È ancora in atto».
Ha anche parole sulla Sardegna, tutt’altro che avulsa dai misteri d’Italia in quanto pedina fondamentale nello scacchiere mediterraneo nella logica del patto atlantico per via della presenza di Gladio a Poglina vicino a Capo Marraggiu ad Alghero.
L’isola, sostiene il magistrato, conferma il suo ruolo di “lavatrice” del malaffare della criminalità organizzata, come recentemente è stato evidenziato anche dalla Dia di Cagliari. «Non mi meraviglia. – spiega Imposimato - Lo è sempre stato sin dagli anni Ottanta, quando la Banda della Magliana veniva qui a ripulire il suo denaro, frutto dell’attività di commercio della droga, in immobili sulla costa. Tutto ciò è stato ampiamente provato e le indagini di questi giorni dimostrano che non c’è stata soluzione di continuità rispetto al passato».
« La Sardegna – continua – è un posto più agevole rispetto ad altri, meno controllato. Il che non significa che il lavoro delle forze dell’ordine sia insufficiente, ma è sicuramente una zona più defilata rispetto ad altre che fa sì che sia più semplice aprire società che possano coprire questi affari illeciti».

  Roma è un crocevia di spie provenienti da tutti i paesi del mondo. Agenti segreti, infiltrati e sotto copertura si aggirano, più o meno identificati, facendo la spola tra le ambasciate, le sedi istituzionali, le organizzazioni umanitarie che costellano la Capitale e lo Stato del Vaticano. Un centro di interessi politici ed economici che ha davvero ben pochi rivali. Qualcuno forse sfugge o è sfuggito, alle operazioni di controspionaggio della nostra intelligence. Altri, probabilmente, sono monitorati. Altri ancora, come in ogni spy story che si rispetti, si dileguano nel nulla e risultano come mai esistiti. La vicenda del nordcoreano Kim Su-Gwang, con tutti i suoi alias, scoperta da Il Foglio, è solo una parte della complessa e fitta rete di spie che si muove nel nostro paese. Al momento, infatti, l'attenzione sarebbe rivolta anche ad un gruppo di iraniani che vivono a Roma e di cui le vere attività non sono molto chiare. Già dagli anni '80, infatti, i servizi segreti iraniani operano nella Capitale sotto mentite spoglie, che spesso possono essere anche quelle di giornalisti. Nei fatti, però, sono dei veri e propri informatori che hanno accesso a numerosi luoghi e tessono infinite relazioni. In particolare questo gruppo eserciterebbe un'attività di spionaggio contro i dissidenti dell'Iran che vivono nel nostro paese, i mujihadden e khalk (Mek). Più di una volta, infatti, i presunti giornalisti iraniani sono stati notati, durante le manifestazioni di piazza dei Mek, in atteggiamenti insoliti. Un gioco sottile quanto pericoloso, che disegna però una trama di spionaggio cheè radicata da anni. In passato, inoltre, fu scovato anche un gruppo di spie russe, mai perseguiti anche se segnalati alla polizia giudiziaria. All'interno delle organizzazioni umanitarie, poi, secondo fonti investigative, si trova il più grande ricettacolo di agenti sotto copertura che, grazie a qualcosa di molto simile alle immunità diplomatiche, riescono ad arrivare e vivere in Italia, anche per lunghi periodi, operando come vere e proprie spie.
Tornando al nordcoreano, alcune fonti intelligence specificano che Su-Gwang «era noto ai nostri servizi già dal 2003». La sua condizione di funzionario del World Food Program, che gli concedeva una immunità diplomatica come per altri esponenti delle agenzie Onu, sarebbe stata una copertura per raccogliere informazioni sui programmi nucleari di altri paesi. L'Italia, spiega ancora la fonte, «non essendo un paese che sviluppa tale attività non poteva rappresentare una fonte diretta di informazioni. Da Roma, invece, Kim poteva accedere a notizie che riguardavano altri Stati». Ad ogni modo la prima segnalazione della nostra intelligence sarebbe pervenuta agli inizi del 2004, quando i nostri 007 hanno comunicato agli Stati Uniti il profilo equivoco del personaggio. Da quel momento in poi, Su-Gwang sarebbe finito sotto stretta osservazione «per ricostruire la sua fitta rete di relazioni». Il sospetto era che la spia nordcoreana si occupasse dell'acquisto di tecnologia e componenti per il programma nucleare del suo paese. Una vera spy story che vorrebbe l'uomo, ormai scomparso dagli scenari europei, una chiave di volta per il monitoraggio dei rapporti tre le due Coree, ma anche per lo sviluppo del programma nucleare. Tra il 2004 e il 2008 ad occuparsi della vicenda sarebbe stata proprio la struttura operativa preposta al contrasto dei programmi di proliferazione nucleare del Sismi, gestita dall'attuale direttore dell'Aise, Alberto Manenti. Una spia nota, dunque, che però non è stata mai perseguita. "Era utile monitorarlo", spiega ancora la fonte, anche perché "non era un vero e proprio spionaggio a danni del nostro paese». Meglio, dunque, mandare ogni anno un report dettagliato su Kim agli americani. Un equilibrio precario, dunque, che va di pari passo con la scomparsa della spia, residente a Roma fino a gennaio di quest'anno. In questo giro di servizi segreti entra anche la Francia, che nel 2014 ha congelato i beni di Kim Su-Gwang, della sorella e del padre, per molti anni residente a Parigi, perchè appartenenti ai servizi segreti di Pyongyang, sottoposti a sanzioni economiche da parte dell'Unione Europea. Nonostante le sanzioni della Francia l'uomo ha continuato a lavorare a Roma per un altro anno. «Ha fatto il doppio gioco - spiega la fonte - ecco perché i servizi francesi lo hanno incastrato

23.6.13

Un brigadiere sardo: «Moro, la verità» Caso riaperto. Il racconto: «Stavamo per liberarlo, una telefonata ci fermò e poi lo uccisero»


  Questo articoli    che costituiscono il post  d'oggi  .  tratti  dalla  nuova  sardegna  del  23\6\2013 , costituiscono una sorta di  mia  rivincita     verso chi mi dice  : <<  sei complottista .,  leggi  troppi siti   , letteratura  e fumetti  noir  \  gialli .,  lavori troppo di fantasia  , vedi misteri  ovunque , oppure   mi dicono  sei un  po'  matto , ecc  o mi fanno  delle parodie  come  questa la  lunga notte dell'ispettore scaneau  >>
Ma  io me ne  frego  perchè  il matto : 

(...) 

Di cause perse
E di buoni motivi
Il matto arriva con le pezze al culo
E se ti vede ti tende la mano
Il matto parla con lo sguardo perso
Sogna forte
E vede lontano
Il matto parla e grida e scherza
E ti guarda, poi ride di gusto



Ma  ora   bado alle  ciancie   ed  eccovi   gli articoli in questione  buona lettura  



Finanziere sardo: una telefonata fermò il blitz per liberare Moro
La palazzina di via Montalcini era controllata dai servizi segreti dalla metà di aprile del 1978
Le teste di cuoio dovevano entrare in azione l’8 maggio, 24 ore dopo le Br uccisero il presidente dc


di Piero Mannironi
 ROMA



Le clamorose rivelazioni di un ex finanziere sardo e di un gladiatore che faceva l’istruttore a Poglina
riaprono il “caso Moro”. I due hanno raccontato  che la prigione del presidente della Dc in via  Montalcini era stata identificata e messasotto  controllo. Ma l’8 maggio 1978 il blitz per liberare Moro fu bloccato da una telefonata arrivata dal Viminale. Il giorno dopo le Brigate Rosse assassinarono
lo statista dc. L’ex magistrato Ferdinando Imposimato, che aveva istruito le inchieste sul rapimento
Moro e che ha raccolto queste testimonianze,ha presentato un esposto alla procura della Repubblica di Roma che ha riaperto il caso.
Le sentenze non scrivono la storia e tanto meno le storie possono chiudersi con una sentenza. Perché ci sono verità che restano nascoste in fondo a bui abissi, protette dalla paura di chi sa e dal cinismo di poteri che non vogliono farle emergere. Così è per il sequestro e la morte del presidente della Democrazia cristiana Aldo Moro, avvenuta il 9 maggio del 1978. Vicenda scritta dalla ferocia delle Brigate Rosse, ma forse anche da oscuri burattinai che sono rimasti finora nell'ombra. Dunque, una storia che ancora nasconde nelle sue pieghe torbide presenze e regie occulte che inchieste e processi non sono riusciti a svelare. Ma il tempo corrompe le complicità, modifica gli scenari e affranca le coscienze.Così,dopo 35 anni, è possibile che la storia della morte di Moro possa essere riscritta, liberata dalle catene del silenzio e dei depistaggi.Nei giorni scorsi la procura della Repubblica di Roma ha infatti riaperto il caso, in seguito alla presentazione di una denuncia che propone una sconvolgente ipotesi: la prigione di Moro, in via Montalcini 8  ( foto sottoa  destra  )  ,  a Roma, era stata individuata dai servizi segreti e da Gladio e controllata per settimane.
 Non solo: l'8 maggio del 1978 lo statista Dc che sognava di cambiare la politica italiana doveva essere liberato con un blitz delle teste di cuoio dei carabinieri e della polizia, ma una telefonata dal Viminale bloccò tutto.La Renault rossa. E il giorno dopo Moro fu ucciso. Il suo cadavere fu fatto ritrovare nel portabagagli di una Renault rossa in via Caetani. In quel momento la storia italiana deragliò da un percorso progettato da Moro e dal suo amico-nemico Berlinguer,tornando nello schema ortodosso della politica dei blocchi e incamminandosi poi verso un tragico declino morale. Per la procura romana impossibile sottovalutare quell' esposto. Perché a redigerlo e depositarlo è stato Ferdinando Imposimato, oggi avvocato,ma soprattutto presidente onorario aggiunto della suprema corte di Cassazione e in passato magistrato che ha seguito alcune
tra le più complesse e importanti inchieste della storia del Paese. Come quelle sul sequestro-omicidio di Aldo Moro.
A fornire a Imposimato la chiave che ha consentito di aprire questa nuova porta sul caso Moro è stato un sardo,Giovanni Ladu che ha oggi 54 anni.Un brigadiere della guardia di finanza in servizio a Novara che, nel 1978, era militare di leva nel corpo dei bersaglieri e fu testimone della decisione che condannò a morte Moro. Imposimato conobbe Ladu nell'ottobre del 2008. Si presentò nel suo studio all'Eur insieme a due colleghi, autorizzato  dal suo comandante. Aveva scritto un breve memoriale nel
quale sosteneva di essere stato,con altri militari a Roma, in via Montalcini per sorvegliare l'appartamento-prigione in cui era tenuto il presidente della Democrazia cristiana. Un appostamento cominciato il 24 aprile 1978 e conclusosi l'8 maggio, alla vigilia dell'omicidio di Moro.
Perché Ladu aveva atteso ben 30 anni prima di parlare? «Avevo avuto la consegna del silenzio e il vincolo al segreto - disse -, ma soprattutto avevo paura per la mia incolumità e per quella di mia moglie. La decisione di parlare mi costa molto,ma oggi spero che anche altri,tra quelli che parteciparono con me all'operazione trovino il coraggio di parlare per ricostruire la verità sul caso Moro ».


Nome in codice: Archimede. Ladu raccontò così che il 20 aprile del 1978 era partito dalla Sardegna
per il servizio militare.Destinazione: 231° battaglione bersaglieri Valbella di Avellino. Dopo tre giorni, lui e altri 39 militari di leva, furono fatti salire su un autobus, trasportati a Roma e alloggiati nella caserma dei carabinieri sulla via Aurelia,vicino all'Hotel Ergife. Furono divisi in quattro squadre e istruiti sulla loro missione:sorveglianza e controllo di uno stabile. A tutti i militari fu attribuito uno pseudonimo: Ladu diventò “Archimede”. Lui e la sua squadra presero possesso di un appartamento in via Montalcini che si trovava a poche  decine di metri dalla casa dove, dissero gli ufficiali che coordinavano l'operazione,«era tenuto prigioniero un uomo politico che era stato rapito ». Il nome di Moro non venne fatto, ma tutti capirono. Il racconto di Ladu era ricco di dettagli: controllo visivo 24 ore su 24, microtelecamere nascoste nei lampioni, controllo della spazzatura nei cassonetti.
Per mimetizzarsi indossavano tute dell'Enel o del servizio di nettezza urbana. Così controllarono gli spostamenti di "Baffo" (poi riconosciuto come Mario Moretti) che entrava e usciva sempre con una valigetta o  della "Miss" (Barbara Balzerani). Un giorno Ladu fu inviato con un commilitone a verificare l'impianto delle telecamere all'interno della palazzina dove era detenuto Moro. Era vestito
da operaio. Invece di premere l'interruttore della luce, il brigadiere sardo suonò il campanello. Aprì la "Miss" e Ladu improvvisò con prontezza di spirito, chiedendo se era possibile avere dell'acqua.
Il piano di evacuazione. Il racconto era agghiacciante nella sua precisione. Nell'appartamento sopra la prigione di Moro,poi, erano stati piazzati dei microfoni che captavano le conversazioni. La cosa che stupì Ladu era che il personale addetto alle intercettazioni parlava inglese. «Scoprimmo in seguito
- ricordò - che si trattava di agenti segreti di altre nazioni, anchese erano i nostri 007 a sovrintendere a tutte le operazioni ». Altri particolari: era stato predisposto un piano di evacuazione molto discreto per gli abitanti della palazzina ed era stata montana una grande tenda in un canalone vicino, dove era stata approntata un'infermeria nel caso ci fossero stati dei feriti nel blitz delle teste di cuoio.
«L'8 maggio tutto era pronto - disse ancora Ladu - , ma accadde l'impensabile. Quello stesso giorno, alla vigilia dell'irruzione,ci comunicarono che dovevamo preparare i nostri bagagli perché abbandonavamo la missione. Andammo via tutti, compresi i corpi speciali pronti per il blitz e gli agenti segreti.
Rimanemmo tutti interdetti perché non capivamo il motivo di questo abbandono.La nostra impressione fu che Moro doveva morire».
Nella caserma dei carabinieri sull'Aurelia Ladu raccontò di aver sentito dire da alcuni militari dei corpi speciali che tutto era stato bloccato da una telefonata arrivata dal ministero dell'Interno. Mentre smobilitavano,un capitano intimò al brigadiere sardo: «Dimenticati di tutto quello che hai fatto in questi ultimi 15 giorni».
“Brillantina Linetti”. Successivamente, seguendo una trasmissione in tv, Ladu riconobbe uno degli ufficiali che coordinavano l'operazione: era il generale Gianadelio Maletti (ex capo del controspionaggio del Sid ) che i militari avevano soprannominato, per la sua pettinatura, "Brillantina Linetti".Imposimato rimase inizialmenteolto perplesso e diffidente.Il racconto di Ladu sconvolgeva
tutte le esperienze investigative precedenti, ne annullava tutte le certezze e, soprattutto,poneva un problema terribile: bloccando il blitz,qualcuno aveva decretato la morte di Aldo Moro. Per quattro
anni, così, quel racconto rimase sospeso, in attesa di conferme e riscontri. Fino a quando non comparve il gladiatore Oscar Puddu. Con lui il quadro di quei giorni drammatici del 1978 sembrò completarsi e trovare una nuova credibilità. Nel mentre, Imposimato aveva conosciuto i gladiatori sardi Arconte e Cancedda e sentito i loro sconvolgenti racconti sul caso Moro. Confermavano che nel mondo dei servizi segreti si sapeva dell’imminente sequestro di Moro.
Giovanni Ladu, poi, non aveva e non ha alcun interesse a risvegliare i fantasmi che popolano uno dei fatti più oscuri della vita della Repubblica. Lui, soldato di leva in quel 1978, venne proiettato in un
universo sconosciuto del quale sapeva poco o nulla. La scelta del Sismi di utilizzare questo manipolo di ragazzi era originata dal fatto che, vista l’età, erano meno visibili, meno sospettabili da parte dei terroristi. Ladu, dopo aver parlato con Imposimato, fu poi interrogato il 9 settembre 2010 dal pm romano Pietro Saviotti.Lo stop a Dalla Chiesa. Resta da capire, a questo punto, chi fece quella telefonata che condannò a morte Aldo Moro. Chi poteva ordinare al generale Musumeci,coordinatore dell’operazione Moro, di fermare tutto?L’unica risposta possibile è:Cossiga e Andreotti. Uno ministro
dell’Interno e l’altro presidente del Consiglio. D’altra parte, la fatidica telefonata arrivò dal Viminale. Poi, sempre secondo quanto ha raccontato il gladiatore Oscar Puddu, il generale dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa insisteva per il blitz, ma fu bloccato da Andreotti e da Cossiga. Lo convocarono
a Forte Braschi, la sede del Sismi, e lo redarguirono duramente.


  e sempre  dallo stesso  giornale parlano  : il  giudice  imposimato  ,  e   due  gladiatori  (   Oscar Puddu era istruttore di elettronica nella base di Gladio a Poglina Lavorò nella centrale di intercettazione e allestita sopra l’appartamento-prigione   e   l’agente Antonino Arconte noto  G-71  ) 

 Ferdinando Imposimato: «Quei sardi
così leali con le istituzioni vanno premiati» 
Il vecchio vizio non lo ha mai abbandonato. Lui, Fernando Imposimato (nella foto),oggi avvocato penalista, non ha mai tradito la sua vera natura di investigatore acuto e di talento. Come magistrato ha cercato di penetrare in alcuni dei più oscuri misteri italiani: dall'attentato al Papa Giovanni Paolo II al sequestro-omicidio Moro. Della morte dello statista democristiano pensava di sapere tutto quello che era possibile sapere, dopo aver scandagliato i meandri del terrorismo e studiato lo scenario internazionale dove erano tanti i nemici di Aldo Moro. Come il potentissimo Henry Kissinger, ma anche il Kgb sovietico che gli aveva messo alle costole il capitano Feodor Sergey Sokolov. Imposimato, nel suo straordinario libro "I 55 giorni che hanno cambiato l'Italia", ricorda così la terribile confessione del braccio destro di Kissinger, Steve Pieczenik, che faceva parte del comitato di crisi parallelo, organizzato dall'allora ministro dell'Interno Francesco Cossiga: «Sono stato io, lo confesso, a preparare la manipolazione strategica che ha portato alla morte di Aldo Moro. Allo scopo dì stabilizzare la situazione italiana. Le Brigate rosse avrebbero potuto rilasciare Aldo Moro e così avrebbero senza dubbio conquistato un grande successo, aumentando la loro legittimità. Al contrario, io sono riuscito con la mia strategia, a creare una un'anime repulsione contro questo gruppo di terroristi e allo stesso tempo un rifiuto verso i comunisti. Il prezzo da pagare è stata la vita di Moro.». Imposimato ha così condotto una nuova inchiesta e le conclusioni sono diventate lo scheletro dell'esposto che ha presentato alla procura della Repubblica di Roma. Giovanni Ladu, Oscar Puddu, Nino Arconte, Pier Francesco Cancedda. Tutti sardi. Hanno avuto un ruolo fondamentale nella riapertura del caso. Di loro Imposimato dice: «Questi sardi, così leali alle istituzioni, mi hanno riconciliato con la speranza. Hanno affrontato rischi gravissimi per onorare la loro fedeltà allo Stato. Proporrò che venga concesso loro il premio Emanuela Loi».

 Oscar Puddu era istruttore di elettronica nella base di Gladio a Poglina
Lavorò nella centrale di intercettazione allestita sopra l’appartamento-prigione 
Microfoni e microcamere
per spiare i terroristi
ROMA La svolta arrivò alle 15,35 del 13 settembre 2012 con una e-mail firmata con il nome fittizio Oscar Puddu. Il misterioso personaggio aveva appena letto il libro-inchiesta di Imposimato "Doveva morire" e proponeva all'ex magistrato notizie sul caso Moro, che aveva appreso per esperienza diretta. Questo l'identikit che Puddu fece di se: ufficiale dell'Esercito, nato a Gorizia, istruttore per quattro anni nella base segreta di Gladio a Poglina, vicino ad Alghero. Esperto di elettronica. Imposimato mostrò inizialmente una grande diffidenza verso questo personaggio senza volto che, «per motivi di sicurezza», preferiva restare nascosto dietro uno pseudonimo. Poi, sentendo il suo racconto che coincideva in modo incredibile con quello fattogli 4 anni prima dal brigadiere Giovanni Ladu, sospettò perfino che si trattasse della stessa persona. Ecco, in estrema sintesi, cosa disse Puddu. Quattro giorni dopo l'agguato di via Fani fu spostato da Poglina a Roma, prima nella caserma di forte Boccea, poi a Forte Braschi, sede del servizio segreto militare. Il suo corpo di appartenenza era il Sismi, ma faceva parte anche della struttura supersegreta Gladio. Per le sue conoscenze di elettronica, Puddu veniva chiamato in codice "Sapienza". Il racconto di Ladu veniva drammaticamente confermato in ogni dettaglio. Il covo delle Br in via Montalcini era circondato e controllato. A capo delle operazioni c'erano il direttore del Sismi Giuseppe Santovito, il suo braccio destro Pietro Musumeci e il generale Gianadelio Maletti. Nell'appartamento sopra la prigione di Moro le apparecchiature elettroniche di intercettazione e le microcamere erano gestite da uomini delle Sas inglesi e del Bnd tedesco, ma anche gli uomini di Gladio si alternavano all'ascolto. Il giorno prima del blitz programmato, che doveva essere attuato da otto uomini del Gis dei carabinieri, arrivò l'ordine di smobilitazione. «Sconcerto» è la parola che il gladiatore usò per definire lo stato d'animo degli 007 italiani e stranieri coinvolti nell'operazione. Alla domanda di Imposimato su chi fosse andato nella sede del Sismi a Forte Braschi durante il periodo di controllo in via Montalcini, il gladiatore Puddu rispose: Andreotti e Zaccagnini. Cossiga no, ma, aggiunse, che era sempre presente un uomo di fiducia dell'ex presidente della Repubblica, nome in codice “Aquila”. Si tratterebbe del sottosegretario all’Interno Nicola Lettieri. I pezzi del mosaico andavano così tutti al loro posto. I racconti di Ladu e di Puddu si completavano a vicenda. Ma, incredibilmente, c'erano anche altre tessere prima non capite che trovavano finalmente un posto e una congruenza. Come l'incontro tra Imposimato e un ex carabiniere, tale Alfonso Ferrara, che il 3 settembre 2009 lo avvicinò durante la presentazione di un libro. Ferrara raccontò che nel maggio 1978 era giunto da Milano a Roma con altri commilitoni per liberare il presidente della Dc. «Arrivammo quasi nell'androne delle scale dove era la prigione di Moro - disse - quando ricevemmo l'ordine di tornare indietro. Moro era ancora vivo. Il giorno dopo l'hanno ucciso». Ferrara faceva parte dei reparti speciali creati dal generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Che quindi sapeva tutto, visto che i suoi uomini erano coinvolti nel blitz in via Montalcini. Imposimato riferisce poi una quarta storia, parallela a quelle di Ladu, Puddu e Ferrara, secondo la quale dell'operazione facevano parte anche i Nocs della polizia. L'apprese dal giornalista Pino Nicotri che gli parlò del racconto fattogli nell'agosto 1993 da un docente gesuita. Un suo allievo si era arruolato in polizia e poi era entrato nelle teste di cuoio dei Nocs. Al suo ex professore e padre spirituale aveva raccontato che erano arrivati alla casa vicina a quella dove stava Moro. Erano ad appena 20 metri quando ricevettero l'ordine di fermarsi. Il poliziotto era rimasto tanto schifato che si era dimesso dalla polizia. In conclusione, il mosaico ricomposto da Imposimato pone interrogativi inquietanti e rilancia la tesi del complotto. E cioè che Moro poteva essere salvato. Anzi, stava per essere liberato, ma qualcuno decise di fermare tutto, condannando a morte il presidente della Dc. Il lavoro della procura di Roma riprende da qui. (p.m.)


Ordine al colonnello Giovannone: chiedere ai palestinesi di far pressione sulle Br 
Il viaggio a Beirut dell’agente G-71
SASSARI In alcuni ambienti dei servizi segreti si sapeva che il presidente della Dc Aldo Moro sarebbe stato sequestrato dalle Brigate rosse. Sicuramente la notizia era arrivata alla struttura super segreta Gladio, che si attivò subito per affrontare e gestire la crisi. La prova è nel racconto del super agente
Antonino Arconte, oggi 59enne, sardo di Cabras, nome in codice G-71  (  foto  a  sinistra  )  . «Partii dal porto della Spezia il 6 marzo 1978, a bordo del mercantile Jumbo Emme. Sulla carta era una missione molto semplice: avrei dovuto ricevere da un nostro uomo a Beirut dei passaporti che avrei poi dovuto consegnare ad Alessandria d'Egitto. Dovevo poi aiutare alcune persone a fuggire dal Libano in fiamme, nascondendole a bordo della nave. Ma c'era un livello più delicato e più segreto in quella missione. Dovevo infatti consegnare un plico a un nostro uomo a Beirut. In quella busta c'era l'ordine di contattare i terroristi palestinesi per aprire un canale con le Br, con l'obiettivo di favorire la liberazione di Aldo Moro». E qui, ecco il mistero: il documento è del 2 marzo '78 e viene consegnato a Beirut il 13. Moro verrà rapito dalle Br il 16. Cioè, nel mondo sotterraneo degli 007 qualcuno si mosse per liberare il presidente della Dc, prima del rapimento. Quindi, si sapeva che Moro sarebbe stato sequestrato. Arconte non conosce i retroscena. «Per me è un mistero. Io dovevo solo effettuare la consegna. D'altra parte, il mio lavoro era quello di fare da istruttore militare. Addestravo "ribelli" e profughi in zone calde. Soprattutto in Africa». Arconte consegnò a Beirut il 13 marzo 1978 il documento “a distruzione immediata” al gladiatore G-219. Il destinatario finale del plico era il gladiatore G-216. Il primo era il colonnello Mario Ferraro, passato poi al Sismi, che venne trovato impiccato a un portasciugamani nella sua abitazione romana, nel 1995. Una morte molto strana, archiviata come suicidio, ma che non ha mai convinto i familiari dello 007. G-216, invece, è il colonnello Stefano Giovannone, capocentro dei servizi segreti militari italiani in Medio Oriente. Giovannone, conosciuto tra le "barbe finte" come “Stefano D'Arabia” o come “Il Maestro”, era, guarda caso, un uomo fidatissimo di Aldo Moro, del quale condivideva la linea filopalestinese. E dalla prigione delle Br Moro chiese l'aiuto di Giovannone. Scrivendo a Flaminio Piccoli (allora presidente dei deputati Dc), infatti, aveva chiesto di far «intervenire il colonnello Giovannone, che Cossiga stima». Prima di morire, nel 1995, Ferraro affidò ad Arconte il messaggio originale che G-71 gli aveva consegnato a Beirut. Aveva evidentemente paura di essere ucciso. Un messaggio che prova inequivocabilmente che negli apparati dello Stato c’era chi sapeva che si stava preparando il sequestro di Moro. Agghiacciante il fatto che il presidente della Dc non venne avvertito e protetto. Partì allora una velenosa campagna di delegittimazione contro Arconte, naufragata però tra sentenze e perizie che gli hanno dato ragione. Perfino Cossiga e Andreotti provarono a minarne la credibilità. Inutilmente. C’è infine un altro gladiatore sardo nel “caso Moro”. È Piero Francesco Cancedda, nome in codice “Franz . Era infiltrato in Cecoslovacchia. Fu lui a far uscire dalla cortina di ferro la notizia del covo Br in via Gradoli. Notizia che il capitano Labruna passò alla polizia e alla moglie di Moro. Ma qualcuno non volle capire l’informazione. (p.m.) 

14.2.12

libero dopo 20 da innocente . condannato perchè la confessione di un altro indagato era styata estorta con la tortura essione di un altro indagato era stata estorta con la tortura

un altro caso  (vedere  qui il precedente)  di confessioni estorte  con la  tortura , prima delle  torture  del carcere di Bolzaneto   cioè   G8 di Genova  del 2001  è  la  storia  di Giuseppe Gulotta ne  trovate la storia  sotto insieme  al video  e  alcuni  link   a  fine post  sulla  vicenda  

da  repubblica  online del  13\2\2012

Ventuno anni all'ergastolo, era innocente
"Chi mi ridarà la mia vita perduta?"


Giuseppe Gulotta con il suo avvocato Salvatore Lauria


Giuseppe Gulotta con il suo avvocato Salvatore Lauria
Giuseppe Gulotta aveva 18 anni quando venne prelevato e portato nella caserma dei carabinieri di Alcamo come sospettato dell'omicidio di due militari dell'Arma.                                     Venne picchiato e seviziato per ore finché non confessò quello che non aveva fatto                                                   
Poi ritrattò invano.  IL processo nel '90 con la condanna a vita. Nel 2007,con il pentimento di uno dei carabinieri che parteciparono all'interrogatorio,il nuovo processo e, oggi, la sentenza: "Non è colpevole.                    
Lo Stato deve restituirgli libertà e dignità"Dopo 21 anni, 2 mesi, 15 giorni e sette ore di carcere, Giuseppe Gulotta, adesso cinquantenne, ha ottenuto giustizia e dignità. Alle ore 17,35 di oggi la Corte d'Appello di Reggio Calabria dove si è celebrato il processo di revisione, ha pronunciato la sentenza. Giuseppe Gulotta è innocente, e da oggi non è più un ergastolano, non è l'assassino che il 26 gennaio del 1976 avrebbe ucciso, assieme ad altri complici, due carabinieri, Salvatore Falcetta e Carmine Apuzzo, in un attentato alla caserma di Alcamo Marina, un paese al confine tra le province di Palermo e Trapani.

"Gulotta non c'entra nulla; abbiamo il dovere di proscioglierlo da ogni accusa e restituirgli la dignità che la giustizia gli ha indebitamente tolto" ha detto oggi la pubblica accusa prima che la corte si riunisse in camera di consiglio per emettere una sentenza di assoluzione che Giuseppe Gulotta  ( foto   sotto   a  sinistra  )  attendeva da troppo tempo. Da quando, 35 anni fa, appena diciottenne, fu arrestato, condotto in carcere e, più tardi, dopo la durissima trafila dei diversi gradi processuali, condannato all'ergastolo definitivamente. E con lui gli altri tre suoi presunti complici: due sono ancora latitanti in Brasile; il terzo, Giuseppe Vesco, si suicidò in carcere qualche anno dopo il suo arresto.
Ad accusare Gulotta della strage fu appunto Giuseppe Vesco, considerato il capo della banda, suicidatosi - in circostanze non del tutto chiare - nelle carceri di ''San Giuliano'' a Trapani, nell'ottobre del 1976. A provocare la revisione del processo che si è finalmente concluso oggi con l'assoluzione di Gulotta, sono state le dichiarazioni, molto tardive, di un ex ufficiale dei carabinieri Renato Olino che nel 2007 raccontò che le confessioni di Gulotta e degli altri erano state ottenute a seguito di terribili torture da parte dei carabinieri. Olino, che si era dimesso dal'Arma proprio in seguito alla vicenda di Alcamo, non aveva retto al rimorso e aveva deciso di dire la verità. Gli altri carabinieri, oggi quasi tutti molto anziani, hanno fatto qualche ammissione o si sono rifiutati di rispondere. Ma la giustizia ha trovato elementi sufficienti per il processo di revisione e per questa assoluzione che, inevitabilmente, dovrebbe aprire la strada a un congruo risarcimento per gli imputati. Anche per gli altri due condannati, Vincenzo Ferrantelli e Gaetano Santangelo, fuggiti all'estero prima che la condanna diventasse esecutiva, ci sarà adesso la revisione. 
La notte del 27 Gennaio di quell'anno Carmine Apuzzo (19 anni) e l'appuntato Salvatore Falcetta, due militari dell'Arma, 




furono trucidati da alcuni uomini che avevano fatto irruzione nella piccola caserma di Alcamo Marina. L'attacco suscitò ovviamente forte impressione in Sicilia e in tutta Italia. Si puntò sulla pista politica e finirono nel mirino delle indagini alcuni giovani di sinistra. Pochi giorni dopo venne fermato un giovane alcamese, Giuseppe Vesco, trovato in possesso di una pistola in dotazione ai carabinieri. La sua casa venne perquisita e saltò fuori anche l'arma utilizzata per il delitto. Il giovane, però, si dichiarò estraneo ai fatti affermando soltanto che aveva avuto il compito di consegnare delle armi. In seguito alle pressioni dei carabinieri, Giuseppe Vesco cambiò rapidamente la sua versione: condusse gli inquirenti al luogo in cui erano conservati gli indumenti e gli effetti personali dei due agenti uccisi (in una stalla di proprietà di Giovanni Mandalà, un bottaio di Partinico), dichiarò di aver fatto parte del commando che aveva fatto irruzione nella casermetta e fece il nome dei suoi tre complici: Gulotta, Ferrantelli e Santangelo.
Dopo poco tempo Vesco ritrattò tutto e dichiarò che quanto da lui affermato era stato ottenuto in seguito di terribili torture. Nelle sue lettere dal carcere San Giuliano di Trapani descrive minuziosamente il comportamento dei carabinieri e come erano state estorte le confessioni dei fermati. Ma pochi giorni prima di essere nuovamente ascoltato dagli inquirenti, venne trovato impiccato nella sua cella, con una corda legata alle grate della finestra, cosa resa abbastanza difficile dal fatto che a Vesco era stata amputata una mano a causa di un incidente. E proprio a questa vicenda si legano le confessioni del pentito Vincenzo Calcara, che lascia intravedere una verità fino ad ora soltanto accennata, ma resa più concreta anche da alcune rivelazioni in cui si attesta una collaborazione tra mafia e Stato. Calcara avrebbe affermato che gli venne intimato di lasciare da solo in cella Giuseppe Vesco e che lo stesso venne ucciso da un mafioso aiutato da due guardie carcerarie. 
Anche quanto affermato dal pentito Peppe Ferro libera i quattro dalle gravi accuse: "Li ho conosciuti in carcere quei ragazzi arrestati... Erano solamente delle vittime... pensavamo che era una cosa dei carabinieri, che fosse qualcosa di qualche servizio segreto". 
Dopo la chiamata di correità di Vesco, Giuseppe Gulotta fu arrestato e massacrato di botte per una notte intera. La mattina, dopo i calci, i pugni, le pistole puntate alla tempia, i colpi ai genitali e le bevute di acqua salata, avrebbe confessato qualunque cosa e firmò un documento in cui affermava di aver partecipato all'attacco alla caserma. Il giorno dopo, davanti al procuratore, Gulotta ritrattò tutto e provò a spiegare quello che gli era successo. Non venne mai creduto, neanche al processo che, nel 1990 lo condannò in via definitiva all'ergastolo. Poi, nel 2007, la confessione di Olino e la revisione chiesta e ottenuta dal suo avvocato Salvatore Lauria. Oggi l'assoluzione. Ma Giuseppe Gulotta ha trascorso gran parte della sua vita in carcere. Durante un breve periodo di soggiorno si è sposato con la donna che lo ha sempre "protetto" e che gli ha dato un figlio. Adesso, completamente libero, andrà a vivere a Certaldo, in Toscana, dove, da quando è in semilibertà, fa il muratore. "Sono felice di essere stato riconosciuto finalmente innocente. Ma chi potrà mai farmi riavere la gioventù che ho passato in carcere, chi potrà mai darmi quegli anni che ho perduto senza potere crescere mio figlio?".

APPROFONDIMENTI

http://it.wikipedia.org/wiki/Strage_di_Alcamo_Marinacon una  munita  biografia  e ottime note  
http://www.youtube.com/watch?v=fvQ-RyWEPdc&feature=related estratto della puntata  di blu notte sulla  strage di Alcamo

il libro 


contorinchiesta su abusi ed eccidi delle forze dell'ordine in Italia dal 1943 al 1976   edito  da  Stampa alternativa di Gianni Viola e Mario Pizzola dove a pag 86 si parla dei fatti di Alcamo











emergenza femminicidi non basta una legge che aumenti le pene ma serve una campaga educativa altrimenti è come svuotare il mare con un secchiello

Apro l'email  e tovo  queste  "lettere "   di  alcuni haters  \odiatori  ,  tralasciando  gli  insulti  e le  solite  litanie ...