Un brigadiere sardo: «Moro, la verità» Caso riaperto. Il racconto: «Stavamo per liberarlo, una telefonata ci fermò e poi lo uccisero»


  Questo articoli    che costituiscono il post  d'oggi  .  tratti  dalla  nuova  sardegna  del  23\6\2013 , costituiscono una sorta di  mia  rivincita     verso chi mi dice  : <<  sei complottista .,  leggi  troppi siti   , letteratura  e fumetti  noir  \  gialli .,  lavori troppo di fantasia  , vedi misteri  ovunque , oppure   mi dicono  sei un  po'  matto , ecc  o mi fanno  delle parodie  come  questa la  lunga notte dell'ispettore scaneau  >>
Ma  io me ne  frego  perchè  il matto : 

(...) 

Di cause perse
E di buoni motivi
Il matto arriva con le pezze al culo
E se ti vede ti tende la mano
Il matto parla con lo sguardo perso
Sogna forte
E vede lontano
Il matto parla e grida e scherza
E ti guarda, poi ride di gusto



Ma  ora   bado alle  ciancie   ed  eccovi   gli articoli in questione  buona lettura  



Finanziere sardo: una telefonata fermò il blitz per liberare Moro
La palazzina di via Montalcini era controllata dai servizi segreti dalla metà di aprile del 1978
Le teste di cuoio dovevano entrare in azione l’8 maggio, 24 ore dopo le Br uccisero il presidente dc


di Piero Mannironi
 ROMA



Le clamorose rivelazioni di un ex finanziere sardo e di un gladiatore che faceva l’istruttore a Poglina
riaprono il “caso Moro”. I due hanno raccontato  che la prigione del presidente della Dc in via  Montalcini era stata identificata e messasotto  controllo. Ma l’8 maggio 1978 il blitz per liberare Moro fu bloccato da una telefonata arrivata dal Viminale. Il giorno dopo le Brigate Rosse assassinarono
lo statista dc. L’ex magistrato Ferdinando Imposimato, che aveva istruito le inchieste sul rapimento
Moro e che ha raccolto queste testimonianze,ha presentato un esposto alla procura della Repubblica di Roma che ha riaperto il caso.
Le sentenze non scrivono la storia e tanto meno le storie possono chiudersi con una sentenza. Perché ci sono verità che restano nascoste in fondo a bui abissi, protette dalla paura di chi sa e dal cinismo di poteri che non vogliono farle emergere. Così è per il sequestro e la morte del presidente della Democrazia cristiana Aldo Moro, avvenuta il 9 maggio del 1978. Vicenda scritta dalla ferocia delle Brigate Rosse, ma forse anche da oscuri burattinai che sono rimasti finora nell'ombra. Dunque, una storia che ancora nasconde nelle sue pieghe torbide presenze e regie occulte che inchieste e processi non sono riusciti a svelare. Ma il tempo corrompe le complicità, modifica gli scenari e affranca le coscienze.Così,dopo 35 anni, è possibile che la storia della morte di Moro possa essere riscritta, liberata dalle catene del silenzio e dei depistaggi.Nei giorni scorsi la procura della Repubblica di Roma ha infatti riaperto il caso, in seguito alla presentazione di una denuncia che propone una sconvolgente ipotesi: la prigione di Moro, in via Montalcini 8  ( foto sottoa  destra  )  ,  a Roma, era stata individuata dai servizi segreti e da Gladio e controllata per settimane.
 Non solo: l'8 maggio del 1978 lo statista Dc che sognava di cambiare la politica italiana doveva essere liberato con un blitz delle teste di cuoio dei carabinieri e della polizia, ma una telefonata dal Viminale bloccò tutto.La Renault rossa. E il giorno dopo Moro fu ucciso. Il suo cadavere fu fatto ritrovare nel portabagagli di una Renault rossa in via Caetani. In quel momento la storia italiana deragliò da un percorso progettato da Moro e dal suo amico-nemico Berlinguer,tornando nello schema ortodosso della politica dei blocchi e incamminandosi poi verso un tragico declino morale. Per la procura romana impossibile sottovalutare quell' esposto. Perché a redigerlo e depositarlo è stato Ferdinando Imposimato, oggi avvocato,ma soprattutto presidente onorario aggiunto della suprema corte di Cassazione e in passato magistrato che ha seguito alcune
tra le più complesse e importanti inchieste della storia del Paese. Come quelle sul sequestro-omicidio di Aldo Moro.
A fornire a Imposimato la chiave che ha consentito di aprire questa nuova porta sul caso Moro è stato un sardo,Giovanni Ladu che ha oggi 54 anni.Un brigadiere della guardia di finanza in servizio a Novara che, nel 1978, era militare di leva nel corpo dei bersaglieri e fu testimone della decisione che condannò a morte Moro. Imposimato conobbe Ladu nell'ottobre del 2008. Si presentò nel suo studio all'Eur insieme a due colleghi, autorizzato  dal suo comandante. Aveva scritto un breve memoriale nel
quale sosteneva di essere stato,con altri militari a Roma, in via Montalcini per sorvegliare l'appartamento-prigione in cui era tenuto il presidente della Democrazia cristiana. Un appostamento cominciato il 24 aprile 1978 e conclusosi l'8 maggio, alla vigilia dell'omicidio di Moro.
Perché Ladu aveva atteso ben 30 anni prima di parlare? «Avevo avuto la consegna del silenzio e il vincolo al segreto - disse -, ma soprattutto avevo paura per la mia incolumità e per quella di mia moglie. La decisione di parlare mi costa molto,ma oggi spero che anche altri,tra quelli che parteciparono con me all'operazione trovino il coraggio di parlare per ricostruire la verità sul caso Moro ».


Nome in codice: Archimede. Ladu raccontò così che il 20 aprile del 1978 era partito dalla Sardegna
per il servizio militare.Destinazione: 231° battaglione bersaglieri Valbella di Avellino. Dopo tre giorni, lui e altri 39 militari di leva, furono fatti salire su un autobus, trasportati a Roma e alloggiati nella caserma dei carabinieri sulla via Aurelia,vicino all'Hotel Ergife. Furono divisi in quattro squadre e istruiti sulla loro missione:sorveglianza e controllo di uno stabile. A tutti i militari fu attribuito uno pseudonimo: Ladu diventò “Archimede”. Lui e la sua squadra presero possesso di un appartamento in via Montalcini che si trovava a poche  decine di metri dalla casa dove, dissero gli ufficiali che coordinavano l'operazione,«era tenuto prigioniero un uomo politico che era stato rapito ». Il nome di Moro non venne fatto, ma tutti capirono. Il racconto di Ladu era ricco di dettagli: controllo visivo 24 ore su 24, microtelecamere nascoste nei lampioni, controllo della spazzatura nei cassonetti.
Per mimetizzarsi indossavano tute dell'Enel o del servizio di nettezza urbana. Così controllarono gli spostamenti di "Baffo" (poi riconosciuto come Mario Moretti) che entrava e usciva sempre con una valigetta o  della "Miss" (Barbara Balzerani). Un giorno Ladu fu inviato con un commilitone a verificare l'impianto delle telecamere all'interno della palazzina dove era detenuto Moro. Era vestito
da operaio. Invece di premere l'interruttore della luce, il brigadiere sardo suonò il campanello. Aprì la "Miss" e Ladu improvvisò con prontezza di spirito, chiedendo se era possibile avere dell'acqua.
Il piano di evacuazione. Il racconto era agghiacciante nella sua precisione. Nell'appartamento sopra la prigione di Moro,poi, erano stati piazzati dei microfoni che captavano le conversazioni. La cosa che stupì Ladu era che il personale addetto alle intercettazioni parlava inglese. «Scoprimmo in seguito
- ricordò - che si trattava di agenti segreti di altre nazioni, anchese erano i nostri 007 a sovrintendere a tutte le operazioni ». Altri particolari: era stato predisposto un piano di evacuazione molto discreto per gli abitanti della palazzina ed era stata montana una grande tenda in un canalone vicino, dove era stata approntata un'infermeria nel caso ci fossero stati dei feriti nel blitz delle teste di cuoio.
«L'8 maggio tutto era pronto - disse ancora Ladu - , ma accadde l'impensabile. Quello stesso giorno, alla vigilia dell'irruzione,ci comunicarono che dovevamo preparare i nostri bagagli perché abbandonavamo la missione. Andammo via tutti, compresi i corpi speciali pronti per il blitz e gli agenti segreti.
Rimanemmo tutti interdetti perché non capivamo il motivo di questo abbandono.La nostra impressione fu che Moro doveva morire».
Nella caserma dei carabinieri sull'Aurelia Ladu raccontò di aver sentito dire da alcuni militari dei corpi speciali che tutto era stato bloccato da una telefonata arrivata dal ministero dell'Interno. Mentre smobilitavano,un capitano intimò al brigadiere sardo: «Dimenticati di tutto quello che hai fatto in questi ultimi 15 giorni».
“Brillantina Linetti”. Successivamente, seguendo una trasmissione in tv, Ladu riconobbe uno degli ufficiali che coordinavano l'operazione: era il generale Gianadelio Maletti (ex capo del controspionaggio del Sid ) che i militari avevano soprannominato, per la sua pettinatura, "Brillantina Linetti".Imposimato rimase inizialmenteolto perplesso e diffidente.Il racconto di Ladu sconvolgeva
tutte le esperienze investigative precedenti, ne annullava tutte le certezze e, soprattutto,poneva un problema terribile: bloccando il blitz,qualcuno aveva decretato la morte di Aldo Moro. Per quattro
anni, così, quel racconto rimase sospeso, in attesa di conferme e riscontri. Fino a quando non comparve il gladiatore Oscar Puddu. Con lui il quadro di quei giorni drammatici del 1978 sembrò completarsi e trovare una nuova credibilità. Nel mentre, Imposimato aveva conosciuto i gladiatori sardi Arconte e Cancedda e sentito i loro sconvolgenti racconti sul caso Moro. Confermavano che nel mondo dei servizi segreti si sapeva dell’imminente sequestro di Moro.
Giovanni Ladu, poi, non aveva e non ha alcun interesse a risvegliare i fantasmi che popolano uno dei fatti più oscuri della vita della Repubblica. Lui, soldato di leva in quel 1978, venne proiettato in un
universo sconosciuto del quale sapeva poco o nulla. La scelta del Sismi di utilizzare questo manipolo di ragazzi era originata dal fatto che, vista l’età, erano meno visibili, meno sospettabili da parte dei terroristi. Ladu, dopo aver parlato con Imposimato, fu poi interrogato il 9 settembre 2010 dal pm romano Pietro Saviotti.Lo stop a Dalla Chiesa. Resta da capire, a questo punto, chi fece quella telefonata che condannò a morte Aldo Moro. Chi poteva ordinare al generale Musumeci,coordinatore dell’operazione Moro, di fermare tutto?L’unica risposta possibile è:Cossiga e Andreotti. Uno ministro
dell’Interno e l’altro presidente del Consiglio. D’altra parte, la fatidica telefonata arrivò dal Viminale. Poi, sempre secondo quanto ha raccontato il gladiatore Oscar Puddu, il generale dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa insisteva per il blitz, ma fu bloccato da Andreotti e da Cossiga. Lo convocarono
a Forte Braschi, la sede del Sismi, e lo redarguirono duramente.


  e sempre  dallo stesso  giornale parlano  : il  giudice  imposimato  ,  e   due  gladiatori  (   Oscar Puddu era istruttore di elettronica nella base di Gladio a Poglina Lavorò nella centrale di intercettazione e allestita sopra l’appartamento-prigione   e   l’agente Antonino Arconte noto  G-71  ) 

 Ferdinando Imposimato: «Quei sardi
così leali con le istituzioni vanno premiati» 
Il vecchio vizio non lo ha mai abbandonato. Lui, Fernando Imposimato (nella foto),oggi avvocato penalista, non ha mai tradito la sua vera natura di investigatore acuto e di talento. Come magistrato ha cercato di penetrare in alcuni dei più oscuri misteri italiani: dall'attentato al Papa Giovanni Paolo II al sequestro-omicidio Moro. Della morte dello statista democristiano pensava di sapere tutto quello che era possibile sapere, dopo aver scandagliato i meandri del terrorismo e studiato lo scenario internazionale dove erano tanti i nemici di Aldo Moro. Come il potentissimo Henry Kissinger, ma anche il Kgb sovietico che gli aveva messo alle costole il capitano Feodor Sergey Sokolov. Imposimato, nel suo straordinario libro "I 55 giorni che hanno cambiato l'Italia", ricorda così la terribile confessione del braccio destro di Kissinger, Steve Pieczenik, che faceva parte del comitato di crisi parallelo, organizzato dall'allora ministro dell'Interno Francesco Cossiga: «Sono stato io, lo confesso, a preparare la manipolazione strategica che ha portato alla morte di Aldo Moro. Allo scopo dì stabilizzare la situazione italiana. Le Brigate rosse avrebbero potuto rilasciare Aldo Moro e così avrebbero senza dubbio conquistato un grande successo, aumentando la loro legittimità. Al contrario, io sono riuscito con la mia strategia, a creare una un'anime repulsione contro questo gruppo di terroristi e allo stesso tempo un rifiuto verso i comunisti. Il prezzo da pagare è stata la vita di Moro.». Imposimato ha così condotto una nuova inchiesta e le conclusioni sono diventate lo scheletro dell'esposto che ha presentato alla procura della Repubblica di Roma. Giovanni Ladu, Oscar Puddu, Nino Arconte, Pier Francesco Cancedda. Tutti sardi. Hanno avuto un ruolo fondamentale nella riapertura del caso. Di loro Imposimato dice: «Questi sardi, così leali alle istituzioni, mi hanno riconciliato con la speranza. Hanno affrontato rischi gravissimi per onorare la loro fedeltà allo Stato. Proporrò che venga concesso loro il premio Emanuela Loi».

 Oscar Puddu era istruttore di elettronica nella base di Gladio a Poglina
Lavorò nella centrale di intercettazione allestita sopra l’appartamento-prigione 
Microfoni e microcamere
per spiare i terroristi
ROMA La svolta arrivò alle 15,35 del 13 settembre 2012 con una e-mail firmata con il nome fittizio Oscar Puddu. Il misterioso personaggio aveva appena letto il libro-inchiesta di Imposimato "Doveva morire" e proponeva all'ex magistrato notizie sul caso Moro, che aveva appreso per esperienza diretta. Questo l'identikit che Puddu fece di se: ufficiale dell'Esercito, nato a Gorizia, istruttore per quattro anni nella base segreta di Gladio a Poglina, vicino ad Alghero. Esperto di elettronica. Imposimato mostrò inizialmente una grande diffidenza verso questo personaggio senza volto che, «per motivi di sicurezza», preferiva restare nascosto dietro uno pseudonimo. Poi, sentendo il suo racconto che coincideva in modo incredibile con quello fattogli 4 anni prima dal brigadiere Giovanni Ladu, sospettò perfino che si trattasse della stessa persona. Ecco, in estrema sintesi, cosa disse Puddu. Quattro giorni dopo l'agguato di via Fani fu spostato da Poglina a Roma, prima nella caserma di forte Boccea, poi a Forte Braschi, sede del servizio segreto militare. Il suo corpo di appartenenza era il Sismi, ma faceva parte anche della struttura supersegreta Gladio. Per le sue conoscenze di elettronica, Puddu veniva chiamato in codice "Sapienza". Il racconto di Ladu veniva drammaticamente confermato in ogni dettaglio. Il covo delle Br in via Montalcini era circondato e controllato. A capo delle operazioni c'erano il direttore del Sismi Giuseppe Santovito, il suo braccio destro Pietro Musumeci e il generale Gianadelio Maletti. Nell'appartamento sopra la prigione di Moro le apparecchiature elettroniche di intercettazione e le microcamere erano gestite da uomini delle Sas inglesi e del Bnd tedesco, ma anche gli uomini di Gladio si alternavano all'ascolto. Il giorno prima del blitz programmato, che doveva essere attuato da otto uomini del Gis dei carabinieri, arrivò l'ordine di smobilitazione. «Sconcerto» è la parola che il gladiatore usò per definire lo stato d'animo degli 007 italiani e stranieri coinvolti nell'operazione. Alla domanda di Imposimato su chi fosse andato nella sede del Sismi a Forte Braschi durante il periodo di controllo in via Montalcini, il gladiatore Puddu rispose: Andreotti e Zaccagnini. Cossiga no, ma, aggiunse, che era sempre presente un uomo di fiducia dell'ex presidente della Repubblica, nome in codice “Aquila”. Si tratterebbe del sottosegretario all’Interno Nicola Lettieri. I pezzi del mosaico andavano così tutti al loro posto. I racconti di Ladu e di Puddu si completavano a vicenda. Ma, incredibilmente, c'erano anche altre tessere prima non capite che trovavano finalmente un posto e una congruenza. Come l'incontro tra Imposimato e un ex carabiniere, tale Alfonso Ferrara, che il 3 settembre 2009 lo avvicinò durante la presentazione di un libro. Ferrara raccontò che nel maggio 1978 era giunto da Milano a Roma con altri commilitoni per liberare il presidente della Dc. «Arrivammo quasi nell'androne delle scale dove era la prigione di Moro - disse - quando ricevemmo l'ordine di tornare indietro. Moro era ancora vivo. Il giorno dopo l'hanno ucciso». Ferrara faceva parte dei reparti speciali creati dal generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Che quindi sapeva tutto, visto che i suoi uomini erano coinvolti nel blitz in via Montalcini. Imposimato riferisce poi una quarta storia, parallela a quelle di Ladu, Puddu e Ferrara, secondo la quale dell'operazione facevano parte anche i Nocs della polizia. L'apprese dal giornalista Pino Nicotri che gli parlò del racconto fattogli nell'agosto 1993 da un docente gesuita. Un suo allievo si era arruolato in polizia e poi era entrato nelle teste di cuoio dei Nocs. Al suo ex professore e padre spirituale aveva raccontato che erano arrivati alla casa vicina a quella dove stava Moro. Erano ad appena 20 metri quando ricevettero l'ordine di fermarsi. Il poliziotto era rimasto tanto schifato che si era dimesso dalla polizia. In conclusione, il mosaico ricomposto da Imposimato pone interrogativi inquietanti e rilancia la tesi del complotto. E cioè che Moro poteva essere salvato. Anzi, stava per essere liberato, ma qualcuno decise di fermare tutto, condannando a morte il presidente della Dc. Il lavoro della procura di Roma riprende da qui. (p.m.)


Ordine al colonnello Giovannone: chiedere ai palestinesi di far pressione sulle Br 
Il viaggio a Beirut dell’agente G-71
SASSARI In alcuni ambienti dei servizi segreti si sapeva che il presidente della Dc Aldo Moro sarebbe stato sequestrato dalle Brigate rosse. Sicuramente la notizia era arrivata alla struttura super segreta Gladio, che si attivò subito per affrontare e gestire la crisi. La prova è nel racconto del super agente
Antonino Arconte, oggi 59enne, sardo di Cabras, nome in codice G-71  (  foto  a  sinistra  )  . «Partii dal porto della Spezia il 6 marzo 1978, a bordo del mercantile Jumbo Emme. Sulla carta era una missione molto semplice: avrei dovuto ricevere da un nostro uomo a Beirut dei passaporti che avrei poi dovuto consegnare ad Alessandria d'Egitto. Dovevo poi aiutare alcune persone a fuggire dal Libano in fiamme, nascondendole a bordo della nave. Ma c'era un livello più delicato e più segreto in quella missione. Dovevo infatti consegnare un plico a un nostro uomo a Beirut. In quella busta c'era l'ordine di contattare i terroristi palestinesi per aprire un canale con le Br, con l'obiettivo di favorire la liberazione di Aldo Moro». E qui, ecco il mistero: il documento è del 2 marzo '78 e viene consegnato a Beirut il 13. Moro verrà rapito dalle Br il 16. Cioè, nel mondo sotterraneo degli 007 qualcuno si mosse per liberare il presidente della Dc, prima del rapimento. Quindi, si sapeva che Moro sarebbe stato sequestrato. Arconte non conosce i retroscena. «Per me è un mistero. Io dovevo solo effettuare la consegna. D'altra parte, il mio lavoro era quello di fare da istruttore militare. Addestravo "ribelli" e profughi in zone calde. Soprattutto in Africa». Arconte consegnò a Beirut il 13 marzo 1978 il documento “a distruzione immediata” al gladiatore G-219. Il destinatario finale del plico era il gladiatore G-216. Il primo era il colonnello Mario Ferraro, passato poi al Sismi, che venne trovato impiccato a un portasciugamani nella sua abitazione romana, nel 1995. Una morte molto strana, archiviata come suicidio, ma che non ha mai convinto i familiari dello 007. G-216, invece, è il colonnello Stefano Giovannone, capocentro dei servizi segreti militari italiani in Medio Oriente. Giovannone, conosciuto tra le "barbe finte" come “Stefano D'Arabia” o come “Il Maestro”, era, guarda caso, un uomo fidatissimo di Aldo Moro, del quale condivideva la linea filopalestinese. E dalla prigione delle Br Moro chiese l'aiuto di Giovannone. Scrivendo a Flaminio Piccoli (allora presidente dei deputati Dc), infatti, aveva chiesto di far «intervenire il colonnello Giovannone, che Cossiga stima». Prima di morire, nel 1995, Ferraro affidò ad Arconte il messaggio originale che G-71 gli aveva consegnato a Beirut. Aveva evidentemente paura di essere ucciso. Un messaggio che prova inequivocabilmente che negli apparati dello Stato c’era chi sapeva che si stava preparando il sequestro di Moro. Agghiacciante il fatto che il presidente della Dc non venne avvertito e protetto. Partì allora una velenosa campagna di delegittimazione contro Arconte, naufragata però tra sentenze e perizie che gli hanno dato ragione. Perfino Cossiga e Andreotti provarono a minarne la credibilità. Inutilmente. C’è infine un altro gladiatore sardo nel “caso Moro”. È Piero Francesco Cancedda, nome in codice “Franz . Era infiltrato in Cecoslovacchia. Fu lui a far uscire dalla cortina di ferro la notizia del covo Br in via Gradoli. Notizia che il capitano Labruna passò alla polizia e alla moglie di Moro. Ma qualcuno non volle capire l’informazione. (p.m.) 

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